Scritti e Scrittori Archivi - Il Vulcanico https://ilvulcanico.it/category/scritti-e-scrittori/ Il Blog di Gaetano Perricone Sun, 19 Nov 2023 06:47:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.2 A Muntagna, Thea, Ferdinandea e tanto altro: dei miti e delle leggende del “mundus subterraneus” di Sicilia https://ilvulcanico.it/a-muntagna-thea-ferdinandea-e-tanto-altro-dei-miti-e-delle-leggende-del-mundus-subterraneus-di-sicilia/ Sun, 19 Nov 2023 06:47:01 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=24370 di Santo Scalia «Valerio Agnesi, professore emerito di Geografia Fisica e Geomorfologia dell’Università di Palermo, propone in questo volume miti e leggende legati al mundus subterraneus della Sicilia. Si tratta di meraviglie e prodigi presenti, con molteplici varianti, fin dai classici della letteratura greca e latina o giù di lì, ma che Agnesi descrive e […]

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di Santo Scalia

«Valerio Agnesi, professore emerito di Geografia Fisica e Geomorfologia dell’Università di Palermo, propone in questo volume miti e leggende legati al mundus subterraneus della Sicilia. Si tratta di meraviglie e prodigi presenti, con molteplici varianti, fin dai classici della letteratura greca e latina o giù di lì, ma che Agnesi descrive e decifra alla luce della moderna cultura geologica affermatasi, dall’Ottocento in poi, grazie all’opera di Charles Lyell, padre riconosciuto di questa giovane disciplina scientifica, e dei suoi numerosi epigoni».

Particolare da Mundus Subterraneus di Kircher, 1668 (BNF)

Cos’altro aggiungere a questa chiara e concisa presentazione di Franco Foresta Martin? Probabilmente nulla! Nelle sue prime righe c’è infatti il riferimento velato (ma non troppo) all’opera di Athanasius Kircher, l’autore della magnifica opera Mundus Subterraneus, pubblicata ad Amsterdam in tre diverse edizioni: la prima nel 1665, la seconda tre anni dopo, nel 1668; la terza, ed ultima, nel 1678. Ed è proprio dall’edizione del 1668 che viene tratta, e arricchita dal colore, l’immagine della copertina.

Particolare da Principles of Geology di Lyell, 10ma edizione – 1868 (Google books)

Nella presentazione segue immediatamente la citazione del “padre riconosciuto” della geologia, Charles Lyell, autore dei Principles of Geology, pubblicati in 3 volumi tra il 1830 ed il 1833.  Due grandissimi nomi, due mostri sacri delle discipline geologiche.

Dicevo che non avrei potuto aggiungere altro alla presentazione di Franco Foresta Martin, ed infatti è lo stesso che scrive ancora: «Sono storie dilettevoli, tutte tenute insieme da non poche qualità comuni: il recupero della tradizione storica e letteraria siciliana, la lettura in chiave scientifica e divulgativa anche delle più fantasiose suggestioni, la rigorosa citazione delle fonti antiche e moderne e, non ultime, la tensione narrativa e l’eleganza della prosa».

Il libro Miti e leggende della geologia siciliana, 230 pagine edite da Villaggio Letterario nella Collana Studi 4 elements  (23 euro), dà il posto d’onore – il primo capitolo – all’Etna: “A Muntagna” ne è il titolo. E del principale vulcano attivo d’Europa vengono ripercorsi storia, leggende, fatti e misfatti”.

L’Autore parla poi di giganti e di elefanti, di Maccalube, di Thea (la prima donna di Sicilia, i cui resti sono stati scoperti nella Grotta di San Teodoro e che oggi sono esposti in una apposita sala del Museo di Geologia “G. G. Gemmellaro” di Palermo); e tratta anche della leggenda di Santa Crescenzia, del coccodrillo del Papireto (uno dei due fiumi che attraversano il centro storico palermitano), del Monte Pellegrino e dell’isola che non c’è più, Ferdinandea.

Volutamente non aggiungo altri dettagli, non vorrei rovinare la sorpresa di chi leggerà questo volume. Devo però precisare che ogni capitolo è corredato da una attenta e accurata bibliografia.

Franco Foresta Martin

Per quei pochi che non conoscessero Franco Foresta Martin, ricordo che si tratta di un giornalista scientifico e geologo, che ha lavorato al giornale L’Ora di Palermo, poi per oltre 30 anni al Corriere della Sera ed è autore svariati di testi di divulgazione scientifica (come si legge in una delle pagine del sito web dell’Università Bocconi).

Valerio Agnesi

Dell’Autore, Valerio Agnesi, palermitano, lo stesso Foresta ha anticipato alcune note: aggiungo soltanto che svolge attività di ricerca in diversi ambiti della geomorfologia, con particolare riguardo della dinamica dei versanti, al carsismo, allo studio e alla gestione delle aree protette e alle problematiche di geomorfologia urbana.

 

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di Gaetano Perricone

La copertina del libro

All’ottima recensione di Santo Scalia, mi piace molto aggiungere quanto ho scritto su Facebook dopo avere letto questo magnifico libro

Ed a noi, in questo momento che le armi hanno ripreso a tuonare nell’Europa Orientale per il possesso di alcune terre, la storia di quest’isola contesa, che decise di sparire per mettere fine a dispute territoriali, ci sembra una metafora della saggezza della natura rispetto alla stoltezza degli uomini”.
Mi piace molto citare il passo finale, riferito alla mitica Isola Ferdinandea, di grande eleganza e drammatica attualità (manca il riferimento alla guerra in Medio Oriente, che non era ancora scoppiata quando il libro vide la luce) di questo straordinario volume di Valerio Agnesi – professore emerito di Geografica Fisica e Geomorfologia all’Università di Palermo, accademico di grande spessore ed esperienza, a lungo direttore del Museo Gemmellaro – che definisco letteralmente così perché va ben al di dell’ordinario di questo tipo di pubblicazioni.
Mettendo insieme, con estrema e dettagliata puntualità, le conoscenze geologiche aggiornate sui luoghi e gli affascinatissimi miti, leggende, storie, tanti conosciuti e altrettanti no ad essi legati, Valerio Agnesi ci accompagna in un appassionante e interessantissimo Grand Tour nella nostra Terra siciliana meravigliosa e maledetta: dall’Etna, a muntagna Patrimonio dell’umanità al Monte Pellegrino che domina Palermo, la Montagna sacra di Rosalia Sinibaldi; dalla Terra rivoltata, le Maccalube di Aragona alla Sodoma di Sicilia San Vito Lo Capo, alla fantastica  Ferdinandea, L’isola che non c’è più. E ci racconta di  ciclopi, giganti ed elefanti, di Thea prima donna di Sicilia, dei coccodrilli del Papireto a Palermo e di tanto, tanto altro. Con una narrazione fluente ed avvincente, che talvolta ci fa restare a bocca aperta e ci fa tornare bambini e un uso impeccabile di citazioni e note, come solo un grande docente e uomo di scienza ma anche di grande cultura qual è Valerio Agnesi è in grado di fare.
Senza nulla più spoilerare, aggiungo che Miti e leggende della geologia in Sicilia, sottotitolo accattivante Delle cose memorabili nelle viscere della terra, compendio originale e unico di scienza, mito letteratura, storia, cultura come si dice oggi “interdisciplinare”, è un bellissimo libro scritto benissimo per gli addetti ai lavori, i tanti geologi di una terra ricca di luoghi e risorse eccezionali, ma anche per il lettore comune, curioso di conoscenza e affascinato da storie antiche e meravigliose. La presentazione di Franco Foresta Martin, grandissima firma del giornalismo di divulgazione scientifica, è un arricchimento quanto mai prezioso.
Sono davvero onorato che l’autore Valerio Agnesi, amico di vecchia data, mi abbia coinvolto non soltanto per farmi conoscere la nuova pubblicazione, ma anche in vista di una possibile presentazione etnea.
Con il titolo: particolare della copertina del libro, dall’edizione del 1668 di Mundus Subterraneus

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Mexico, Italia-Germania 4-3 e tanto altro. Quell’irripetibile Anno Domini 1970 https://ilvulcanico.it/mexico-italia-germania-4-3-e-tanto-altro-quellirripetibile-anno-domini-1970/ Sat, 08 Apr 2023 04:57:31 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=23194 di Gaetano Perricone Quando un comunicato stampa è scritto bene ed è completo, basta e avanza per presentare un libro, una mostra, uno spettacolo, un evento. Così è per il libro 1970 – Romanzo di un anno irripetibile (Urbone Publishing, pagine 150, 15 Euro), in beneaugurante uscita online pasquale domani, domenica 9 aprile 2023, su Amazon […]

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di Gaetano Perricone

Con Adolfo Fantaccini, autore del libro, in una recentissima foto a Palermo

Quando un comunicato stampa è scritto bene ed è completo, basta e avanza per presentare un libro, una mostra, uno spettacolo, un evento. Così è per il libro 1970 – Romanzo di un anno irripetibile (Urbone Publishing, pagine 150, 15 Euro), in beneaugurante uscita online pasquale domani, domenica 9 aprile 2023, su Amazon e sul sito della casa editrice www.urbone.eu. 

E dunque potrei limitarmi a pubblicare integralmente l’ottimo comunicato che segue, certo di fare un buon servizio a questo bel libro che vede la luce e a chi lo ha scritto. Tutto questo se non fosse che l’autore si chiama Adolfo Fantaccini, è un bravissimo giornalista palermitano, ottimo professionista dell’agenzia Ansa e formidabile lavoratore, squisitissima persona, che ho avuto il grande piacere di conoscere giovanissimo e di “allevarlo” professionalmente in quella grande scuola del nostro mestiere e più in generale di vita che fu il glorioso giornale L’Ora, quotidiano palermitano chiuso in modo scellerato l’8 maggio 1992 dopo 92 anni di vita e di grandi battaglie contro la mafia e per la legalità.

La copertina del libro

Fantaccini è soprattutto un mio carissimo, fraterno amico: una di quelle amicizie profonde che nascono dalla stima maturata nella lunga quotidianità di un appassionante lavoro comune e che restano eterne, infrangibili per tutta la vita. Dunque non posso che condividere la sua gioia per la nascita del primo “figlio” – come lo abbiamo considerato tutti quelli che abbiamo avuto la fortuna di pubblicare per la prima volta un libro – , che ha francamente sorpreso in positivo anche me (inevitabilmente e con enorme piacere “test” di lettura) per il suo essere coinvolgente al di là dei fatti, importanti ed emozionanti, che vengono raccontati e per la sua profondità. Puntualizzo: conosco troppo bene Adolfo e so perfettamente quanto la superficialità sia lontanissima dalla sua persona, quello che intendo dire è che in questo suo primo e spero non ultimo libro insieme alla minuziosa, documentatissima narrazione – da quel formidabile archivio vivente di calcio che lui è fin da ragazzo – nei panni di un inviato speciale dei mitici Mondiali di Mexico 1970 e dei tanti altri eventi che accaddero in quel tempo, c’è anche la grande capacità di cogliere e trasmettere, con una serie di attente e acute riflessioni nostalgico-sociologiche, gli umori autentici e il senso di un anno che per molti versi fu davvero spartiacque, di passaggio tra un mondo di prima e uno di dopo, dunque irripetibile come ben sottolinea il titolo.

Non vado oltre per non spoilerare troppo. Lascio spazio per la sinossi e le note biografiche sull’autore al comunicato di presentazione, aggiungo soltanto che questo libro è una chicca da non perdere per gli appassionati di calcio della mia generazione che hanno vissuto sugli schermi della Tv il Mondiale di calcio del 1970, quelli di Italia-Germania 4-3 e della finalissima con il super Brasile di Pelè – avevo 14 anni e fu bellissimo seguirli con il mio papà – , ma anche per i più giovani che  hanno visto e stravisto quelle immagini senza vivere quei momenti e per i non tifosi di pallone, che pure avranno modo di rivivere intensamente tanti altri fatti straordinari di quei dodici mesi. E aggiungo ovviamente anche il mio più affettuoso augurio per il successo di quest’opera originale e interessante: ad maiora, carissimo Adolfo, per tutto quello che meriti dopo tanti anni di lavoro intensissimo, appassionato, egregio!

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Italia-Germania 4-3, l’esultanza di Gianni Rivera dopo il gol decisivo

SINOSSI – Esce domenica 9 aprile il libro 1970 ROMANZO DI UN ANNO IRRIPETIBILE, del giornalista Adolfo Fantaccini (Urbone Publishing – copertina realizzata da Emanuele Fucecchi) con la prefazione di Giovanni Scaramuzzino, storico radiocronista di Tutto il calcio minuto per minuto. Alcune sue parole: “Maledetto Covid. Ci ha cambiato la vita, ma ha anche schiuso orizzonti e percorsi diversi. È un bel viaggio, quello intrapreso da Adolfo Fantaccini, e lo stesso autore lo riassume così: ‘Il 1970 è stato un anno di grandi cambiamenti e di occasioni mancate. Cinquant’anni più tardi si sarebbe detto che in quel periodo era già successo tutto e che niente poteva più accadere’.

