tradizioni Archivi - Il Vulcanico https://ilvulcanico.it/category/tradizioni/ Il Blog di Gaetano Perricone Sat, 02 Aug 2025 04:45:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.2 “L’Etna non è solo madre. A volte è anche giudice” https://ilvulcanico.it/letna-non-e-solo-madre-a-volte-e-anche-giudice/ Sat, 02 Aug 2025 04:45:45 +0000 https://ilvulcanico.it/?p=25809 di Irene Randazzo Ci sono storie che non appartengono solo a chi le ha vissute, ma anche a chi le ha ascoltate. Mio marito, Pippo Raiti, custodisce nella memoria una di queste storie. La porta con sé fin da bambino, come un dono ricevuto davanti al fuoco durante le sere d’inverno, quando suo padre, Francesco […]

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di Irene Randazzo

Ci sono storie che non appartengono solo a chi le ha vissute, ma anche a chi le ha ascoltate. Mio marito, Pippo Raiti, custodisce nella memoria una di queste storie. La porta con sé fin da bambino, come un dono ricevuto davanti al fuoco durante le sere d’inverno, quando suo padre, Francesco Raiti, appartenente ad una delle più note famiglie di pastori di Castiglione di Sicilia – con la voce bassa e lo sguardo lontano – rievocava i racconti della sua infanzia. Ce n’era uno in particolare, che ogni volta lo commuoveva: quello dell’alba tragica del 2 agosto 1929, sul versante nord dell’Etna, quando un’improvvisa e terribile esplosione del cratere di Nord-Est provocò la morte del giovane Angelino Samperi, il quale aveva organizzato un’escursione notturna per raggiungere la vetta e vedere l’alba insieme ad alcuni parenti ed amici per festeggiare la maturità liceale appena conseguita. Con lui trovò la morte anche Giovanni Bonaccorso.

Francesco Raiti

Avevo dieci anni” raccontava suo padre “con tuo nonno Turi e i miei fratelli Vincenzo, Carmelino e Peppino, eravamo  in montagna in contrada Pitarrona. Nel periodo estivo, subito dopo la tosatura, le greggi si portavano in quota dove vi erano i pascoli migliori. L’Etna per i pastori era casa e mistero, sapevamo rispettarla, la guardavamo con fiducia, come si guarda una madre severa”. Francesco, faceva delle pause, mantenendo lo sguardo fisso e lontano, come a non voler perdere la nitidezza del ricordo,  accendeva l’ennesima sigaretta della giornata con gesto meccanico che sapeva di abitudine e riprendeva a raccontare: “Quella notte mentre tutti dormivamo si sentì un fragoroso boato che ci svegliò. Io dal  giaciglio in cui dormivo accanto a mio fratello Vincenzo, sentivo i più grandi parlare tra loro dell’impressionante esplosione. Vincenzo aveva esclamato: “scassau a Muntagna”. Poco dopo  cadde nuovamente il silenzio, ignari di ciò che era accaduto si riprese a dormire. Io avevo sentito le lore parole concitate ed ebbi paura ma abbracciai Vincenzo. “Non ti scantari”, mi tranquillizzò e ricominciai a dormire. Vicino a lui mi sentivo protetto e al sicuro. Mio padre quella notte non c’era perchè nel pomeriggio era sceso in paese per fare rifornimento di provviste”.

Mio marito racconta sempre del rapporto particolare tra suo padre Francesco e il fratello Vincenzo, maggiore di lui di ventidue anni. Egli era il più grande dei fratelli e lui lo adorava, ne andava fiero, anche perché tra la civiltà pastorale era riconosciuto da tutti come il mito dei pastori castiglionesi. Vincenzo, purtroppo, perse la vita nel 1932 a soli trentaquattro anni, a causa di una rovinosa caduta da una giumenta imbizzarrita. Francesco alla morte di Vincenzo aveva solo tredici anni e, a distanza di tempo, quando  nominava il fratello, la sua voce diventava tremolante. Anche quella sera in cui raccontava di quella tragica notte, la sua voce diventò mesta nel ricordarlo, tanto che fece una pausa, come a riprendere fiato, come a voler ricacciare in gola quella forte emozione. Interruppe il racconto, afferrò il cucchiaio che serviva a girare il fuoco nel bracciere e con fare lento lo mescolò, mentre il fuoco ricominciò a ravvivvarsi, così come i ricordi di quella notte che sembravano riaffiorare come le scintille di quel fuoco. Poi riprese il racconto.

