di Marco Neri

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Era l’autunno del 2002 ed era appena iniziata una spettacolare quanto drammatica eruzione dell’Etna, che con le sue fratture aveva aperto il vulcano in due, da Nord a Sud. Nel corso delle prime ore la lava fluiva impetuosa a Piano Provenzana, togliendo molto alla gente di Etna Nord, ma dando tanto ai vulcanologi, attraverso una quantità enorme di dati acquisiti dalle reti di monitoraggio. Quei dati avrebbero successivamente consentito agli scienziati di tutto il mondo di descrivere con dettagli mai raggiunti prima come funziona il nostro vulcano. Tra quegli scienziati c’era Fedora Quattrocchi, una collega della sede romana dell’INGV, alle prese con un particolare strumento capace di rilevare il gas radon emesso dal suolo. Lo usava in prossimità delle faglie che stavano fratturando il suolo e che intendeva monitorare. E’ in quel momento che ho “scoperto” quanto può essere utile il radon nelle Geoscienze.

Il radon è un gas naturale che proviene dal decadimento radioattivo dell’Uranio che si trova nelle rocce. L’isotopo più stabile e maggiormente usato nelle Geoscienze è il 222Rn, caratterizzato da una emivita di poco meno di quattro giorni (cioè in 3,8 giorni si trasforma in un isotopo diverso). Il radon misurato in superficie può variare sia per processi che avvengono nel sottosuolo, sia per cause esogene come la pioggia, la pressione atmosferica, il vento. Pertanto, determinare a cosa attribuire la variazione del radon misurato in superficie non è semplice, né banale. Non basta, cioè, mostrare una apparente sincronia tra una variazione del radon ed un determinato fenomeno endogeno come un terremoto o un’eruzione; occorre prima “depurare” il segnale da ogni possibile componente ambientale esterna e poi individuare il modello fisico attraverso cui la variazione residuale può essere spiegata e verificata. Occorre, cioè, seguire il  metodo scientifico (o sperimentale), con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile e verificabile. Qualunque altro approccio diventa materia preferita dai ciarlatani, molto di moda in questi tempi in cui la presunta verità si misura sui “mi piace” dei social media, ma il cui fine ultimo è unicamente il proprio tornaconto personale quasi sempre meramente economico, e non certo il progresso scientifico o il bene della collettività.

Quindi, utilizzare il radon per monitorare i processi endogeni non è facile. Nel caso dell’Etna, però, abbiamo un vantaggio: è un vulcano molto attivo e pieno di faglie che frequentemente si muovono, generando in qualche caso terremoti abbastanza forti. Tutti ingredienti utilissimi per inventare, testare ed infine installare nuovi strumenti per monitorare il vulcano. Come le sonde che misurano le emissioni di radon dal suolo, appunto.

Dal 2005 ad oggi l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha installato una rete di sensori che misurano continuamente l’emissione di radon dal suolo, mentre analizza periodicamente il contenuto di radon nelle acque di falda e nei terreni di alcune località prossime a strutture tettoniche attive. Uno di questi strumenti è installato a circa un chilometro di distanza dell’area craterica sommitale dell’Etna, a 3000 metri di quota sul mare. Da quando questa sonda è stata installata, in località Torre del Filosofo, ha fornito dati molto utili alla ricerca.

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Di recente, insieme con altri colleghi dell’INGV di Catania (Susanna Falsaperla, Giuseppe Di Grazia, Horst Langer, Salvatore Spampinato) abbiamo confrontato i valori di radon acquisiti da quella sonda tra gennaio 2008 e luglio 2009, con molti altri dati forniti dalle reti di monitoraggio e sorveglianza installate sull’Etna. In quel periodo il vulcano è stato particolarmente attivo: terremoti sia isolati che concentrati in sciami, fratturazioni del suolo, una fontana di lava ed infine una eruzione lunga ben 419 giorni. Tante, diverse attività concentrate in un tempo relativamente breve, quindi un’occasione da non perdere per verificare quello che la sonda radon è in grado di rilevare. I risultati sono stati appena pubblicati su una rivista dell’American Geophysical Union (AGU) “Geochemistry, Geophysics, Geosystems” (doi:10.1002/2017GC006825).

Abbiamo compreso che la semplice analisi di come varia il radon nel tempo non sempre basta per risalire con certezza al motivo per cui ciò avviene. Né tantomeno quella sonda radon ci può anticipare quando si verificherà il prossimo terremoto. Ma ci può dire molte altre cose, forse anche più importanti: può dirci come funziona l’Etna.

La sonda di Torre del Filosofo, infatti, ha una collocazione veramente strategica, ai fini della ricerca. E’ collocata in prossimità dei crateri sommitali e quindi, logicamente, è influenzata dalle dinamiche eruttive che avvengono lungo il condotto centrale. Se il magma sale nel condotto, aumenta la pressione dei gas nei suoi immediati dintorni, arrivando quasi sempre ad influenzare anche la vicina sonda radon, i cui valori aumentano repentinamente e sincronicamente con l’aumento della temperatura delle fumarole presenti in zona. Queste variazioni vengono definite pulsazioni di gas (“gas pulse”, in lingua inglese).

La stessa sonda, però, è anche ubicata quasi al centro di un campo di fratture: è la zona di innesto del cosiddetto Rift di Sud nell’area craterica sommitale. Insomma, è una zona frequentemente sottoposta a stress tettonici e vulcanici, dove la roccia si spacca abbastanza facilmente attraverso un processo che viene definito come “rock fracturing”. Quando ciò accade, cambia temporaneamente la permeabilità delle rocce producendo, come conseguenza, una variazione delle quantità di radon registrate dalla sonda.

Infine, ci siamo accorti di un ulteriore fenomeno: anche sciami sismici avvenuti a distanza di molti chilometri dalla sonda di Torre del Filosofo hanno influenzato i valori di radon. Un fatto in prima battuta difficile da spiegare, se si pensa che le velocità di movimento dei gas nelle rocce si aggira attorno a 50-100 metri al giorno. La risposta, ancora una volta, si trova nella strategica collocazione della sonda di Torre del Filosofo. Essa, infatti, si trova su un campo di fratture fumarolizzato, dove la dinamica del vapore acqueo delle stesse fumarole può aumentare di molto la velocità di risalita del radon verso la superficie. In questo caso, invochiamo un processo definito, in inglese, con il termine “sloshing”, cioè sciabordio. In altre parole, lo scuotimento della roccia indotto da uno sciame sismico, anche distante molti chilometri dalla sonda radon, può provocare un movimento oscillatorio nelle falde acquifere e nei fluidi contenuti all’interno del vulcano. Questa oscillazione condiziona anche il vapore acqueo che risale attraverso le fumarole emergenti a Torre del Filosofo, col risultato di influenzare anche i valori di radon misurati in superficie.

Insomma, all’Etna non usiamo il radon per predire terremoti. Ma con il radon ne sappiamo di più su come funziona il vulcano.

Falsaperla, S., M. Neri, G. Di Grazia, H. Langer, and S. Spampinato (2017), What happens to in-soil Radon activity during a long-lasting eruption? Insights from Etna by multidisciplinary data analysis, Geochem. Geophys. Geosyst., 18, 5, 1-15, doi:10.1002/2017GC006825.

 

 

 

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