Le storie, i racconti e i ricordi, in grado di generare emozioni, di un giornalista che lavora per un quotidiano generalista e che al Mondiale del 1970 c’era, perché ce lo hanno mandato. I ricordi prendono corpo intrecciandosi intorno a un pallone, tra eventi di costume, fatti realmente accaduti e altri frutto della fantasia dell’autore, ricordi e aneddoti.

L’autore lo presenta, per la prima volta dal vivo, mercoledì 19 aprile all’Ambasciata Messicana d’Italia di Roma (ore 18,30 – Via Lazzaro Spallanzani 16 – per info e prenotazione posti: 06 441606 o [email protected]). Io ci sarò, non posso mancare. All’incontro parteciperanno anche l’Ambasciatore Messicano in Italia Carlos Garcia De Alba e i giornalisti Giovanni Scaramuzzino e Luca Telese, che dialogheranno con Adolfo Fantaccini del libro e dei suoi contenuti, ma anche dei ricordi e degli aneddoti che l’hanno spinto a scriverlo. “Il Mondiale messicano è stata una magica illusione, per quell’epoca rappresentò un salto nel futuro, ma soprattutto una struggente suggestione planetaria. Il calcio ingiallito e in bianco e nero si preparava a fare spazio a colori invitanti, sgargianti e ovattati, a giochi d’ombra mai visti, con quel sole che a mezzogiorno illumina i volti e li rende così pieni di ombre dal sapore onirico. Le immagini che sarebbero rimbalzate in ogni dove dagli altipiani tanto cari a Montezuma avrebbero avuto qualcosa di magico e innaturale. Mondiale di rivoluzioni, nel Paese delle rivoluzioni, nell’anno in cui la grande utopia cominciava a fare spazio alla consapevolezza” commenta l’autore. Prima presentazione siciliana l’1 giugno a Palermo, alla Biblioteca Centrale Regionale.

Quello del 1970 è stato un Mondiale di rivoluzioni, nel Paese delle rivoluzioni, nell’anno in cui la grande utopia cominciava a fare spazio alla consapevolezza. Il Messico si apprestava a celebrare il festival dello sport più bello del mondo, ma anche l’ultima rappresentazione del suo capo spirituale: Edson Arantes do Nascimento, che il mondo aveva conosciuto semplicemente e solo come Pelé. Il Messico si inchina al Dio pallone e il mondo, così pieno di sussulti di passione, è pronto a seguire il primo torneo in diretta televisiva via satellite. Già questa è una rivoluzione. Da questo momento il calcio non sarà più lo stesso e la tv non sarà solo un elettrodomestico costoso e ambito, ma una compagna di viaggio di tante vite.

Il 1970 è forse l’ultima, vera illusione, un bivio che porterà, oltre a una débacle pubblica, a una deriva di valori che fa da spartiacque. È il prologo dell’inizio della fine della grande illusione. Questo libro vuole raccontare tutto quello che si proietta sullo sfondo del “MONDIALE”. Non solo gol e passioni, illusioni e ambizioni, ma anche storia, cultura, musica, cinema e costume. “Non troppe pagine, solo la giusta dose di memoria per riportare alla luce i ricordi di un passato intramontabile conclude Adolfo Fantaccini – Ci sono le musiche del tempo, i fatti accaduti, i protagonisti di ogni scenario, i grandi cambiamenti e tutto quello che accadde nel 1970. Non solo calcio, o sport, dunque, ma emozioni”.

Il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970. Accanto il leggendario chitarrista Jimi Hendrix, morto due giorni dopo, il 18 settembre

Lo spiega bene l’Ansa, che scrive tra l’altro nella nota di presentazione del volume: Il Messico da competizione sportiva si fa categoria e diventa uno stato mentale, partendo dalle fluttuazioni del meteo (quello vero di grandi escursioni termiche), passando per le vicende calcistiche, per le tecniche e i tempi (vivi e morti) del lavoro dell’inviato, per le giornate in attesa degli eventi, per i viaggi all’inseguimento delle partite, per lo studio delle squadre, dei caratteri, delle storie dei calciatori e anche per la musica perché quando c’è poco da scrivere, in attesa che il pallone rotoli in campo, i giornalisti lavorano lo stesso e possono avere – ed è il caso dell’autore – come compagna di viaggio la musica. Nel 1970 erano i Beatles, sebbene già sciolti come gruppo con “Lennon e Paul McCartney ai ferri corti e una Yoko Ono di troppo”. In quell’anno si ascoltava la musica che ha segnato i decenni successivi ed è anche il periodo dei grandi eventi da Woodstock del 1969, alle tre edizioni dell’Isola di White, l’ultima delle quali proprio nel 1970 e poi come un coniglio che spunta da un cilindro, un evento italiano “anomalo”: il “Palermo pop”, una tre giorni in cui si esibirono Aretha Franklin, il ‘duca’ Duke Ellington, Kenny Clarke, Tony Scott, Johnny Hallyday. Una rivoluzione, come il Messico, come i Beatles, come il 1970″.

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L’AUTORE

Adolfo Fantaccini in una recentissima foto con Enrico Albertosi, portiere della Nazionale azzurra in Messico nel 1970

Con un passato da calciatore dilettante, Adolfo Fantaccini da giornalista ha mosso i primi passi nella storica redazione del giornale L’Ora di Palermo, a metà degli anni ’80: prima come collaboratore, poi come praticante e successivamente come professionista. Per conto della gloriosa testata fondata dai Florio all’inizio del secolo scorso ha raccontato i maggiori avvenimenti sportivi che si sono svolti a Palermo, a cominciare dai Mondiali di calcio del ’90 e per finire alle altalenanti vicende della squadra di calcio del Palermo. Ha prestato la propria opera nell’ufficio stampa dei Mondiali di ciclismo, che si disputarono in Sicilia nel 1994; a lungo è stato corrispondente sportivo de il Giornale di Milano e di Tuttosport. Per un anno, il primo di Zamparini alla guida del club rosanero, ha assunto l’incarico di addetto stampa del Palermo Calcio. Attualmente lavora nell’Agenzia ANSA. Ha seguito i maggiori eventi sportivi: dai Mondiali all’Europeo di calcio, ma anche svariate edizioni del Giro d’Italia, del Tour de France e dei Mondiali di ciclismo, ma anche l’America’s Cup di vela.

Con il titolo: il gol di testa di Pelè nella finale dei Mondiali di calcio 1970 Brasile-Italia, il 21 giugno allo stadio Atzeca di Città del Messico

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Il caso Tandoy: un commissario ammazzato, due grandi giornalisti, un bruttissimo Imbroglio https://ilvulcanico.it/il-caso-tandoy-un-commissario-ammazzato-due-grandi-giornalisti-un-bruttissimo-imbroglio/ Tue, 28 Mar 2023 05:35:15 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=23160 di Gaetano Perricone L’appuntamento per la “prima” nazionale è per domani, mercoledì 29 marzo 2023, alle 16,30 presso la Sala Missioni della Biblioteca centrale della Regione siciliana, Palermo, corso Vittorio Emanuele, 431, accesso dall’ingresso laterale, via delle scuole, 1. Sarà presentato L’imbroglio Sottotitolo: Aldo Tandoy, commissario; Mauro De Mauro, giornalista; Ezio Calaciura, giornalista. Autori: Sergio […]

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di Gaetano Perricone

L’appuntamento per la “prima” nazionale è per domani, mercoledì 29 marzo 2023, alle 16,30 presso la Sala Missioni della Biblioteca centrale della Regione siciliana, Palermo, corso Vittorio Emanuele, 431, accesso dall’ingresso laterale, via delle scuole, 1. Sarà presentato L’imbroglio Sottotitolo: Aldo Tandoy, commissario; Mauro De Mauro, giornalista; Ezio Calaciura, giornalista. Autori: Sergio Buonadonna e Massimo Novelli. Editore Navarra. Pagg. 235, € 18. Prima dell’inizio sarà proiettato un video con le pagine più significative sul caso Tandoy e molte foto.

La copertina del libro

Seguiranno altre due presentazioni: giovedì 30 marzo ad Agrigento, 63 anni dopo l’omicidio in quella città del commissario di polizia Cataldo Tandoy, detto Aldo e poi martedì  4 aprile si replicherà a Catania, alla libreria Cavallotto, dove sarò io ad avere l’onore di condurre l’incontro.

Gli autori Sergio Buonadonna e Massimo Novelli
Gli autori: sopra Sergio Buonadonna e a destra Massimo Novelli

La sinossi e poi le parole di Sergio Buonadonna, che trovate qui di seguito, spiegano in modo impeccabile i contenuti de L’imbroglio e le motivazioni che hanno spinto gli autori – due grandi colleghi con i quali ho condiviso pezzi meravigliosi di vita e di professione nella redazione de L’Ora di Palermo e condivido ancora l’avventura della second life social del glorioso quotidiano – a scriverlo. Senza spoilerare troppo, avendo avuto il privilegio di leggerlo posso aggiungere che è la narrazione appassionante e avvincente, da “bere” tutta d’un fiato, di un vero e proprio giallo con risvolti di costume della cronaca nera siciliana, il primo omicidio di un esponente delle forze dell’ordine, prima ancora della terribile strage di Ciaculli del 1963, ma anche, come è spiegato molto meglio di quanto possa fare io nelle righe che seguono, della prima storica trattativa Stato-Mafia per depistare le indagini sulla tragedia passionale (era un classico in quel periodo storico), quando invece si trattò di un assassinio “preventivo” di stampo mafioso, forse per impedire che il commissario Tandoy in procinto di traferirsi a Roma facesse rivelazioni decisive per sgominare il verminaio della mafia agrigentina, di cui sapeva moltissimo. Per fortuna un magistrato palermitano di grande spessore ed esperienza, il dottor Luigi Fici che ho avuto la fortuna fin dall’adolescenza di conoscere e frequentare, diede una svolta alle indagini, riportandole sulla giusta strada.

Mauro De Mauro e accanto Ezio Calaciura

Storia importante e molto attuale, che per tanti anni si è cercato di far cadere nell’oblio. Storia anche di grandi giornalisti, due formidabili cronisti di età ed esperienze diverse come Mauro De Mauro ed Ezio Calaciura, accomunati da un tragico destino che si consumò in modi diversi, che lavorarono come mastini per fare luce su un caso troppo frettolosamente banalizzato agli occhi dell’opinione pubblica per impedire che venisse fuori una verità scomoda di intrecci perversi e pesanti collusioni tra mafia e politica. Storia di donne dalla forte personalità, Leila Motta e Danika La Loggia, coinvolte nella torbida vicenda, ma anche della madre- coraggio del giovanissimo studente vittima innocente del delitto insieme a Tandoy, Pia Damanti, che arrivò fino al presidente della Repubblica per chiedere giustizia per il figlio. Con la stessa determinazione delle più note Serafina Battaglia e Felicia Impastato.  Storia tutta da leggere, insomma, per saperne di più su un fatto di sangue che ebbe grande rilievo nella vicenda di Cosa Nostra e sugli scenari nei quali maturò, con il coinvolgimento di personaggi di spicco della società e della politica siciliana di allora. Ma anche per il modo brillante, da grande giornalismo d’inchiesta, in cui è narrata, con un capitolo finale davvero memorabile.

SINOSSI – È la sera del 30 marzo 1960, il Commissario della Squadra Mobile di Agrigento Aldo Tandoy rientra in casa con la giovane moglie, l’affascinante Leila Motta. Ad attenderlo quattro proiettili calibro 7,65 sparati da un metro di distanza. Tre lo colpiscono in pieno, l’altro centra il giovane studente Ninni Damanti che lì si trova con i compagni di scuola per ritirare una versione di greco.

Il duplice delitto scuote la città. Un funzionario di Polizia stimato e ammirato da tutti e un ragazzo non ancora diciassettenne freddati nel pieno centro di una città già accarezzata dalla ‘dolce vita’. Il caso viene subito chiuso, i solerti investigatori non hanno dubbi, è un delitto passionale: Leila Motta e il Prof. Mario La Loggia, personaggio di spicco della società agrigentina e non solo, gli ‘amanti diabolici’ hanno pianificato l’omicidio che per un tragico errore ha coinvolto un ragazzo innocente.

La pagina de L’Ora il giorno dell’arresto della moglie di Tandoy e dell’amante

Il caso diventa nazionale, la stampa riempie le prime pagine. L’Ora non ha dubbi: è mafia. A condurre l’inchiesta due  cronisti, uno dell’Ora di Palermo, l’altro de La Sicilia di Catania che saranno accomunati dalla stessa tragica sorte: Mauro De Mauro ed Ezio Calaciura. Nasce così un maledetto imbroglio di mafia e politica che investe la ‘città bene’, che svela retroscena intimi, che si permea di falso moralismo e bieco conformismo.

Un penoso raggiro per colpire le ambizioni politiche dei La Loggia che è stato anche la prima trattativa Stato-mafia, come L’imbroglio rivela. La lunghezza esasperante delle indagini, favorita dal depistaggio iniziale abilmente orchestrato, ha certamente tenuto lontano almeno i mandanti irriferibili del delitto, il cui processo di primo grado si concluderà otto anni dopo con molti ergastoli e poca verità. Aveva scritto un dossier il Commissario, ma sparisce in questura. Gli assassini temevano che Tandoy, trasferito a Roma, potesse rivelare quel che aveva taciuto della guerra di mafia agrigentina, con epicentro Raffadali, e della faida interna alla Dc.