Lapide delle due vittime al cimitero di Piedimonte Etneo

Ancor prima che facesse giorno, Vincenzo mi svegliò e mi affidò un importante compito. Andare a recuperare alcune pecore gravide che si erano spinte troppo in alto verso Monte Pizzillo, “U chianu ‘i Campani”, i due Pizzi. Quelle pecore a fine agosto sarebbero state pronte per figliare e non si poteva rischiare che si spingessero ancora più in alto. Per farlo mi indicò un preciso percorso, attraverso Monterosso, Montenero, “a Spinedda” e “i netti di Monte Frumento”,  per giungere infine verso Monte Pizzillo. Ero orgoglioso di questa specie di missione e felice perché Vincenzo l’aveva affidata a me e non a Carmelino o Peppino, seppure più grandi: ciò voleva dire che lui si fidava di me ed io ne ero fiero. Così presi il bastone di “Pirainaro” con i nodi bruciati che Vincenzo aveva fatto con tanta cura per me, chiamai Bosco, mio compagno di giochi, spettacolare esemplare di cane pastore a pelo bianco, e imboccai il sentiero per Monterosso. Da qui tagliai le lave del 1923, del 1911, arrivai a Montenero e salii verso “la Spinedda”. Arrivato nei pressi di Monte Frumento sentii il suono dei campanacci delle pecore provenire da Monte Pizzillo, ero vicino pensai. Continuai a salire. Ad un tratto notai uno strano atteggiamento di Bosco, era evidente che avvertiva la presenza di qualcosa o qualcuno ed ecco che anch’io iniziai ad intravedere l’incedere di una piccola carovana. Il sole era già alto, l’ora dell’alba era già passata. Fu allora che vidi qualcosa che non ho mai più dimenticato. Una cavalcatura scendeva lentamente, sul dorso penzolava il corpo di un giovane, riuscivo a intravedere il volto pallido, gli occhi chiusi. Gli uomini lo accompagnavano in silenzio, i loro vestiti erano laceri, sporchi di cenere vulcanica, sapevano di disperazione, era come se il dolore scendesse insieme a loro. Fu in quel momento, vedendo quel corpo sulla cavalcatura  e i volti di quegli uomini che collegai la loro presenza con l’esplosione avvenuta nella notte.  Rimasi pietrificato dalla paura, immobile aspettai il passaggio di quella processione, con lo stesso rispetto misto a pietà e paura che usavo avere il Venerdì Santo al passaggio del Cristo morto. Ad un tratto il mio sgomento fu scosso dalla domanda di uno di quegli uomini che mi si avvicinò e mi chiese quale fosse il sentiero più agevole per raggiungere la Caserma Pitarrona; indicai loro il sentiero e poi mestamente proseguii verso Monte Pizzillo. Avevo comunque un compito da portare a termine. Ripresi poi la strada del ritorno ma non avevo più quella spensieratezza che avevo invece all’inizio, sentivo che qualcosa era cambiato dentro di me. Giunto alla Caserma Pitarrona, gli altri sapevano già di quanto accaduto, il corteo era passato di lì. Dopo qualche giorno la notizia si diffuse  a Castiglione e nei paesi etnei, tutti rimasero colpiti della tragedia in cui avevano trovato la morte il giovane Angelino Samperi e Giovanni Bonaccorso, quest’ultimo era stato ritrovato dai soccorritori il giorno dopo. Entrambi erano di Piedimonte Etneo”.

Francesco Raiti e il figlio Pippo

Mio marito, bambino, ascoltava in silenzio. Lo immaginava  – suo padre a dieci anni, immobile tra le rocce, con gli occhi fissi su quel corteo di tragedia – e gli si stringeva il cuore. In quella scena c’era tutto: la bellezza e la crudeltà della natura, l’incanto spezzato di una giovinezza e la consapevolezza improvvisa della fragilità umana. “Da quel giorno” diceva suo padre, “non ho più guardato l’Etna allo stesso modo. Ho capito che non è solo madre. A volte, è anche giudice.