La locandina della “prima” palermitana di domani pomeriggio 29 marzo

Mauro De Mauro, più volte minacciato, è stato un grande protagonista della vicenda e con lui il giovane reporter agrigentino Ezio Calaciura che con coraggio aprì sulla Sicilia il tema delle responsabilità, anche di Tandoy. De Mauro e Calaciura furono subito certi che c’era ben altro dietro il paravento del delitto passionale, tanto che L’Ora titolò già all’indomani del delitto: È stata la mafia ad uccidere. Mauro De Mauro dieci anni dopo – e due dalla fine del lungo processo di Lecce alla mafia di Raffadali che aveva ordinato l’omicidio –  sparì nel nulla, Ezio Calaciura morì in uno strano incidente d’auto.

Questo libro è un tributo ai due giornalisti di cui raccoglie i principali articoli ma non trascura gli inquietanti interrogativi mai risolti sul sequestro De Mauro. Con un sorprendente finale.

La locandina della presentazione di Agrigento (30 marzo) e accanto quella di Catania (4 aprile)

L’AUTORE. Spiega Sergio Buonadonna, autore con Massimo Novelli di questo appassionante volume: “Questo libro nasce dalla necessità di rompere un tabu, quello che il caso Tandoy fosse l’assassinio di cui non si era persa memoria  solo perché “c’era una questione di corna”. Me lo sono sentito ripetere spesso anche fino a poche settimane fa. E in Italia, si sa, quando c’è prurito, l’attenzione si scalda, si fa morbosa. Ma in questo caso ne rimangono le briciole. Come il Rugantino della dolce vita romana per cui ci si ricorda di una certa ballerina turca Aiché Nanà che si spogliò al night in una notte per i tempi  trasgressiva, rimane l’eco del povero commissario che però…  Ecco però, ci siamo chiesti Massimo Novelli ed io, ci sono tante cose da rimettere in ordine”. Da qui l’idea di un libro-inchiesta a quattro mani: “Abbiamo riletto l’omicidio Tandoy attraverso le cronache di quei giorni ed anni e soprattutto il lavoro di due giornalisti, Mauro De Mauro ed Ezio Calaciura – continua Buonadonna – Il primo era già nel 1960 un reporter d’assalto che raccontava i fatti senza infingimenti, denunciando le trame politiche, le insufficienze giudiziarie ma anche raccontando i fatti attraverso le storie delle persone, Leila Motta, la povera Pia Damanti, la mamma dello studente ucciso per caso, una figura da tragedia greca, il professore, La Loggia e suo fratello, il giudice, il questurino, i corrotti e ancora più a fondo la cosca, le cosche di Raffadali. Ezio Calaciura, giovane che aspirava ad un posto ufficiale di giornalista, allenandosi  da retroscenista. E dimostrò di saperlo fare. Purtroppo la sua stagione fu misteriosamente breve. È così che man mano che raccoglievamo articoli,  requisitorie, istruttorie, studiavamo, incrociavamo fatti, la tela si componeva nella sua vera, inquietante, drammatica trama. Il caso Tandoy – conclude Buonadonnarivelò per la prima volta quella che oggi si chiama trattativa Stato-mafia: questo fu il tentativo di far passare il delitto per un omicidio passionale, coprendo anni di complicità con la criminalità organizzata e incassando un profitto nell’eliminazione politica dei La Loggia. Dunque l’assassinio del commissario fu un atto di terrorismo mafioso. L’anteprima dei Riina, dei Messina Denaro. Era questo che bisognava raccontare”.

Con il titolo: Cataldo Tandoy

 

 

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Mirco e il suo Grand Tour nel XXI secolo. “Cos’è la Sicilia? La soddisfazione di ogni curiosità” https://ilvulcanico.it/mirco-e-il-suo-grand-tour-nel-xxi-secolo-cose-la-sicilia-la-soddisfazione-di-ogni-curiosita/ Sun, 27 Nov 2022 06:06:41 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=22550 di Gaetano Perricone Il profilo Facebook si apre con la sua bellissima foto di spalle mentre contempla l’Etna e, accanto al nome, un bizzarro soprannome che gli hanno affibbiato alcuni amici e che desta subito grande curiosità: Taugenichts, termine tedesco che si traduce letteralmente “perdigiorno”, con riferimento al romanzo Vita di un perdigiorno (Aus dem Leben […]

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di Gaetano Perricone

Il profilo Facebook si apre con la sua bellissima foto di spalle mentre contempla l’Etna e, accanto al nome, un bizzarro soprannome che gli hanno affibbiato alcuni amici e che desta subito grande curiosità: Taugenichts, termine tedesco che si traduce letteralmente “perdigiorno”, con riferimento al romanzo Vita di un perdigiorno (Aus dem Leben eines Taugenichts) dello scrittore romantico tedesco Joseph Freiherr von Eichendorff. Ne ho sentito parlare varie volte, ma non l’ho letto: e allora mi rifaccio a Wikipedia, spesso preziosa, che mi spiega che “il protagonista è un ragazzo la cui famiglia vive in un mulino; egli viene sempre chiamato Taugenichts (“Perdigiorno”), anche dai suoi genitori. Una mattina di primavera si sveglia e decide di partire all’avventura per il mondo accompagnato solo dal suo violino. Il ragazzo considera pigri tutti coloro che non hanno voglia di viaggiare alla scoperta del mondo e che quindi non sanno godersi l’alba e la natura”.

Mirco Mannino

In realtà il personaggio di cui scriviamo è l’esatta antitesi di un perdigiorno o perditempo che dir si voglia. Mirco Mannino è al contrario un inarrestabile viaggiatore e scopritore della sua amatissima Sicilia – una specie di protagonista di un Grand Tour del ventunesimo secolo, “4 punto 0” direi visto che le nuove tecnologie della comunicazione le conosce e usa benissimo, quelli del Sette-Ottocento dipingevano e scrivevano, lui filma e fotografa – anzi di luoghi particolari e speciali della nostra terra meravigliosa e maledetta. Quando ho visto il suo profilo e la sua pagina social, una vera e propria miniera di descrizioni illustrate da foto (ne trovate tante fantastiche nella fotogallery qui) e video bellissimi di tante piccole realtà siciliane sconosciute anche a tanti di noi che per mestiere e diletto la Sicilia l’abbiamo girata in lungo e largo, un patrimonio di informazioni e immagini che definirei senza temere di essere smentito il più ampio e dettagliato in circolazione, ho deciso di conoscerlo e di presentarlo agli amici e lettori del Vulcanico, che credo avranno modo di apprezzarlo come è successo a me nel nostro incontro bello, appassionante e che certamente mi ha arricchito.

Ascolto Mirco, questo ragazzo dallo sguardo limpido e dal tono molto determinato che conosce e parla benissimo inglese, tedesco e spagnolo, mentre mi racconta la sua bellissima storia, che è l’esatto, per molti versi incredibile contrario di quella di tanti suoi colleghi che cercano lavoro e fortuna lasciando la Sicilia: “Ho 28 anni, sono figlio di genitori di origine siciliana, mio papà catanese e mia mamma di Scicli, ma sono nato a Cesate, in provincia di Milano. La terra d’origine dei miei la vedevo da lontano e il mio desiderio di conoscerla cresceva man mano che passavano gli anni: ne studiavo continuamente la carta geografica con l’idea fissa di vedere luoghi specifici, pezzi di natura e umanità particolari. Mi ha sempre colpito, quando scendevamo in estate a trovare mia nonna materna a Sampieri, il calore e l’anima dei siciliani, lo spirito che trovavo qui – ci racconta con il suo accento spiccatamente milanese, amabilmente contradditorio con le sue parole – Mi godevo la meravigliosa Sicilia estiva e gli amici catanesi mi definivano “il più spacchioso dei milanesi” per la grande attrazione e propensione che mostravo per questa terra”.

Mirco saluta Agira e l’Etna

Poi è arrivato il tempo della svolta: “Dopo la laurea in Scienze Alimentari, ho preso la decisione che ha cambiato la mia vita: venire definitivamente in Sicilia non solo e non tanto per starci, ma soprattutto per conoscerla e comprenderla. Non si trattava di un salto nel buio, ero già venuto varie volte, l’avevo studiata a fondo, sapevo già tutto quello che avrei voluto fare e dove farlo. Con i miei studi avrei potuto fare anche con una certa facilità il tecnico alimentare nel nord materialista e produttivo. Ho preferito altro e i miei genitori non mi hanno ostacolato, fallo pure se vuoi, mi hanno detto – continua Mirco Mannino – E così nel luglio 2017 sono arrivato a Sampieri da mia nonna e per mantenermi ho lavorato qualche mese in un piccolo ristorante, approfondendo nel frattempo i miei studi sulla Sicilia sulle cartine acquistate in edicola: paesi, aree naturalistiche e archeologiche, fiumi, castelli, tutto ciò che volevo visitare per raccontarlo. La nonna è venuta a mancare, è stato un grande dolore, ma il mio progetto è rimasto in piedi: sono andato in Germania a lavorare il tempo necessario per racimolare un po’ di soldi, sei-sette mesi, fino a quando non è arrivato il momento del ritorno definitivo in Sicilia per cominciare il viaggio che avevo in mente”. 

Mirco ai Calanchi del Cannizzola

Si parte: “Era il 3 novembre del 2018 quando sono arrivato al porto di Palermo da Genova. Logica voleva che partissi dal capoluogo per iniziare il mio giro di scoperta e racconto, ma in omaggio alle mie origini sono tornato a Sampieri e da lì ha preso il mio viaggio, che dura fino ad oggi. Quattro anni pieni di conoscenza, di bellezza, di emozioni, di umanità, una splendida avventura con la mia vecchia Golf del 1991. Sempre con lo stesso sistema: zaino in spalla, chiamo il sindaco di un Comune e gli espongo i luoghi che vorrei visitare nel suo territorio. La domanda è quasi sempre identica, divertente: ma quante cose conosci della mia zona? Ho chiesto e ottenuto sempre l’alloggio, nell’ultimo periodo il vitto. Ho visitato e raccontato finora nei dettagli oltre un centinaio di Comuni della Sicilia centro-orientale, nelle province di Ragusa, Siracusa, Catania, Enna, Messina. Mi relaziono con i siciliani sfruttando quella che considero la mia ambivalenza di nativo milanese, ma di fatto originario di questa terra e questa mi aiuta in alcune situazioni e ambienti”. Quando gli chiedo, da viaggiatore romantico, qual è il suo luogo del cuore, mi risponde con equilibrio e correttezza: “Sono tanti i posti che mi sono rimasti di dentro, se ne citassi qualcuno farei torto agli altri”.

Alle Grotte della Farina di Bronte

Mirco è diventato Guida Ambientale con Federescursionismo e fa l’accompagnatore turistico per sbarcare il lunario; tra i suoi progetti imminenti c’è la creazione di un’associazione culturale. E poi proseguirà la sua avventura di scoperta e racconto della Sicilia, “gratis et amore Dei”, ad ampliare la sua ricchissima agenda (“ho accumulato una conoscenza incredibile di tutte le realtà che ho visitato”), solo passione e ancora voglia di conoscenza da mettere a disposizione del popolo social che lo segue con grande interesse e numeri decisamente notevoli sul suo profilo e sulla pagina Facebook “In viaggio con te”, dove ha postato e posta una infinità di meravigliose fotografie e brillanti video nei quali descrive minuziosamente i luoghi visitati. “Sono in contatto da un po’ con la Regione e certo, mi piacerebbe che i contenuti del mio viaggio avessero una platea più importante e fossero fruiti dal maggior numero di persone. Ma so che non è semplice”. E quando gli chiedo come definirebbe la Sicilia, mi dà una risposta davvero originale e straordinaria, che potrebbe essere benissimo una citazione dei grandi viaggiatori del Settecento e Ottocento che si innamorarono della nostra terra: “La Sicilia è la soddisfazione di ogni curiosità”. Ma che meraviglia, i grandi strateghi del turismo regionale dovrebbero subito chiamarlo a fare il testimonial!

Malvagna, alcune vie

Ma questo brillante ragazzo che per maturità, a 28 anni, dà punti a gente molto più grande di lui, ci riserva un’altra grande sorpresa: dai luoghi che ha visitato e conosciuto, dando seguito alla sua passione per Pirandello, Verga, il “realismo magico” di Jorge Luis Borges, ha tratto ispirazione per scrivere una serie di novelle. E’ in cerca di un editore, vorrebbe pubblicarle e intanto ha voluto deliziare i lettori del Vulcanico con il brano che segue. Eccolo, con tanti auguri e in bocca al lupo al grande Mirco Mannino, innamorato della Sicilia, perché possa realizzare tutto ciò che desidera. A cominciare da un bel libro con le sue novelle di viaggio, che non vedo l’ora di leggere. Grazie e ad maiora semper, Mirco!