La tomba di Piedimonte Etneo dove sono seppelliti Samperi e Bonaccorso

Oggi, mentre scrivo queste righe, immagino di sentire l’eco della voce di Francesco Raiti, mio suocero. È una testimonianza che non deve andare perduta. Perché non è solo un ricordo di famiglia: è anche parte della memoria di un territorio, di una generazione che viveva a contatto con la montagna e ne accettava i doni e i pericoli. Mio marito oggi ha più anni di quanti ne avesse suo padre quando raccontava quella storia. Francesco morì improvvisamente a soli sessant’anni, nel 1980. Ogni volta però che torna con la memoria a quelle sere d’inverno, al fuoco nel braciere e alla voce bassa e ferma del padre che narrava, si commuove come allora. “Non era solo un racconto” mi ha detto una volta, mentre guardava il profilo dell’Etna all’orizzonte, “era una consegna. Mio padre non voleva spaventarmi, né cercava di impressionarmi. Voleva solo che sapessi che la vita è fragile, anche quando è giovane. Che la bellezza e il dolore camminano insieme. E che la memoria è un dovere e che “A Muntagna va rispettata”.

A volte, io e Pippo, restiamo in silenzio a guardare la montagna dal balcone di casa. In quel silenzio, so che lui sta rivedendo il bambino che era suo padre, fermo sul sentiero, tra le sciare di Timparossa, Montenero, Monte Frumento, Monte Pizzillo, mentre passava il mulo con quel giovane ferito, e tutto intorno taceva. Quel bambino non dimenticò. E neppure il figlio ha dimenticato.

Con il titolo: le lapidi di Samperi e Bonaccorso sull’Etna

 

 

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Il fascino antico del “fussuni” e del mestiere del carbonaio https://ilvulcanico.it/il-fascino-antico-del-fussuni-e-del-mestiere-del-carbonaio/ Wed, 05 Aug 2020 00:00:40 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=17471 di Gaetano Perricone E’ sempre molto affascinante rivisitare gli antichi mestieri, fondamentali per la vita quotidiana e l’economia dei tempi passati, rivivendoli attraverso il racconto dei protagonisti. E infatti sono rimasto molto affascinato – e con me ancora di più il mio nipotino Andrea – dal breve, ma intenso incontro domenicale con il signor Orazio […]

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di Gaetano Perricone

Con Sara Fraterrigo al Parco EtnAvventura

E’ sempre molto affascinante rivisitare gli antichi mestieri, fondamentali per la vita quotidiana e l’economia dei tempi passati, rivivendoli attraverso il racconto dei protagonisti.

E infatti sono rimasto molto affascinato – e con me ancora di più il mio nipotino Andrea – dal breve, ma intenso incontro domenicale con il signor Orazio Cavallaro, carbonaio e boscaiolo da oltre 45 anni, originario di Pedara, uomo della Muntagna di carismatica semplicità, di quelli che riescono a raccontare una vita di grande e silenzioso lavoro nei boschi attraverso le rughe che solcano il suo volto di uomo d’altri tempi. Ha 67 anni, Orazio, tre soli più di me, ma sembra molto più grande: guardandolo, percepisco più che mai la differenza tra il mio lavoro alla scrivania e il faticoso impegno della sua quotidianità.

Ci siamo visti in un luogo che più bello non potrebbe essere: la radura sulla fossa vulcanica di Serra La Nave, a quota 1700 metri sul versante sud dell’Etna, in quello che da qualche anno è il meraviglioso Parco EtnAvventura, il più alto d’Italia in mezzo a una natura straordinaria, punto di riferimento, di gioco e di gioia per bambini e ragazzi, ma anche per adulti che vogliono sprigionare in piano il Peter Pan che hanno dentro, oppure godersi come me la bellezza mozzafiato e il magnifico clima di questo posto. Mi ha invitato la mia carissima amica Sara Fraterrigo, che insieme all’altrettanto caro marito Giovanni Sciacca gestisce EtnAvventura con passione, entusiasmo, competenza, amore per la natura. Mi ha scritto: “Gaetano, vieni a vedere come si prepara u fussuni, è una rarità. So che ti piace e mi piacerebbe che lo raccontassi. E’ un’iniziativa a scopo didattico e divulgativo”. Una delle tante aggiungo io, tutte accattivanti e divertenti, che Sara e i suoi collaboratori organizzano spesso.