… Su quel tramonto pareva che il Padre Eterno avesse deciso di spennellare massicciamente l’intero paesaggio, con spesse campiture di arancio, rosso e viola. Un tramonto di un colore accecante, tanto era acceso. – È l’eruzione della Montagna – disse il pastore, anticipando la domanda che aveva in testa il giornalista. – Quando la cenere è nell’aria, i tramonti sono più belli del solito. Questo è il risultato – e indicò quella porzione di cielo dove stava guardando Stazzi. Stazzi era estasiato da quella visione, ma tutte quelle spumeggianti nuvole rossastre gli impedivano la  visione della Campana, la montagna da lui tanto amata. “Dove sarà?“ pensava lui, cercando avidamente in ogni angolo di paesaggio. Adesso mi mostro, parve essere la risposta della montagna, e dopo che l’ultima nuvola che la copriva si allontanò, essa si mostrò in tutta la sua bellezza. Con quella V incompiuta, con quel poggio poco più basso dell’altro, pareva nell’insieme una maestosa imperfezione, una perfezione incompleta che, se qualcuno mai l’avesse progettata, aveva tenuto in conto proprio questo: l’incompiutezza dell’opera. Guardandosi attorno il giornalista rivide, poco più in basso, il vulcanetto di Liggeri e, di là da quelli, un’infinita veduta a volo d’uccello fino al limitare dell’orizzonte, fino a dove i suoi occhi potevano scorgere, prima che si perdessero in un vuoto abissale senza via di fuga. Stazzi sapeva che provare a estendersi oltre quelle vedute avrebbe equivalso a perdere completamente il proprio controllo, a non ritornare più in sé, quindi abbassò un poco lo sguardo e pian piano, placidamente, cadde in uno stato di estasi. “Via, ultimo paesaggio, che possa io godere del penultimo, senza perdermi nell’ultimo! Sì, lontano dai vorticosi spazi, lontano dall’incessante tempo… 

La pagina Facebook di Mirco Mannino: https://www.facebook.com/mircomanninoinviaggioconte; il suo canale youtube: https://www.youtube.com/c/MircoManninoInViaggioconTe; su Instagram: @mircoinviaggioconte

Con il titolo: Mirco ai Crateri dell’Etna. Nella splendida fotogallery, interamente firmata da Mirco Mannino: 1) Agira e Etna; 2) Lago Ancipa; 3) Biviere di Cesarò; 4) abbeveratoio Borgo Pietro Lupo; 5) Borgo Raju Fondachelli Fantina; 6) Bosco della Tassita, Nebrodi; 7) Calanchi del Cannizzola; 8) Antillo, Campana dei dispersi; 9) Cascata Rocche di Palazzolo, Roccella Valdemone; 10) Chiesa del Calvario, Roccella Valdemone; 11) Chiesa Madre di Capizzi e Etna; 12) Ddieri di Cavagrande; 13) ancora Ddieri di Cavagrande; 14) Fiumara Borgo Raju; 15) Forza d’Agrò vista da Monte Re Cavallo; 16) Gole di Tiberio San Mauro Castelverde; 17) Grotte della Farina Bronte; 18) ancora Grotte della Farina Bronte; 19) Hangar per dirigibili Augusta; 20) Mirco ai crateri dell’Etna; 21) Mirco ai Peloritani sul Pizzo di Verna; 22) Laghetti Campanito Nicosia secondo stagno; 23) Lago Ancipa Rocca Mannia; 24) Lago Dirillo Licodia Eubea; 25) Luna piena al Castello di Tavi, Leonforte; 26) Malvagna, alcune vie; 27) Mistano inferiore, frazione abbandonata di Casalvecchio Siculo; 28) Motta Camastra al tramonto; 29) Paesaggio visto da Borgo Pietro Lupo, Mineo, 30) interno resti del Monastero di San Michele, Troina; 31) Tramonto monte sambughetti visto da Capizzi; 32) tramonto sulle isole Eolie visto da Tripi; 33) tramonto Tripi e Rocca di Novara; 34) Valle del Ghiodaro, Mongiuffi Melia

 

 

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Gesualdo Bufalino e l’Etna: quell’afoso giorno di luglio del 1990 nella sua casa di Comiso https://ilvulcanico.it/gesualdo-bufalino-e-letna-quellafoso-giorno-di-luglio-del-1990-nella-sua-casa-di-comiso/ Tue, 15 Nov 2022 11:21:34 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=22417 di Luciano Signorello Oggi ricorre il 102esimo anniversario della nascita dello scrittore Gesualdo Bufalino. Lo conobbi una domenica di un afoso luglio del 1990 nella sua casa di Comiso. Ricordo un numero infinito di stanze e migliaia di libri, nelle librerie, sulle scrivanie, sulle sedie ed anche a terra. C’ero andato con l’editore Carmelo Tringale […]

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di Luciano Signorello
Oggi ricorre il 102esimo anniversario della nascita dello scrittore Gesualdo Bufalino.
Lo conobbi una domenica di un afoso luglio del 1990 nella sua casa di Comiso. Ricordo un numero infinito di stanze e migliaia di libri, nelle librerie, sulle scrivanie, sulle sedie ed anche a terra. C’ero andato con l’editore Carmelo Tringale per chiedergli se pensasse alla presentazione di un volume che stavamo preparando.
Gesualdo Bufalino con Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo
Il primo impatto non fu dei migliori. Spigoloso, superiore, scontroso, indaffarato e diffidente. Disse subito che difficilmente scriveva presentazioni di libri, lui li scriveva i libri. Ci rimasi male, ma dopo avere sfogliato alcune pagine del menabò e scrutato le prime foto, chiese chi fosse l’autore perché voleva incontrarlo. Dei testi non aveva dubbi in quanto erano stati redatti da due docenti universitari. Io, risposi timidamente, sono stato io a fare le foto.
Quel giorno aveva altri impegni e ci liquidò dicendo che, forse, si sarebbe fatto sentire lui.
Dopo una settimana l’editore mi informò che aveva chiamato e voleva vedermi. Concordai l’incontro e trovai un’altra persona. Cortese, interessato, curioso e molto simpatico. E non solo scrisse l’introduzione di quel volume, ma venne anche alla presentazione del libro, nella primavera dell’anno successivo.
Il suo ricordo e le sue parole, ogni tanto mi ritornano in mente. Voglio condividere qui accanto l’ultima, per me molto emozionante parte della presentazione del libro (che potete leggere per intero nelle prime tre immagini della gallery), che aiuta a capire e comprendere la profonda preparazione culturale ed espressiva di un altro grande figlio di Sicilia.
Con il titolo: all’interno della Valle del Bove, una delle foto all’interno del libro

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Etna, a 94 anni dall’eruzione di Mascali: una rilettura in due racconti https://ilvulcanico.it/etna-a-94-anni-dalleruzione-di-mascali-una-rilettura-in-due-racconti/ Sun, 06 Nov 2022 10:49:05 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=22369 di Santo Scalia «Catania, 2 novembre notte. […] Verso le ore 15 una enorme colonna di fumo si è innalzata dai crateri del 1911, e poscia, verso le ore 18, grandi bagliori si sono notati nella Valle del Leone, presso Pizzi Deneri». Così recitava un dispaccio da Catania, ripreso dal Corriere della Sera. Annunciava l’inizio […]

L'articolo Etna, a 94 anni dall’eruzione di Mascali: una rilettura in due racconti proviene da Il Vulcanico.

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di Santo Scalia

«Catania, 2 novembre notte. […] Verso le ore 15 una enorme colonna di fumo si è innalzata dai crateri del 1911, e poscia, verso le ore 18, grandi bagliori si sono notati nella Valle del Leone, presso Pizzi Deneri». Così recitava un dispaccio da Catania, ripreso dal Corriere della Sera. Annunciava l’inizio di una nuova eruzione dell’Etna.

Nella notte del 3 una nuova frattura eruttiva si apriva a Serra delle Concazze; il 4 la frattura riaffiorava alla Ripa della Naca; il 6 la colata lavica raggiungeva le prima case di Mascali che, il giorno 7, veniva sepolta.

Questa, in poche righe, la fase iniziale dell’eruzione etnea che nel 1928 cancellò quasi totalmente la cittadina di Mascali.

Cartina dal Corriere di Catania dell’8 Novembre 1928 (collezione personale)

Voglio ricordare quei tragici giorni riproponendo due miei racconti, in parte frutto della fantasia, ma ben aderenti alla triste realtà di allora: i personaggi protagonisti (Pippinu, Pitrina, Carmilina, Jangilu Mallampa, Nardu u Carritteri, Patri Don Pippinu) stanno a cavallo del filo sottile che separa la storia dall’immaginazione, il reale dal fantastico.

Il primo dei due racconti, “U focu calava comu l’acqua”, è stato pubblicato dal blog ilvulcanico.it il 4 novembre 2018, in occasione del 90° anniversario dell’eruzione; il secondo, “Era Novembre”, è la novella vincitrice del Premio Speciale Andrea Camilleri in occasione della IV edizione del Contest “Sicilia Dime Novels, curata dall’Associazione Mascalucia-Doc e pubblicato, in anteprima, il primo di agosto dell’anno in corso, sempre dal blog ilvulcanico.it.

“U FOCU CALAVA COMU l’ACQUA”

 Pippinu guardava preoccupato verso il monte.

Al di là della collina sopra u Cutrazzu, al di là della casetta e del pino che dominavano il paese un diffuso rossore, un riverbero di fuoco, copriva il cielo.

Pippinu aveva da poco comprato, col frutto dei risparmi di una vita, un pezzo di terra appena fuori dal paese, ai passi chiusi, subito dopo il passaggio a livello. Aveva già cominciato a realizzare le fondamenta della casa che aveva in mente di costruire, per la sua famiglia: Pitrina, donna di casa, e otto figli (il nono doveva ancora arrivare).

In verità non era solo Pippinu ad essere preoccupato; tutto il paese di Nunziata lo era. Ed erano altrettanto preoccupate anche le popolazioni di Puntalazzo, di Muntarianu (Montargano), di Mascali.

Due giorni prima la Muntagna aveva scassato a Serra delle Concazze e una colata di lava aveva cominciato a scorrere tra la Cerrita e il piano delle Donne, minacciando il paese di Sant’Alfio: il Patrono aveva fatto il suo compito, quello di proteggere la popolazione e le case, e la lava si era già fermata. Ora dicevano che il vulcano aveva aperto una bocca alla Ripa della Anaca (questa l’ortografia dell’epoca per il luogo oggi detto della Naca); dicevano pure che la lava si riversava, con numerosi bracci, nella fossa di Santoro, in contrada Giuliana.

La lava nel torrente Pietrafucile (da un periodico dell’epoca)

Ma la preoccupazione era alleviata dalla fede: San Lunardu di certo non era da meno di Alfio! Mascali, di cui San Leonardo era il santo patrono, si trovava ad un tiro di schioppo da Nunziata: passata la chiesa del Calvario, subito dopo il cimitero, attraversato il ponte si era già nel paese. Se San Leonardo avesse dovuto intervenire, il suo intervento avrebbe salvato anche Nunziata, oltre a Mascali. E poi, per di più, il paese era “dedicato” a Maria Annunziata!

I più informati, i pezzi grossi del partito, dicevano di aver saputo che i primi massi di lava cominciavano a rotolare nell’alveo del Pietrafucile, il torrente che più a valle si ingrandiva, si allargava, cambiava nome e diventava u Vaddunazzu.

U Vaddunazzu riporta alla mia mente anche il ricordo di un episodio triste raccontatomi da mia madre, quello di una terribile quanto improvvisa piena, causata da piogge particolarmente intense, e a causa della quale sua nonna, nel tentativo di raggiungere il marito sull’altra sponda, fu travolta e portata via.

Se la lava si fosse incanalata nel suo alveo sarebbe stata certamente guidata, come una monorotaia guida un convoglio, verso Mascali. E chissà, forse anche Nunziata sarebbe stata travolta. Pippinu, da uomo pratico e previdente, tornò in Via dei Giardini, alla casa dove abitava, e disse a Pitrina che era meglio lasciare il paese, portare via l’indispensabile e chiedere ospitalità ad Angilu, fratello di Pitrina, che aveva la casa o Scarruni, una zona più in alto e riparata dalla Timpa. Le raccontò sottovoce che ‘nta chiazza si diceva che il paese era in pericolo, che qualcuno che c’era stato raccontava che «u focu calava comu l’acqua!».

Carmilina ascoltava, col cuore colmo di timore di quindicenne. Lei – la terza degli otto figli, la sola femmina ancora in casa – dava una mano, una grande mano, alla madre incinta: si occupava del bucato (non c’era la lavabiancheria, non c’era l’acqua calda nei rubinetti di casa), si occupava di impastare la farina nta maìdda, di infornare le forme di pane e di controllarne la cottura; e nel tempo libero… aiutava a crescere i più piccoli dei fratelli che la seguivano. Unico svago, il sabato pomeriggio, andare al collegio delle suore Salesiane (a pochi passi dalla casa dove viveva) e giocare nel cortile con le coetanee.

Aveva sentito il racconto di Pippinu ed aveva percepito la sua preoccupazione. Allora non era d’uso intervenire nei discorsi dei grandi; preso il coraggio a due mani esclamò: «Bi, pi tanticchiedda di focu! Pari chi sta succidennu!».

Pippinu non la sgridò per aver osato intervenire, anzi, cercando di rassicurarla le disse: «Dumani veni cu mia ca ti portu a vidiri u focu».

E vide il fuoco.