Orazio Cavallaro accanto al “fussuni”

Detto fatto, debbo dire con molta soddisfazione, amplificata dalla meravigliosa frescura che abbiamo trovato a Serra La Nave a fronte del caldo infernale di questo rovente inizio di agosto 2020. Ho conosciuto il mitico carbonaio Orazio, che ci ha accolto con il bellissimo sorriso di chi è orgoglioso del suo vecchio mestiere, ricco di tradizione, ma soprattutto prezioso. In due giorni aveva finito di preparare u fussuni, da cui si ricavava e si ricava ancora il carbone, come raccontano i miei scatti, mentre per la descrizione dettagliata dell’attività pubblicherò a seguire un testo che ho trovato molto chiaro e istruttivo da un link del sito della Regione, dove vengono citati e spiegati i termini dialettali che corrispondono alle varie fasi di questa attività.

Poche le parole di Orazio Cavallaro, ma incisive e significative: “Faccio questo lavoro da tanti anni e mi piace ancora molto, mi piace farlo conoscere – racconta – E’ un lavoro che ha consentito a tanti giovani di guadagnare qualcosa per potere studiare. Sull’Etna si fanno ancora parecchi fussuni”. Ci illustra con molta semplicità, usando ogni tanto i termini della vecchia tradizione, i passaggi che portano al fussuni: il taglio della legna dagli alberi, una volta con le asce, oggi con la motosega; l’accatastamento dei pezzi e pezzetti di legno in forma di cupola arrotondata in cima; la predisposizione del foro alla base, collegato con un cunicolo, una sorta di camera d’aria, al cuore della carbonaia; la copertura, “muratura” del fussuni con foglie e toppe fatte di terra; infine si provvede a “cociri u fussuni” con l’inserimento attraverso il foro di rametti di legna accesa per innescare la combustione, che con il passare dei giorni e la rialimentazione del  fussuni  con nuovi tronchetti (a sostituire quelli già arsi) porta alla produzione del carbone.

Apprendo da Orazio termini dialettali curiosi, per me del tutto sconosciuti: ginisi, la terra bruciata, da cui ginisari u fussuni. gettarvi sopra appunto la terra bruciata. Passaggio molto importante, questo della predisposizione della terra attorno e sopra la catasta, ci spiega il carbonaio, evidentemente felice di avere potuto raccontare quello che fa da tanti anni sull’Etna. Il nostro incontro finisce con l’appuntamento per i prossimi  fussuni a EtnAvventura.

Ma ecco la descrizione dettagliata, con i termini dialettali, di questa fascinosa attività.

FONTE:

http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/museomistretta/02_pulsanti/percorsi/05_carbonai_arti/01_attivita_carb/pagine/002.htm

La preparazione del fussuni

Avendo cura di risparmiare le piante più giovani e vive, capaci di ricostruire il bosco, il taglio degli alberi avveniva un tempo per mezzo di asce (‘ccetti, ‘ccittuni), sirruni e runculi, oggi in molta parte dei casi sostituiti da motoseghe, che permettono una notevole riduzione dei tempi e della fatica. Le piante abbattute venivano sfrondate e il fusto tagliato in pezzi di circa un metro di lunghezza. Lo stesso si faceva per i rami, riducendoli in piccola pezzatura qualora si fossero presentati storti. Si ottenevano dunque pezzi ruòssi e curciùma (curtùma).

Arrutari u fussuni

Lo spazio deputato per la combustione si puliva in precedenza per mezzo di zappunisciamarrurastiedru e si iniziava l’operazione di costruzione del fussuni (arrutari u fussuni).
Si trattava di ottenere una catasta a forma di cupola in cui attorno a un nocciolo (civata) fatto di legna secca o carbone mal cotto (marruna), si iniziava a disporre i materiali a partire dal centro verso l’esterno (e verso l’alto) sempre con disposizione verticale.

‘Ncurtumari u fussuni

L’utilizzazione successiva dei pezzi di piccolo taglio permetteva di conferire la forma sferica al mucchio (‘ncurtumari u fussuni).
Alla base si lasciava un foro (‘a porta) collegato con un cunicolo al cuore della carbonaia; dal centro, fino all’apice (u cricchju), la collocazione di legni più piccoli e secchi avrebbe permesso una più diffusa combustione e il ricambio di legna che si fosse in seguito reso necessario.

Murari u fussuni

La fase successiva consisteva nel ricoprire il tutto (murari, ntufunari u fussuni) con foglie e toppe di terra; il trasporto avveniva per mezzo della cartiedra (carteddacufinu), e la collocazione sulla sommità grazie a una scaletta in legno. Al termine l’insieme veniva battuto e reso compatto con un magghiu.

Cociri u fussuni
La mattina si dava fuoco al fussuni attraverso l’inserimento nel cunicolo predisposto di un mazzo di rametti accesi, spinto con una forcella in modo che si innescasse la combustione nella civata.
L’emissione di fumo era segnale della ‘presa’, e dunque venivano chiuse le aperture da’ purtedda e du’ cricchju.
Durante i primi giorni, il carbonaio provvedeva a praticare fori diversamente disposti sulla superficie terrosa, per verificare attraverso la fuoriuscita dei fumi l’omogeneità della combustione o per permettere, attraverso il dislocato tiraggio e la degassazione, una corretta propagazione del fuoco all’interno della carbonaia.

Ginisari u fussuni
Ogni ventiquattro ore e per tre, quattro giorni il carbonaio scopriva la sommità per calare all’interno del fussuni nuovi tronchetti in maniera da rimpiazzare la legna già arsa.
La perdita di volume che si andava verificando col tempo, richiedeva una ciclica sistemazione e battitura della terra per mezzo del rastiedru e del magghju. L’operazione veniva detta ‘ginisari u’ fussuni’ perché si trattava di ridistribuire su esso la terra ormai bruciata, detta appunto ginisi.

Sfussari u fussuni

Dopo otto, dieci giorni la cottura si poteva dire completata e il carbonaio ne decideva l’interruzione, riconoscendone l’opportunità dal volume ridotto, dal colore, dalla densità e dall’odore del fumo.
Venivano chiuse tutte le fessure e fatto spegnere il nucleo; l’indomani si buttava acqua dall’apice e, a raffreddamento quasi completo, si iniziava a ‘sfussari’. Con movimenti lenti ma decisi si rimuoveva u ginisi, e per mezzo di furculi e cartiedra veniva prelevato il carbone che presentava, se l’operazione era perfettamente riuscita, tizzoni che avevano la stessa pezzatura del legno di origine, notevole leggerezza e suono argentino. Il prodotto veniva insaccato secondo pezzatura e contenuto in sacchi di juta legati con spago alla sommità, pronto per essere trasportato e venduto.

 

 

 

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Coronavirus/#Cuntimiuncuntu: dal Parco dei Nebrodi parte una campagna a sostegno degli anziani https://ilvulcanico.it/coronavirus-cuntami-un-cuntu-dal-parco-dei-nebrodi-parte-una-campagna-a-sostegno-degli-anziani/ Fri, 03 Apr 2020 14:07:43 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=16380 FONTE: https://www.facebook.com/parcodeinebrodi.it/ Cuntimi un cuntu: come utilizzare questo particolare periodo dell’emergenza legata al #coronavirus per rendersi ancora più utili con le persone sole. Un modo per stare simbolicamente vicini ai nostri anziani, custodi delle tradizioni locali e valorizzare le loro conoscenze: parte dal Parco dei Nebrodi la campagna per sostenere gli affetti che in questo momento sono […]

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FONTE: https://www.facebook.com/parcodeinebrodi.it/

Sara La Rosa
Sara La Rosa

Cuntimi un cuntu: come utilizzare questo particolare periodo dell’emergenza legata al #coronavirus per rendersi ancora più utili con le persone sole. Un modo per stare simbolicamente vicini ai nostri anziani, custodi delle tradizioni locali e valorizzare le loro conoscenze: parte dal Parco dei Nebrodi la campagna per sostenere gli affetti che in questo momento sono al sicuro in casa e che possono essere raggiunti con una semplice telefonata.