Così come l’amante dell’arte viene colpito dalla sindrome di Stendhal al cospetto di un’opera di straordinaria bellezza, Carmilina rimase impietrita davanti ad uno spettacolo della natura tra i più sublimi, meravigliosi e terribili.

Difficile descrivere la tempesta di sensazioni visive, acustiche, olfattive, termiche. Solo chi ha avuto la possibilità di accostarsi ad una colata di lava che scorre può immaginarle, per averle a sua volta provate. Era vero: u focu scorreva come l’acqua. La roccia fusa avanzava come un cingolato sul terreno; le pietre che stavano sopra, poco dopo facevano da base allo scorrere della corrente di fuoco. Rumori caratteristici colpivano i timpani, quasi di cocci frantumati, a volte metallici, a volte vitrei. Il calore portato dal vento insieme ad un diffuso odore di zolfo, il calore che, senza bisogno del vento, si irradiava dalla colata e si percepiva sulle gote. Lì, dalle balze sopra Nunziata, si intuiva che il torrente, col suo letto scavato dall’acqua, avrebbe portato il fuoco diritto nel centro di Mascali, dato che proprio in centro, sotto la piazza, accanto alla Chiesa Madre, passava il torrente!

Forse anche Nunziata sarebbe stata sommersa, sarebbe bastata una sbavatura della colata, una rottura di uno degli argini che si erano formati, ed anche questo paese sarebbe scomparso. Così parve che accadesse: un ramo sembrava dirigersi verso la Nunziatella… ma si arrestò presto.

Per Nunziata il miracolo era avvenuto.

Il gruppo in legno e gesso della Madonna Annunziata viene portata in processione per lo scampato pericolo (collezione personale)

Lo stesso non avvenne per Mascali: il giorno dopo, dalle alture dello Scarrone, la gente attonita assistette alla sua scomparsa, casa dopo casa, chiesa dopo chiesa. Il paese era stato evacuato in brevissimo tempo e di Mascali non rimase altro che la chiesa di Sant’Antonino e le poche case che le stavano attorno.

Nunziata in primo piano e Mascali, prima e dopo la distruzione (collezione personale)

Pochi giorni dopo, tutto fu tranquillo. La corrente di lava era passata solo ad alcune decine di metri dal terreno di Pippinu, interrompendo la ferrovia Circumetnea e la strada provinciale che portava a Piedimonte. Pippinu e la sua famiglia fecero ritorno al loro alloggio di Via dei Giardini e lui potè continuare a lavorare alla costruzione della casa nella quale poi, lui e Pitrina, vissero il resto della loro esistenza. La casa che fu di Pippinu c’è ancora, a Nunziata, subito dopo il passaggio a livello della “Circum” e poco prima di ciò che oggi rimane ancora visibile della colata del ’28.

 

ERA NOVEMBRE

In paese pochi conoscevano i cognomi dei compaesani, tutti ne conoscevano invece u ngiuriu. Questo identificava le persone, ma a volte anche la stirpe: u ngiuriu lo si riceveva – quasi fosse un battesimo – per proprie caratteristiche fisiche (così come era accaduto a Turi Ciunchella o a Mara a Mustazza) o lo si ereditava per l’appartenenza alla famiglia (come Neddu u Saristanu o Ciccu Coppulastorta) o ancora per la provenienza (Anna a Missinisa o Fina a Santaffiota).

U Zu Jangilu Mallampa – uomo concreto, sbrigativo, di un’energia irrefrenabile – era figlio di Saru Mallampa, figlio questo a sua volta di Angelo Parisi, che per un misto di fortuna e di sventura, mentre un giorno tornava a casa dalla campagna, sotto un diluvio di pioggia, lampi e tuoni tali da fermare il cuore, fu colpito da un fulmine. Per sua fortuna il suo paracqua aveva il manico di legno, e la scarica lo colpì solo di striscio; nonostante ciò rimase stordito per il resto della sua vita: era, come si diceva, allampato.

Jangilu aveva da poco terminato di costruire la sua casa o Scarruni, sulla strada per San Giovanni. I vicini la chiamavano u palazzettu, perché si differenziava dalle altre case dei dintorni, tutte ad unico piano; u palazzettu, oltre ad avere un ampio deposito a livello della strada, aveva un primo piano con ampie stanze dai soffitti altissimi, ed una soffitta per scatafotterci – come amava dire lui – tutte quelle cianfrusaglie inutili, ma che un giorno avrebbero potuto tornare utili.

Successe tutto il giorno dopu u jornu i’ santi, il venerdì due novembre, ‘nto jornu de’ morti: quasi tutti i paesani erano stati al cimitero, poco fuori Mascali: al ritorno, mentre gli uomini si trattenevano ‘nta Chiazza, qualcuno vide una bella fumata sopra la cima dell’Etna. Dalla piazza di Nunziata, infatti, dell’Etna si vedeva solo la cima.

«A Muntagna s’arrimina, sà chi voli fari» disse qualcuno, senza però agitarsi più di tanto.

«Scassau a Muntagna! Stanotti scassaù supra a Giuliana, u focu scurri ‘nte Fossi i’ Santoru!»

Lunedì mattina, era il cinque, di buonora Jangilu si vestì e scese in piazza: aveva quasi un presentimento, una sensazione epidermica, come di qualcosa che non andasse per il verso giusto. Incontrò Pippinu, suo cognato, parlò con lui dell’appezzamento di terreno che questi stava per acquistare giù, dopo le ultime case del paese, e nel quale avrebbe voluto realizzare la casa per se stesso, per Pitrina, sua moglie, e per gli otto figli. Pippinu aveva già sborsato la caparra e stava cercando di ingaggiare na para di giuvini e di carusi.

Poco dopo, qualcuno che scendeva da Puntalazzo o da Sant’Alfio portò la notizia: «Scassau a Muntagna! Stanotti scassaù supra a Giuliana, u focu scurri ‘nte Fossi i’ Santoru!».

 «Minchia!» esclamò Jangilu Mallampa; «Voi vidiri ca si porta di quattru pedi di cirasi ca haiu supra u Sautu Corvu?». Cicciu Coppulastorta, che si trovava lì vicino, a sua volta aggiunse: «Ma di chi vi preoccupati, d’i campagni? D’i  nostri casi n’ama a preoccupari!».

E aveva ragione. Se la lava era fuoriuscita sopra la contrada Giuliana, allora in pericolo c’erano terreni e paesi che, più a valle, si trovavano lungo il corso dei due vadduni della zona, il Torrente Pietrafucile (che attraversava il centro di Mascali e lì diventava u Vaddunazzu), ed il Torrente Corvo, che invece attraversava Nunziata, proprio qualche decina di metri più in là di dove loro si trovavano.

Zu Jangilu Mallampa si rabbuiò in viso, fece un rapido calcolo, poi sentenziò: «A Muntagna a mia m’annaca! Jù a casa ma fici o Scarruni» e sogghignò, certo che, data la posizione sopraelevata del quartiere dove lui aveva costruito, l’avrebbe scampata. Intanto la Muntagna faceva la sua scelta: lasciò perdere il Torrente Corvo e incanalò invece la sua lava nel Pietrafucile.

Forse Nunziata non sarebbe stata distrutta ma, se la lava non si fosse fermata prima, per Mascali non ci sarebbe stato scampo!

E la lava, inesorabile, non s’arrestò prima di giungere alle prime case di Mascali: guidata dal tracciato del Vallonazzo, arrivò proprio al cuore del paese.

Leonardo Caltabiano, per tutti Nardu u Carritteri, stava attonito accanto alla chiesa del Calvario, proprio sotto Nunziata: aveva riposto tutta la sua fiducia nel Santo Patrono del paese, del quale lui stesso portava il nome: Leonardo, Lunardu.

Non solo il Santo era stato incapace di salvare il paese, ma per giunta proprio nel giorno della sua festa, il sei di novembre, il paese era stato cancellato dalla lava! Viva San Lunardu aveva gridato a squarciagola fino a quando la Chiesa Madre, la “casa” del Santo, non era crollata: prima la copertura della navata centrale, poi la grande cupola ed infine la facciata che nella sua sommità ospitava le campane.

Fu proprio quando le campane caddero insieme alle macerie della facciata, emettendo un ultimo, lugubre rintocco, che Nardu, rimarcando l’impotenza dimostrata dal suo Santo ma ricordando che invece, pochi giorni prima, un altro Santo Protettore, Sant’Alfio, aveva fatto il suo dovere salvando l’omonimo paese, pianse. Qualche compaesano vicino a lui cercò di consolarlo: «Nardu, non fari accussì!»; con voce sommessa, scandendo le parole, lui rispose: «Jù non mi chiamu chiù Lunardu, jù ora mi chiamu Affiu!».

A Nardu non rimaneva più né una casa, né un lavoro, e nemmeno la fede.

Neanche i morti avevano avuto pace: poco prima che la lava arrivasse a ghermire le case del paese la tranquillità del cimitero era stata turbata dal duro rumore dei massi che avanzavano tra le cappelle e le croci. Mentre i cipressi si accendevano come fiammiferi le lapidi di marmo spezzate dall’impeto della colata si frantumavano, emettendo a volte sordi rimbombi, a volte schiocchi secchi, come di frusta.

Dalle cappelle squarciate alcune bare venivano rivoltate, cadevano dai loculi e poi venivano ricoperte dai massi. Solo i resti dei più poveri, quelli sepolti nella terra, furono rispettati: ricoperti dalla coltre incandescente furono sigillati per sempre, e ancora stanno lì, sotto metri e metri di pietre. Nessuno sa dove esattamente siano, nessuno può portare loro un fiore, nessuno li va a trovare nel giorno dei morti.

Intanto Jangilu Mallampa non si frenava più nel magnificare la sua scelta di costruire la sua casa proprio lì dove l’aveva costruita, allo Scarruni; vi aveva ospitato la sorella Pitrina, suo marito Pippinu ed i loro figli. Lui di suoi ne aveva soltanto tre, ma era ben felice di aggiungerne, anche se temporaneamente, altri otto. L’autunno era già avanzato e Jangilu aveva fatto, come sempre faceva, scorte di olio, vino, castagne e farina. Le sue terre, tra il Carmine e San Giovanni, non erano sotto lo scacco del vulcano, in quella partita che ormai era stata chiusa con un matto dato al paese di Mascali. Buttigghi ‘i sassa ce n’erano a volontà, u strattu riempiva varie burnie e di truiaca sicca ce n’erano pieni sacchi interi.

Più di una volta, in quei giorni di fuoco, Mallampa ricevette la visita di Patri Don Pippinu – il sacerdote Don Giuseppe Patanè – che oltre ad essere l’arciprete della chiesa madre di Nunziata, si dilettava a far fotografie: saliva per Via Etnea portandosi dietro il treppiedi di legno, la sua camera oscura e un paio di lastre di vetro; poi, giunto alla chiesetta della Nunziatella, imboccava la stradina detta da’ Chiazzetta e quindi, superato il vadduni, saliva  per la scorciatoia che giungeva alla fontanella: qui era d’uso fermarsi qualche minuto, rinfrescarsi bevendo un paio di sorsi direttamente do cannolu e sedersi sul muretto per  riprendere le forze.

Jangilu lo guardava arrancare dall’alto del suo balcone e, non appena lo vedeva arrivare alla fontanella, ordinava: «Nedda, metti supra a cafittera, sta vinennu u parrinu!». Don Pippinu, sorbito il graditissimo caffè (non tutti si potevano permettere di gustarlo, era cosa da benestanti, e Jangilu lo era), montava il treppiedi sul balcone d’arreri, da dove lo sguardo spaziava da Porto Salvo a Nunziata, e poi da Mascali fino Riposto ed oltre, finanche alla Torre di Archirafi, e dopo aver inserito la lastra nelle apposite scanalature della camera scattava e cominciava a contare… unu, dui, tri, quattru!

«Chisti su pi chiddi ca Mascali non l’ana vistu, e no ponnu vidiri chiù!».

Una cosa buona la lava l’aveva fatta: il terreno che Pippinu avrebbe voluto comprare da Don Marianu Patanè – Fasulinu per tutti i mascalesi – ora valeva meno della metà di quanto non valesse soltanto pochi giorni prima. Bisognava solo avere pazienza, e aspettare che la furia del vulcano si calmasse, che lo stradone per Piamunti venisse riaperto – cosa che la Milizia avrebbe sicuramente fatto al più presto – prima di cominciare a spianare e tracciare il perimetro delle fondamenta con la calce bianca.

E Pippinu la pazienza ce l’aveva.

Con il titolo: da un lavoro degli alunni dell’Istituto Comprensivo Statale di Mascali, Plesso di Fondachello (a.s. 2018-19)

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L’isola Ssi-kia-li-ye e la sua montagna. L’Etna in Cina nel 1225 https://ilvulcanico.it/lisola-ssi-kia-li-ye-e-la-sua-montagna-letna-in-cina-nel-1225/ Sun, 25 Sep 2022 05:09:27 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=22217 di Santo Scalia  Nel lontano 1976, il giornalista Pietro Nicolosi – che si occupava, tra l’altro, della cronaca etnea sul quotidiano catanese La Sicilia – scrisse un articolo dal titolo Sette secoli fa la fama dell’Etna arrivò in Cina. Nicolosi, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente ed incontrare più volte presso la redazione […]

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di Santo Scalia

 Nel lontano 1976, il giornalista Pietro Nicolosi – che si occupava, tra l’altro, della cronaca etnea sul quotidiano catanese La Sicilia – scrisse un articolo dal titolo Sette secoli fa la fama dell’Etna arrivò in Cina.

Nicolosi, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente ed incontrare più volte presso la redazione del citato quotidiano, è stato anche autore dell’interessante volumetto dal titolo Etna, storia di un vulcano, pubblicato dall’editore Tringale subito dopo la fine dell’eruzione dell’Etna del 1983.

Dal quotidiano La Sicilia del 6 giugno 1976 (collezione personale)

Il giornalista riportava le notizie scritte nel 1225 da tale Chao Ju-Kua – ispettore del commercio marittimo del porto di Ch’uan Chou durante il periodo della dinastia Song – nel trattato dal titolo Chu Fan Chih, ovvero la Descrizione dei popoli barbari.

Forse è inutile ricordare l’accezione del termine “barbaro”, che etimologicamente ha un valore un po’ diverso dal significato pesantemente dispregiativo oggi spesso attribuitogli: infatti barbaro (dal greco βάρβαρος, da cui il latino barbărus), è sinonimo di straniero, cioè «chiunque non fosse greco o romano». Per Chao Ju-Kua, cinese, quindi, i popoli barbari potrebbero forse non essere altro che quelli diversi dai popoli sinici.

Di recente, rispolverando vecchie raccolte di ritagli di giornali, ho ritrovato l’articolo di quasi mezzo secolo fa: la rilettura della traduzione riportata da Pietro Nicolosi mi ha invogliato a ricercarne le fonti.

Il testo riportato dal quotidiano è il seguente: «Il paese di Ssi-Kia-li-ye è vicino ai confini della terra di Lu-mei. E’ un’isola nel mare, larga un migliaio di miglia. Le vesti, i costumi e la lingua sono quelli di Lu-mei.  In questo paese c’è una montagna con una caverna molto profonda. Nelle quattro stagioni, ne esce un fuoco. Visto da lontano, di mattina sembra fumo, di sera, fiamma; osservato da vicino è come un fuoco fortemente rumoreggiante. La gente di questo paese porta su una pertica una grossa pietra del peso di cinquecento libbre, la getta dentro alla caverna e, quindi, dopo una esplosione, ne escono pietruzze come pietra pomice. Ogni cinque anni ne escono fuoco e pietre. Gli alberi dei boschi attraverso i quali scorrono non ne sono bruciati, mentre le pietre che  incontrano sono arse in cenere».

Come vedremo nei testi riportati da altri autori, per quanto riguarda la larghezza dell’isola, viene indicato il valore di mille li; essendo un li (detto anche miglio cinese) corrispondente a circa 500 metri, la larghezza sarebbe di 500.000 metri, ovvero di 500 chilometri. Nicolosi propende per indicare il valore di “un migliaio di miglia per indicarne la larghezza.

Nell’occidente la conoscenza del trattato di geografia etnografica e commerciale scritto da Chao Ju-Kua si deve allo studioso Leonardo Olschki (filologo italiano naturalizzato statunitense e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 1885-1961), autore anche dell’opera L’Etna nelle tradizioni orientali del Medio Evo (1959).

Altri autori hanno ripreso il lavoro di Olschki, lavoro citato da Pietro Nicolosi ma che purtroppo non sono riuscito a trovare…

Ho trovato però un lavoro del 1982 di Riccardo M. Fracasso – professore di cinese antico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, sinologo specializzato in paleografia, filologia e storia delle religioni – dal titolo Ssu-chia-li-yeh -The First Chinese Description of Sicily. In questo lavoro l’autore conferma che il trattato di Chao Ju-Kua rappresenta la prima descrizione cinese della Sicilia, e riporta il paragrafo 38, nel quale viene descritta l’isola.

«The country of Ssu-chia-li-yeh lays near the border of Lu-mei. It is an island in the sea, a thousand li in breadth. The clothes, the customs and the language are the same as those of Lu-mei. In this country there is a cave in a mountain reaching great depth; during the four seasons there is fire coming out of it. Looking from afar you may see smoke in the morning and fire in the evening; approaching it you may see a madly roaring fire. (Sometimes) the people of the country carry up with a pole a big stone, 500 or 1000 chin in weight, and throw it into the crater; after a while there is an explosion, and the stone comes out in splinters similar to the pumice stone. Once in every five years fire and stones break out flowing down to the seashore, and then go back. The trees in the woods through which (the lava stream) flows are not burned, but the stones which it meets become like ash». (“Il paese di Ssu-chia-li-yeh si trova vicino al confine di Lu-mei. È un’isola nel mare, larga mille li. Gli abiti, i costumi e la lingua sono gli stessi di Lu-mei. In questo paese c’è una grotta in una montagna che raggiunge una grande profondità; durante le quattro stagioni ne esce fuoco. Guardando da lontano potresti vedere il fumo al mattino e il fuoco la sera; avvicinandoti potresti vedere un fuoco follemente scoppiettante. (A volte) la gente del paese porta con un palo un grosso sasso, del peso di 500 o 1000 mento, e lo getta nel cratere; dopo un po’ c’è un’esplosione, e la pietra esce in schegge simili alla pietra pomice. Una volta ogni cinque anni scoppiano fuoco e pietre che scorrono giù in riva al mare, per poi tornare indietro. Gli alberi del bosco in cui scorre (il torrente lavico) non vengono bruciati, ma le pietre che incontra diventano come cenere”.

Fracasso precisa che il nome Ssu-chia-li-yeh (che, come visto, altri traslitterano in Ssi-kia-li-ye) altro non è che la descrizione fonetica del termine Siqîlîya usato dagli Arabi per indicare la Sicilia e che Lu-mei indica l’area dell’Asia Minore e dell’Impero Bizantino.

Recentemente (nel marzo di quest’anno) è stato pubblicato un articolo dal titolo A Chinese Gazetteer of Foreign Lands, a new translation of part 1 of the Zhufan zhi (traslitterazione in lingua inglese di quello che in italiano è invece Chu Fan Chih); l’autore (Shao-yun Yang, del Dipartimento di Storia presso la Denison University), riprende il lavoro di Riccardo Fracasso e riporta il testo di Chao Ju-Kua nella versione inglese, ribadendo, in una nota,  che si tratta della “prima descrizione della Sicilia, anzi di qualsiasi parte d’Italia, in una fonte cinese” («This is the first description of Sicily, indeed of any part of Italy, in a Chinese source»).

Questo il testo in inglese esposto da Shao-yun Yang: «The country of Sijialiye (Sicily) is near the border of Lumei. It is an island in the sea, a thousand li across. Its clothing, customs, and spoken language are the same as those of Lumei. In this country there is a very deep cave that spews out fire in all four seasons. From afar one can see it emitting smoke in the morning and fire in the evening. When one gets closer, then one can feel how hot the flames are. Groups of people in this country use poles to carry large stones weighing five hundred to a thousand catties (700-1,400 lbs) to the mouth of the cave and throw them in. In just a short time, there is an explosion and fragments of stone fly out like pumice. Once every five years, fire flows out of the stone [of the cave], running down to the coast and then turning back. The forests that it passes through do not catch fire, but the stones that it touches burn up and become like ashes». “Il paese di Sijialiye (Sicilia) è vicino al confine di Lumei. È un’isola nel mare, mille li di diametro. I suoi abiti, costumi e lingua parlata sono gli stessi di Lumei. In questo paese c’è una grotta molto profonda che sputa fuoco in tutte e quattro le stagioni. Da lontano si vede che emette fumo al mattino e fuoco la sera. Quando ci si avvicina, si può sentire quanto sono calde le fiamme. Gruppi di persone in questo paese usano pali per trasportare grosse pietre che pesano da cinquecento a mille gatti (700-1.400 libbre) all’imboccatura della grotta e gettarle dentro. In poco tempo c’è un’esplosione e frammenti di pietra volano via come pomice. Una volta ogni cinque anni, il fuoco esce dalla pietra [della grotta], scendendo fino alla costa e poi tornando indietro. Le foreste che attraversa non prendono fuoco, ma le pietre che tocca bruciano e diventano come cenere”.

Forse, le notizie giunte in Cina quasi ottocento anni fa lasciavano un po’ a desiderare per quanto riguarda l’attendibilità: oggi viene difficile – non essendo esse, tra l’altro, confortate da altre fonti – credere all’usanza di gettare delle grosse pietre dentro il cratere…

Illustrazione tratta dall’articolo di Pietro Nicolosi del 1976

Un’ultima considerazione va ancora fatta riguardo all’osservazione del mancato incenerimento degli alberi nei boschi: capita infatti che tronchi abbattuti dalla corrente lavica vengano da questa trasportati per lunghi tratti senza essere bruciati. Ciò è dovuto al fatto che l’aria più vicina alla superficie del flusso, a causa dei movimenti convettivi e della presenza di altri gas che si liberano dalla lava, risulti molto povera di ossigeno – il quale, come è noto – è il comburente indispensabile affinché avvenga la combustione.

Per chi avesse il piacere di accedere direttamente alle fonti ecco alcuni utili  riferimenti:

Leonardo Olschki

Leonardo Olschki (foto da Commons Wikipedia)

L’Etna nelle tradizioni orientali del Medio Evo

(in Rendiconti dell’Accademia. Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, s. VIII, vol. XIV – 1959)

Pietro Nicolosi

Sette secoli fa la fama dell’Etna arrivò in Cina

(quotidiano La Sicilia – 6 giugno 1976)

Riccardo M. Fracasso

Ssu-chia-li-yeh. The First Chinese Description of Sicily

(in T’oung Pao, Second Series, Vol. 68, Livr. 4/5 (1982), pp. 248-253)

Shao-yun Yang

A Chinese Gazetteer of Foreign Lands – A new translation of Part 1 of the Zhufan zhi (1225) – 17 marzo 2022

Con il titolo: il nome della nostra isola, “Sicilia”, in caratteri cinesi e la sua traslitterazione

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Quel meraviglioso ficus salvato dai palazzoni che divenne l’albero Giovanni Falcone https://ilvulcanico.it/quel-meraviglioso-ficus-salvato-dai-palazzoni-che-divenne-lalbero-giovanni-falcone/ Mon, 23 May 2022 04:40:28 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=21789 di Gaetano Perricone Trent’anni fa, il 23 maggio 1992, alle 17,58, il mostruoso attentatuni che squarciò l’autostrada Punta Raisi-Palermo all’altezza di Capaci uccise il giudice Giovanni Falcone – nemico numero uno di Cosa Nostra insieme al collega Paolo Borsellino che saltò in aria il 19 luglio -, la moglie Francesca Morvillo anch’essa magistrato, gli agenti […]

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di Gaetano Perricone

Trent’anni fa, il 23 maggio 1992, alle 17,58, il mostruoso attentatuni che squarciò l’autostrada Punta Raisi-Palermo all’altezza di Capaci uccise il giudice Giovanni Falcone – nemico numero uno di Cosa Nostra insieme al collega Paolo Borsellino che saltò in aria il 19 luglio -, la moglie Francesca Morvillo anch’essa magistrato, gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro  e cambiò la storia del nostro Paese e la prospettiva della lotta alla mafia.

Quella di oggi sarà una giornata strapiena di commemorazioni istituzionali e della società civile e ovviamente questo piccolo blog non intende e non può raccontare tutte queste cose che riempiranno ampiamente e giustamente giornali e tv, siti e social, oltre ai tanti libri sull’argomento pubblicati in questa occasione.

Le autrici

Oggi qui voglio ricordare il dottor Giovanni Falcone, uomo e servitore dello Stato straordinario, raccontando di una bellissima, deliziosa e profonda pubblicazione per bambini e ragazzi – principali e fondamentali depositari del messaggio di legalità che questo rito di commemorazione collettiva intende trasmettere – ma credo anche per grandi visto che l’ho letta con grande emozione, dal titolo L’albero di Giovanni Falcone, scritto a “sei mani” da Alba Di Pasquale, bancaria, Rossella Drago, bibliotecaria e Federica Terranova, ecologista, edito da Spazio Cultura di Palermo, in libreria dal 5 maggio scorso.

Rossella Drago

Ci ha raccontato Rossella Drago, che ho il piacere di conoscere personalmente: “Questo progetto nasce da una storia vera. Negli anni ottanta Alba Di Pasquale lavorava come segretaria per una ditta di costruzioni. Un giorno vide il progetto di un condominio che prevedeva la demolizione di un villino Liberty in via Notarbartolo. Il villino era caratterizzato da un elegante torretta e circondato da un giardino. Alba cercò di convincere il suo capo a cambiare idea, a salvare il villino, naturalmente non ci riuscì, ma chiese di risparmiare almeno il ficus. Alba non ha mai condiviso questa storia, lei è una persona riservata e semplice. Quando per caso ho saputo com’era andata sono riuscita a convincerla in qualche modo a condividere questa vicenda raccontandola ai bambini sotto forma di “favoletta” perché i nostri bambini e ragazzi hanno bisogno di sapere che si può essere eroi anche nei piccoli gesti, di provarci sempre anche quando ci sentiamo impotenti anche quando pensiamo “ma in in fondo era solo un ficus”. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro quali conseguenze possono avere le nostre scelte… Nella storia Alba non è la protagonista, lei si intravede…così ha voluto. Il protagonista è il ficus di un delizioso giardino che si vede un giorno circondato dai palazzi e dal buio del cemento e dell’asfalto…troverà speranza nello sguardo di un uomo con la barba, un uomo diverso dagli altri”. 