Mettiamo a frutto questo momento, non solo con il supporto del nostro affetto a distanza ma anche per cercare di creare una banca dati della tradizione dei Nebrodi con proverbi, poesie, filastrocche che sono sicuramente utili in questo momento per tenere in esercizio la memoria e impedire il senso di abbandono purtroppo in agguato. Sara La Rosa, responsabile della Comunicazione del Parco dei Nebrodi, lancia questo invito alla popolazione locale, per “adottare” una persona anziana, che sia un parente, un vicino di casa, un familiare che vive da solo e che ha bisogno del nostro sostegno: il racconto della nostra storia, delle nostre tradizioni può rivelarsi uno strumento utilissimo per riempire e dare un senso a queste giornate. “Un piccolo contributo ad una grande causa: sosteniamo i nostri affetti con una telefonata o una videochiamata (come faccio io con le mie “ragazze”) e facciamoci raccontare una storia, un proverbio“, spiega Sara La Rosa sul suo profilo Facebook.

Una iniziativa per tenere in esercizio la memoria e raccogliere storie che rischiano di andare perdute. Un cordone con i nostri affetti più cari per trasformare questo momento in una opportunità, per trascrivere antichi detti, fiabe, ricette che possono sembrare banali, ma che invece rischiano di essere azzerati.

Annotate i vostri ricordi, citando la zona di provenienza e la fonte: sarà possibile, ad emergenza cessata, raccogliere il materiale e pubblicarlo. Ma stiamo a casa in questo momento e cerchiamo di fare tesoro di questo tempo a disposizione per i nostri affetti.
Dai “cunti” ai telefonini il passo è breve: regaliamoci reciprocamente compagnia, non costa nulla e ne usciremo arricchiti sotto ogni aspetto.

#cuntimiuncuntu #andràtuttobene

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Il fascino discreto della filletta, antico e vulcanico dolce brontese … https://ilvulcanico.it/il-fascino-discreto-della-filletta-antico-e-vulcanico-dolce-brontese/ Wed, 05 Dec 2018 16:42:08 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=10359 di Gaetano Perricone Non solo pistacchio a Bronte, forse la capitale mondiale dell'”oro verde”, sempre più ricercato e costoso, ma anche dolci tradizionali originali e gustosissimi. Merita davvero un breve reportage, non soltanto fotografico con i miei scatti “voraci”, la visita sicuramente affascinante, all’insegna della tradizione e della nostalgia delle sane cose di una volta, che ha […]

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di Gaetano Perricone

La signora Rosa, "fillettara" di Bronte, nel suo laboratorio
La signora Rosa, “fillettara” di Bronte, nel suo laboratorio

Non solo pistacchio a Bronte, forse la capitale mondiale dell'”oro verde”, sempre più ricercato e costoso, ma anche dolci tradizionali originali e gustosissimi.

Merita davvero un breve reportage, non soltanto fotografico con i miei scatti “voraci”, la visita sicuramente affascinante, all’insegna della tradizione e della nostalgia delle sane cose di una volta, che ha fatto qualche giorno fa nella “filletteriaNovè di Bronte, il piccolo laboratorio in via San Pietro, nel cuore del centro storico, dove la fantastica signora Rosa, – personaggio d’altri tempi che emana grande dolcezza e pazienza, ma soprattutto tranquillità da circa quarant’anni prepara, con metodo e cottura tradizionale in padella di rame, i meravigliosi filletti (al plurale maschile, filletta è il singolare femminile, secondo tradizione), pan di Spagna tipico brontese di perfetta forma circolare, morbidissimi e profumatissimi, soprattutto di una squisitezza.

Rosa FILLETTIERA

Scrive bene, in modo molto appropriato, su feisbuc Ettore Eni Lupo, che di filletti se ne intende per importante tradizione familiare brontese: “Dolce vulcanico più di ogni altro, visto che per cuocere non vuole la fiamma ma braci calde di carbone! Vassoietto di cartone, imbustate una per una ancora calde, il tutto avvolto in carta rosa antico con nastro dorato da 6 mm. Ricordi indelebili di nostrane Madeleines”.

La signora Rosa, che con grande gentilezza e disponibilità ci ha mostrato “dal vivo” il procedimento di preparazione e cottura della filletta, con la sua flemma sembra davvero una superstite di un (bel) mondo antico che sta scomparendo. “Le faccio da tanti anni, da sempre e credo di essere rimasta una delle poche, se non l’unica a Bronte – rivendica quasi con orgoglio – Ci vuole tanto impegno e tantissima pazienza in ogni passaggio: nella fase di preparazione, nel tenere sempre calde le braci sotto e sopra, nei tempi di cottura di ogni singola filletta”. E quando le diciamo che non è solo tradizione, ma è un’arte, lei sorride dolcemente e annuisce con modestia.