Era il dottor Giovanni Falcone e quel meraviglioso ficus sta ancora lì, davanti al palazzo dove abitava ed è diventato famoso nel mondo come icona dell’amore e del rispetto per quest’uomo che ha dato la vita per noi.La nostra storia racconta di un umano extra-ordinario e di un ficus traccia vivente di una figura straordinaria – scrivono le autrici – entrambi provano che la cura delle cose comuni dovrebbe essere una sfida ordinaria”.

Mi piace molto anche aggiungere quanto ha scritto la mia cara amica e grande collega de L’Ora Claudia Mirto, che ha intervistato le autrici per la pagina Facebook L’Ora edizione straordinaria: “Se l’è tenuto dentro per circa mezzo secolo la segreteria della ditta di costruzioni che abbatté villa Tagliavia per far nascere un palazzone sull’asse della città liberty che ospitava giardini e magnifiche residenze. Fu lei, 23 anni,  a chiedere timorosa al suo capo di risparmiare quel bel ficus che ombreggiava l’ingresso della villa. E fu ascoltata. E non ne parlò per decenni con nessuno. Ma ha seguito la sua crescita, il suo costante caricarsi di disegni, simboli e lettere, l’ha visto in tutte le tv del mondo narrare dolore e speranza. Perché “un giorno venne ad abitare in quel palazzo un uomo con una barba e degli occhioni neri neri. Tutte le mattine l’uomo, prima di entrare in macchina, si fermava sotto il ficus, si accendeva una sigaretta e guardava i suoi rami mentre aspettava quello che l’albero pensava fosse la sua famiglia…”. 

Il libro è stato presentato al Salone internazionale di Torino nello stand della Regione siciliana. I proventi andranno alla creazione di un parco per bambini a Borgo Molara di Palermo. Io l’ho già regalato a mio nipote Andrea, che lo ha accolto con entusiasmo e lo porterà a scuola. Credo sia una buona idea regalarlo ai vostri figli e nipoti, ma non vi dispiacerà affatto leggerlo e apprezzare le splendide illustrazioni di Simona Bartilomo.

Con il titolo e dentro l’articolo: la copertina e alcune immagini dal libro “L’albero di Giovanni Falcone”

UN MIO PICCOLO RICORDO 

Giovanni Falcone, un bellissimo scatto di Franco Lannino
Ricordo anch’io perfettamente dov’ero e cosa facevo quel maledetto sabato pomeriggio di 30 anni fa, il 23 maggio 1992. Stavo nella mia casa di Palermo, allora in via Nicolò Gallo, dietro piazza Politeama. Guardavo la televisione. Ero da 15 giorni disoccupato, tristissimo, arrabbiatissimo per la chiusura del “mio” giornale L’Ora, che l’8 maggio aveva salutato i propri lettori con quell’indimenticabile titolone in prima: “Arrivederci”.
Improvvisamente spuntò la faccia di Angela Buttiglione, conduttrice del TG1, per l’edizione straordinaria rimasta nella storia. Passò subito la linea al mio amico Salvatore Cusimano, grandissimo cronista, che in tono concitato, carico di emozione, ci diede le prime terribili notizie, accompagnate da spaventose immagini rimaste per sempre scolpite nella nostra memoria, dell’ attentatuni di Capaci.  Ero un giornalista professionista con già un po’ di anni di mestiere sulle spalle, ma rimasi lo stesso inebetito di fronte a tale orrore. Ebbi subito consapevolezza della portata della tragedia, ma sperai che il dottor Giovanni Falcone si fosse in qualche modo salvato, in realtà per qualche tempo volli illudermi che qualcuno, angelo o spione, lo avesse portato via in tempo dal luogo della strage. Sono quegli strani meccanismi che foderano la mente e gli occhi di prosciutto quando non si vuole accettare una realtà mostruosa. Poi subentrò la seconda reazione, viva ancora oggi dentro di me: la frustrazione immensa perché lo storico giornale antimafia dove ero nato e cresciuto professionalmente non avrebbe potuto raccontare questa terribile storia e indagare sulle cause.

Nella mia meravigliosa e irripetibile esperienza professionale al giornale L’Ora, mi sono occupato intensamente per un paio di anni di cronaca nera durante la seconda guerra di mafia, raccontando tanti omicidi e fatti di sangue. Ma non scrissi mai di giudiziaria, dunque non frequentando il Palazzo di Giustizia non ebbi modo di conoscere e seguire il giudice Falcone, se non attraverso le cronache e le testimonianze dei miei colleghi. Lo incontrai a distanza ravvicinata una volta, da privato cittadino e qui mi piace ricordarlo. Accadde una sera, in una trattoria del centro storico di Palermo, in un periodo di enorme tensione e polemiche, cittadine e non solo, su scorte e sirene. Il dottore Falcone era in una saletta riservata con la dottoressa Morvillo e una coppia di amici, nella sala grande insieme al mio gruppo c’era una tavolata di ragazzi che festeggiavano un compleanno. Fuori ci stavano un paio di auto di scorta con un bel po’ di uomini della sicurezza. Ad un certo punto, l’ho raccontato spesso agli amici del nord che mi chiedevano di questo leggendario personaggio e della sua vita, qualcuno del gruppo festaiolo ebbe l’idea, tradizionale ma molto infelice in quel contesto, di spegnere le luci per portare la torta con le candeline. Non l’avesse mai fatto: gli agenti di scorta si precipitarono in sala, qualcuno con le armi spianate, riaccendendo le luci mentre qualcuno degli astanti del locale pensò bene di buttarsi sotto il tavolo. Scena da Far West, insomma, durata pochi secondi, ma con molta adrenalina e un pizzico di paura. Poco dopo, ricordo molto bene il suo elegante gesto, il dottore Falcone uscì dalla saletta e ci disse semplicemente, con sorriso amaro: “Scusatemi”. Mi rimase molto impresso e mi sembrò tutto tristissimo, perché capii come era costretto a vivere quell’uomo.  Onore per sempre al dottor Giovanni Falcone, alla dottoressa Francesca Morvillo, a Rocco DiCilio, Antonio Montinaro, Vito Schifani, a tutti coloro per hanno perso la vita per noi nella lotta eterna a Cosa Nostra.

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Il figlio, il padre, Madre Etna https://ilvulcanico.it/il-figlio-il-padre-madre-etna/ Thu, 20 Jan 2022 05:39:38 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=20981 di Gaetano Perricone Ero certo che La montagna di fuoco. Etna: la Madre, (Ponte alle grazie editrice, 128 pagine, 15 euro), da oggi in libreria, fosse un libro assolutamente speciale. Almeno per due ragioni fondamentali. Perché l’autore, il professore Leonardo Caffo, “filosofo, scrittore, curatore editoriale e opinionista italiano” scrive di lui Wikipedia – ma io […]

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di Gaetano Perricone

Con Leonardo Caffo, settembre 2016

Ero certo che La montagna di fuoco. Etna: la Madre, (Ponte alle grazie editrice, 128 pagine, 15 euro), da oggi in libreria, fosse un libro assolutamente speciale. Almeno per due ragioni fondamentali. Perché l’autore, il professore Leonardo Caffo, “filosofo, scrittore, curatore editoriale e opinionista italiano” scrive di lui Wikipedia – ma io aggiungerei anche divulgatore, poeta e molto altro, tutto ad altissimo livello – a neanche 34 anni è un pozzo di scienza e conoscenza famoso in Italia e non solo, lo dico con profonda convinzione e con grande gioia dato che lo conosco da bambino, uno che quando lo leggi ti fa pensare le cose più profonde e importanti del mondo, ma riesce spesso anche ad accarezzarti l’anima, come accade in molti passaggi di questo  volume. Ma Leo, mi permetto di chiamarlo così, confidenzialmente, è anche un figlio dell’Etna ed è figlio – qui sta la seconda ragione che rende speciale il libro – di un padre che si chiama Salvatore, per noi amici Salvo, che è un super vulcanologo, uno dei più bravi e sapienti al mondo per la conoscenza e divulgazione del vulcano siciliano Patrimonio dell’Umanità. E’ anche l’uomo che mi ha più aiutato e ancora mi aiuta nel mio appassionante, affascinante, sempre in progress percorso di conoscenza dell’Etna, mai finito e che mai finirà.

Salvo Caffo, vulcanologo del Parco dell’Etna

Salvo Caffo, insieme a quella guida straordinaria del vulcano che si chiama Franco Emmi, accompagna Leonardo in un viaggio pieno di suggestioni dentro la natura e l’anima dell’Etna, che è un ritrovare La montagna di fuoco da sempre amatissima e molto frequentata da ragazzo, ma è anche un modo di ritrovarsi attraverso una serie di riflessioni e di pensieri permeati dell’enorme bagaglio di conoscenze del filosofo della scienza catanese. Nel libro, dedicato allo scomparso Franco Battiato incontrato poco tempo prima che morisse, come spiega la scheda di presentazione della casa editrice molto meglio di quanto sappia fare io il giovane Caffo racconta i contenuti del viaggio e i suoi pensieri “attraverso uno scambio epistolare tra l’Uomo-filosofo e la Montagna di fuoco, che è un primo passo nella costruzione di quella ‘psicofisiologia degli ecosistemi’ ipotizzata da Sylvain Tesson. ‘Cara Etna’ è l’incipit di ogni lettera-capitolo, ma anche il saluto al padre vulcanologo, alla famiglia, agli amici d’infanzia, agli incontri, alle passeggiate, alle escursioni. Le storie, di oggi e di ieri, scritte sul paesaggio, sulla lava e sulle case. Ma, soprattutto, ‘Cara Etna’ è un’idea di montagna che comprende tutto: c’è «la trasformazione della vita specializzata in nuda vita, quella da persone a forme di vita semplici. C’è la vita come gioco che abbiamo lasciato indietro, la vita come sentiero di montagna dove l’obiettivo e il percorso sono solo due modi di dire la stessa cosa». Nella Montagna di fuoco si intreccia una passione per il vulcano che unisce un padre e un figlio. E se il padre, il vulcanologo Salvatore Caffo, ne racconta con chiarezza la storia e l’essenza, il figlio, filosofo, ne tratteggia lo spirito, che informa di sé il paesaggio tutto e gli uomini etnei”.

Scrive dunque a Lei e parla con Lei Leonardo Caffo, con la grande Madre, come un figlio orgoglioso. Una scelta suggestiva e coinvolgente, la feci anch’io in un mio libro con appendice nel 2004 e poi nel 2021, ma ovviamente senza lo straordinario bagaglio di sapere di Leo e senza le sue capacità divulgative; tra l’altro sono profondamente onorato di avere trovato La mia Etna in bibliografia. Ho già letto il libro che oggi arriva in libreria, ho avuto questo privilegio, l’ho anche riletto in molti passaggi complessi: emozione pura e intensa, arricchimento prezioso. Il grande filosofo della scienza si mette a confronto con la sua anima, le sue origini, la sua Montagna, che diventa il suo specchio, che riscopre da figlio, che con amore sente rinascere dentro se stesso. Un milione di spunti per chi sa coglierli, per chi sa leggere questo libro affascinante ma complesso.  E poi, soprattutto per noi etnei nativi o acquisiti che conosciamo bene e apprezziamo molto il cognome Caffo, c’è la parte che ci incuriosisce e cattura di più: c’è il figlio che il padre accompagna a ritrovare la Grande Madre.

Sul suo profilo Facebook Leonardo Caffo ha scritto poco tempo fa: “Tra pochi giorni (il 20) esce un mio nuovo e strano libro. Un dialogo con l’Etna, commissionatomi da @ponteallegrazie_editore e @i_libri_del_cai con l’aiuto di mio papà @caffo.salvatore che dell’Etna è il più grande esperto. C’è tutto, poesie e foto. Ma anche lettere e filosofia, ambientalismo e musica. A chiunque volesse come sempre rimproverarmi che questa non è filosofia, questa volta ha ragione. È solo un libro. Spero vi piaccia”. 

A me è piaciuto tanto. E’ stato già classificato come saggio, ma come dice l’autore è anche tanto altro. E’ una lettura che offre uno strumento di comprensione dell’Etna, della sua natura, della sua anima, della sua essenza, nuovo e diverso, profondo e pieni di stimoli culturali, scientifici, umani. Da leggere, se avete voglia di andare oltre la contemplazione della bellezza e potenza unica della montagna di fuoco, ponendovi insieme con Leo Caffo tanti interrogativi importanti.

Per gentile concessione dell’autore, ho scelto per proporveli alcuni passaggi del libro. E’ stata una scelta non semplice, ma assai stimolante.

Cara Etna, talvolta si fanno giri lunghissimi solo per tornare a casa. Ho fatto quasi tutto ciò che era in mio potere per evitarti, per non affrontarti, per non accompagnare papà quando di corsa scappava da te durante una eruzione notturna. Ogni figlio, in quanto figlio, non dovrebbe seguire le orme del padre. Eppure, oggi, sono qui a scriverti: ma lo faccio da figlio, non da padre. O almeno è ciò che mi è dato sperare all’inizio di questo viaggio

In qualche modo questa è una lettera d’amore, un inno alla gioia della Natura. Non una banale filosofia contemporanea che scopre l’importanza delle cose del mondo naturale stupendosi della loro essenza, ma una vita che ringrazia e prega. Io ti ringrazio, al di là di ogni possibile stereotipo falsamente non antropocentrico.

Penso a voce alta, nella Land Rover bianca di mio padre, che l’apocalisse deve essere più o meno qualcosa di simile – gli umani, e tutte le loro speranze e follie, svaniti nel nulla, mentre la natura si riprende i suoi spazi. In fondo non è questa la resurrezione? Dopo di noi, il tutto inclassificato e dunque davvero finalmente libero e leggero. Rinascere è far nascere gli altri… quanto egoismo ingenuo nelle religioni positive.

Dove sono tutti quegli scrittori borghesi che parlano di natura? Cosa ne è dei loro ‘bla bla’ nel momento in cui non riescono neanche a fare una passeggiata in un bosco? Alcune cose della filosofia che ho fatto in questi anni, me ne accorgo solo ora, mentre ti mando queste lettere, le ho capite soltanto osservandoti. Ho capito cosa significa che un ecosistema è molto più ampio della somma delle sue parti, e che forse è esso stesso un soggetto vivente come sostiene l’ecologia profonda. Ho compreso, anche se con tutte le difficoltà del caso, perché siamo irrilevanti nell’economia generale della natura e del pianeta.

Come puoi capire qualcosa di un vulcano senza sapere di filosofia? E che filosofia puoi fare quando un vulcano ti sembra solo una montagna in grado di emettere del fuoco o del fumo in modo del tutto casuale e imprevedibile? Con te, ancora una volta attraverso di te, ho imparato come si tengono insieme le cose del mondo: lo sguardo, ineducato, rischia di non comprendere che calpestandoti umilia innanzitutto se stesso.

Etna 16 febbraio 2021

Camminiamo sopra i luoghi dove un tempo si viveva, soffriva, gioiva. In fondo, comprendere le teorie più avanzate dell’ecologia speculativa, non è così difficile – la natura è un cimitero fiorito dove ogni morte genera la vita. La vita che verrà, poi in fondo preziosa quanto quella che è già qui intorno a noi, come quella che mi permette di scriverti queste lettere con la speranza non metaforica che tu le riceva davvero.

Nascere in mare, cara Etna, rende la commistione tra gli elementi apparentemente contraddittori con cui i presocratici provavano a descrivere l’origine del mondo, confusamente felice. L’acqua ospita la terra che genera il fuoco, proprio come capita oggi a un tuo fratello minore – lo Stromboli nelle isole Eolie.

Dove il mare diventa neve? E dove la neve si fonde col mare? Carola, nata e cresciuta dall’altro lato della Sicilia, non ha parole per descrivere il passaggio che nell’arco di meno di un’ora ci porta da una cima innevata a una spiaggia immensa. Ed è a questo rapporto con la totalità, cara Etna, che credo tu mi abbia silenziosamente educato per tutta la vita – anche nel più piccolo dei lembi di terra, forse, è racchiuso l’universo in tutta la sua interezza.

Come ti ho scritto più volte, molto spesso si sottovaluta il privilegio di un’esistenza che scorre vicino a un vulcano: lì dove la natura è selvaggia, dove ogni eruzione è un fenomeno estetico, e dove albergano le più grandi possibilità di riscatto, perché ogni distruzione è preliminare a una ricostruzione.

L’energia, cara Etna, cambia forma e vive nel transito muovendosi senza mai esaurirsi. Dell’anima, credente o meno, mi piace pensare questo suo ruolo di passaggio da un corpo all’altro della natura; non una reincarnazione, che sembra tradire il mito del prima e di un dopo, ma proprio semplicemente un cambio di vestito. Un simpatico eternismo.

Perdonali, Cara Etna, perché loro non lo sanno quello che fanno. E il paesaggio di mia figlia, nata tra le plastiche del mondo, spero sia bello come quello di quando ero bambino io. Io, ora che sono adulto, non riesco a vedere che il fallimento misero di una specie incapace di usare un cestino invece che una foresta un tempo incontaminata.

Vorrei provare a raccontarti ancora una volta quanto sia bello che sia tu, ovvero la natura, a dettare i tempi dei nostri incontri; eppure oggi, cara Etna, sono profondamente arrabbiato. Risentito dal non poterti essere vicino, deluso dall’assenza di calore della lava mentre so che qualcuno è lì al mio posto, irritato dall’impossibilità di questo pezzo di cammino e storia geologica non fatto insieme.

In molti faticano a comprendere il piacere che si possa avere percorrendoti a piedi, tra fatica e difficoltà; tutto ciò dipende, credo, dal non concepire la bellezza del processo come parte integrante della bellezza degli obiettivi. Questa ennesima vetta simbolica tra i tuoi solchi e alture, ovviamente, ha senso solo se considerata dalla base. Come la croce e il sacrificio trovano senso nella via, così
conoscere davvero una montagna o un vulcano significa aver desiderato giungere con la propria forza dove altri potrebbero arrivare con una buona jeep

Piano dei Grilli

Stamattina, nella cosiddetta ‘Piana dei Grilli’ non lontano da Bronte, ho avuto l’impressione che la vegetazione, scatenata da ciò che resta dalla colata ottocentesca, fosse stata organizzata da un qualche curatore di professione. Non credo esista una zona al mondo che, al pari di questo luogo, mi dia l’impressione di una struttura estetica che mi faccia ripensare a quanto fosse ingiusta la tesi di Hegel nella sua Filosofia della Natura. Tutto il senso delle cose del mondo, sosteneva il filosofo, sta nelle faccende dell’umano e nel lavoro dello spirito, mentre la natura, e le sue molteplici entità, non sono altro che fuori senso. Non è che voglia tornare a una immagine
kantiana, cara Etna, del sublime naturale tanto amata poi dal trascendalismo americano alla Thoreau. È che piuttosto bene io noto, osservando certi tuoi luoghi, che il lavoro dello spirito è più diffuso di quanto non potremmo pensare normalmente nella stessa natura. Uno spirito assoluto.

Etna, saponaria (foto di Luciano Signorello)

C’è una leggenda, cara Etna, che in fondo racchiude il senso generale del mio scriverti; pare sia stata Venere ad aver posto i cuscini di saponaria sul tuo dorso, per ricordarci che anche tra le insidie più grandi del fuoco e del tremore possono nascere amore e bellezza. È banale, ma bellissimo.

Mi viene in mente, qui su in cima, quel famoso detto zen che però vorrei dedicarti cambiandolo, giocando con le parole, ora che sono tornato su di te con gli stessi amici con cui giocavo a pallone da ragazzino:

prima della filosofia l’Etna era soltanto l’Etna,
e i vulcani soltanto vulcani,
durante la filosofia l’Etna non era più soltanto l’Etna,
e il vulcani non erano solo vulcani,
dopo la filosofia l’Etna era di nuovo L’Etna,
i vulcani nuovamente vulcani.

Dallo straordinario dialogo finale tra Leo e Salvo Caffo ho scelto questa parte:

Cara Papà

Com’è che sei diventato così appassionato dell’Etna, tanto da dedicargli una vita intera?

Da bambino ho avuto il privilegio di poter ascoltare il professor Alfred Rittmann, scienziato di levatura internazionale, che raccontava storie fantastiche sull’Etna, mentre provava le scarpe che mio padre gli realizzava, su misura, nella bottega da calzolaio in cui ho trascorso la mia infanzia. Aspettavo con ansia che quel signore elegantissimo e la sua splendida moglie venissero a trovarci per poter assistere al rito delle storie che lui non disdegnava di spiegare a mio padre e al suo giovanissimo figlio. Con parole dosate e misurate, ma dense di conoscenza, spiegava a noi, entrambi con cultura elementare, concetti veramente fuori dalla portata delle nostre conoscenze, riuscendo ad alimentare in noi la passione per l’Etna e per la Vulcanologia. Non c’era domenica che, con la mitica 600, non si partisse da Catania, insieme a mia sorella, ai miei genitori e alla nonna materna, per andare alla Pineta di Linguaglossa. Un vero e proprio viaggio che, per evitare di sentirmi male, trascorrevo con la testa fuori dal finestrino, avendo modo così di memorizzare il percorso e il paesaggio. Nel 1971, durante l’eruzione laterale che colpì l’abitato di Fornazzo ho seguito di nascosto il professor Rittmann, senza che i miei genitori lo sapessero! Ho trascorso gli anni della formazione scolastica e universitaria andandomene in giro con i miei amici in escursione sull’Etna e imparando a conoscere questo straordinario territorio e soprattutto a vincere la paura di essere solo e lontano da casa. Sin da studente universitario, ho sentito l’esigenza di trasmettere le emozioni che si provavano nel conoscere il mondo dei cristalli, delle rocce, dei fossili degli invertebrati, insomma, di quanto apprendevo circa i temi relativi al Pianeta su cui viviamo. Il mio pensiero è stato sempre rivolto al professor Rittmann di cui ho cercato di seguire le orme. È stato quasi naturale studiare Scienze Geologiche, conseguire il Dottorato di Ricerca universitario in Petrologia magmatica, diventare professore di Scienze Naturali e infine Vulcanologo del Parco dell’Etna: quasi una nemesi. Raccontare tutto questo durante incontri, convegni, conferenze rappresentava certamente un momento importante nel misurare la mia preparazione accademica, ma non mentirei se dicessi che ho sempre privilegiato il coinvolgimento emotivo per spiegare concetti e teorie del tutto avulse dalla nostra quotidianità.

La montagna di fuoco. Etna: la Madre, (Ponte alle grazie editore, 128 pagine, 15 euro)

Con il titolo: Leonardo e Salvo Caffo sulla “Schiena dell’Asino”

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Leggere Dante con intelletto e amore https://ilvulcanico.it/leggere-dante-con-intelletto-e-amore/ Sat, 15 Jan 2022 06:24:42 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=20942 di Maurizio Muraglia Il titolo del libro che ha rappresentato il contributo mio e di Laura Mollica alla celebrazione dell’anno dantesco – i settecento anni dalla sua morte – può riassumere la prospettiva di questa mia breve riflessione: Dante parla ancora? (Di Girolamo, 2021). Infatti l’interrogativo risulta d’obbligo quando si celebrano autori definiti “classici”: perché […]

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di Maurizio Muraglia

Maurizio Muraglia e Laura Mollica

Il titolo del libro che ha rappresentato il contributo mio e di Laura Mollica alla celebrazione dell’anno dantesco – i settecento anni dalla sua morte – può riassumere la prospettiva di questa mia breve riflessione: Dante parla ancora? (Di Girolamo, 2021). Infatti l’interrogativo risulta d’obbligo quando si celebrano autori definiti “classici”: perché sono tali? Perché hanno la possibilità di parlare ancora? La questione però necessita di una duplice ulteriore articolazione: parlare di che cosa e a chi?

Dante è un intellettuale appartenente a quel che convenzionalmente viene chiamato Medioevo, un’epoca chiaramente molto distante da noi. La distanza è sempre un problema, perché rende possibili avvicinamenti illusori, e spetta ai conoscitori dell’autore fare in modo che l’avvicinamento avvenga senza che venga tradita la storicità, appunto la distanza.

In questo 2021 appena concluso, a fronte di coloro che hanno voluto ricontemplare Dante nella sua medievalità per riproporlo senza grandi preoccupazioni di mediare o attualizzare, tanti hanno chiesto invece a Dante di parlare, come secondo me è giusto che si debba fare con un gigante della cultura. A questo punto torna la domanda iniziale: di che cosa e a chi ?

Dante Alighieri, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata

Ci sono temi che hanno una loro persistenza. La politica, ad esempio, ma anche la cultura o le emozioni umane. C’è un livello di avvicinamento possibile, a patto che Dante sia intervistato senza perdere di vista la distanza storica. Se si parla di approccio alle istituzioni oppure di desiderio amoroso o ancora di responsabilità individuale o di rapporto con le proprie radici culturali e identitarie, Dante può risultare eloquente anche al lettore di oggi. Un solo esempio: la faziosità politica, l’attitudine all’ideologia e al fanatismo possono essere tratti comuni al tempo di Dante e al nostro. In questo caso Dante potrebbe ancora parlare di qualcosa a qualcuno.

Ma c’è un tratto che rischia di essere sottovalutato. Dante non è principalmente un sociologo, un filosofo o un teologo. È un poeta. E se c’è bisogno di qualcosa a mio giudizio oggi è di poesia, cioè di capacità di rielaborare in profondità i contenuti della vita ordinaria. Dante è capace di trasfigurare il reale in poesia ovvero in immagini, suggestioni, emozioni. Il suo animo non è quello di un freddo ragionatore, ma contiene un incredibile mix, come egli stesso ama dire, di “intelletto e amore”. Il lettore accademico non può capire Dante, e neppure può capirlo il lettore sentimentale. Per far parlare Dante ancora occorre immaginare un’umanità in cui scienza ed emozioni siano perfettamente integrate. Un’umanità realmente umana.

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