Ma ecco la scheda e la ricetta di questo delizioso dolce, da uno tra i più noti siti web locali.

PREPARO FILLETTA

FONTE: http://www.bronteinsieme.it/7tr/dol_tip.htm. I dolci brontesi

La filletta, tipicamente bron­te­se, è un dolce antichis­simo, dalla carat­teristica forma perfettamente rotonda. Tramandato di generazione in gene­razione, è l’esaltazione della fan­tasia, dell’amore e soprattutto della pazienza. E’ composta di semplici ingre­dienti: farina, zucchero ed uova (ed an­che pistacchi, ma soltan­to se si vuole arricchire ed impreziosire il dolce). Rigidamente segrete le proporzioni.

A giudicare dalla preparazione fa venire in mente il modo con cui gli ebrei (forse provenienti dalla Spagna) preparavano il pane alternativo all’azzimo. Ed a Bronte un tempo viveva nella zona tra via Grisley e via Imbriani una nutrita colonia ebraica.

CARBONE FILLETTE

La filletta è fatta con una tecnica, perfezionata nel corso di molti anni e tramandata di generazione in generazione, che produce un dolce gustoso, sofficissimo e perfetto nella sua forma esattamente circolare. La cottura richiede molta perizia e nessuna distrazione in quanto ogni filletta viene cotta singolarmente in una piccola padella di rame unta di burro, posta ad una distanza di circa 10 cm. su un braciere colmo di cenere calda e coperta da un coperchio su cui è posta altra brace ardente. Questa tecnica perfezionata nel corso di lunghissimi anni, probabilmente da donne votate ai pazienti lavori femminili ed alla preghiera, permette la preparazione di un dolce soffice, gustoso, dal colore caldo e perfetto

La filletta (al plu­rale strana­mente diven­ta maschile: i filletti) è venduta dai privati e nei bar di Bronte, avvolta in un particolare foglio di pla­stica trasparente per con­servare a lungo l’aro­ma e la tipica sofficità.

E per finire in bellezza, ecco i  filletti nel pacco di sempre, “rosa antico con nastro dorato”, poi uno per uno accuratamente conservati nella busta di plastica, pronti per essere gustati. Riti antichi, sempre uguali per sapori stupendamente attuali.

Se non conoscete questa prelibatezza, fatevi una passeggiata a Bronte e una visita in filletteria. Non ve ne pentirete !

Ps: non mi sto improvvisamente dedicando agli antichi sapori etnei, anche se varrebbe la pena. E’ che proprio la filletta mi piace assai …

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Quinziano, che fece martirizzare Sant’Agata e fu inghiottito dal Simeto https://ilvulcanico.it/quinziano-che-fece-martirizzare-santagata-e-fu-inghiottito-dal-simeto/ Mon, 05 Feb 2018 18:05:45 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=6091 di Elvira Mazzone Si sono concluse oggi, all’Oasi del Simeto, le tre giornate dedicate alla Santa Patrona di Catania, Sant’Agata. Qual è il collegamento tra il Simeto e la Santa? In un momento in cui la città di Catania si immerge nella pienezza della festività riempendola di misteriosa religiosità, colori e “Semu Tutti devoti Tutti […]

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ELVIRA

di Elvira Mazzone

Si sono concluse oggi, all’Oasi del Simeto, le tre giornate dedicate alla Santa Patrona di Catania, Sant’Agata.

Qual è il collegamento tra il Simeto e la Santa? In un momento in cui la città di Catania si immerge nella pienezza della festività riempendola di misteriosa religiosità, colori e “Semu Tutti devoti Tutti – Cettu Cettu”, tante sono le leggende, che si intersecano nella storia e nel culto di Sant’Agata e una di questa è quella che la riporta proprio al Simeto.

Agata, dal greco “la Buona”, fin da piccola ricevette un’educazione cristiana e all’età di soli quindici anni scelse di sua spontanea volontà di consacrarsi a Dio tanto da ricevere dal Vescovo di Catania il flammeum, il velo rosso che veniva dato alle vergini consacrate al Signore.

Si narra che l’allora Proconsole Quinziano volle conoscere la vergine Agata, sia per la sua bellezza che per il suo appartenere a una famiglia nobile. La fece condurre al suo palazzo dai messaggeri e le chiese della sua famiglia; Agata senza porsi nessun problema dichiarò al Proconsole la sua Fede in Dio. Quinziano era a Catania per far rispettare l’Editto dell’imperatore Decio, quindi chiedeva a tutti i cristiani di rinunciare alla propria fede.

Maestro della Sant'Agata (sec. XIII) Funerali di sant'Agata; Morte di Quinziano. Chiesa di Sant'Agata a Cremona
Maestro della Sant’Agata (sec. XIII) Funerali di sant’Agata; Morte di Quinziano. Chiesa di Sant’Agata a Cremona

Quinziano, tormentato dal desiderio di Agata, che puntualmente lo rifiutava, la sottopose a torture di ogni genere, offendendola anche nella sua bellezza e dignità di donna: le fece strappare le mammelle con le tenaglie. Riportata sanguinante in carcere, ad Agata apparse Pietro, l’Apostolo di Gesù che la rassicurò e le risanò il seno mutilato. Dinanzi a questo miracolo, Quinziano ancora più indispettito fece preparare i carboni ardenti dove Agata sarebbe stata gettata a corpo nudo e fatta rotolare. Agata per quella esecuzione indossò il velo rosso che rappresentava la sua consacrazione a Dio e ancora un miracolo avvenne: il velo non bruciò e da quel momento venne custodito come reliquia.

Durante l’esecuzione di quell’ordine, si scatenò un terremoto a Catania, dove morirono i consiglieri del Proconsole. Quinziano, spaventato, lasciò il suo palazzo in sella al suo cavallo deciso ad appropriarsi dei terreni appartenuti alla famiglia di Agata, raggiunse il Simeto, ma nell’attraversarlo, all’improvviso si formarono dei gorghi, inghiottendo Quinziano e il suo cavallo. Si narra che ancora oggi, nella notte tra il 4 e il 5 Febbraio, si senta il nitrito del cavallo e la voce di Quinziano che invoca Agata.

Foto di gruppo per l'Associazione Orione
Foto di gruppo per l’Associazione Orione

Cosi in questa affascinante cornice, tra storia, leggenda e religione, l’associazione Orione e il WWF Sicilia Nord Orientale, presenti all’Oasi del Simeto con il progetto “Nuova Oasi”, hanno coniugato la Grande Bellezza e la tradizione della Festa di S.Agata con l’altrettanta Grande Bellezza naturale della Riserva.

ELVIRA SIMETOIn queste giornate, i partecipanti dell’Istituto Superiore Boggio Lera, della scuola di danza Tery Al Kubra, del gruppo “Passione Natura” e dei tanti catanesi intervenuti, hanno potuto conoscere la Riserva Naturale Orientata Oasi del Simeto, nella sua veste nuova, attraverso sentieri in fiore, lo scorrere del fiume, arricchito dalla presenza della fauna in migrazione, impreziosito dalla maestosa presenza dell’Etna, e come per incanto e magia attraverso il racconto della struggente storia di Sant’Agata.

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Nicolosi e il Velo rosso di Sant’Agata https://ilvulcanico.it/il-velo-rosso-di-santagata/ Sun, 05 Feb 2017 07:30:04 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=2364 di Gaetano Perricone Uno degli aspetti più interessanti e originali, sotto il profilo culturale e antropologico, della vita sull’Etna è senza alcun dubbio il rapporto molto particolare e intenso tra la fascinosa Montagna, con la sua lava, e la fede religiosa. Me ne sono occupato nel 2004, sul mio libro “La mia Etna. Dialogo con la Muntagna” (Giuseppe […]

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di Gaetano Perricone

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Uno degli aspetti più interessanti e originali, sotto il profilo culturale e antropologico, della vita sull’Etna è senza alcun dubbio il rapporto molto particolare e intenso tra la fascinosa Montagna, con la sua lava, e la fede religiosa.

Me ne sono occupato nel 2004, sul mio libro “La mia Etna. Dialogo con la Muntagna” (Giuseppe Maimone Editore). Immaginando di parlare con Idda, scrivevo così: “Ciò su cui mi interessa soffermarmi è questa lunghissima storia – intrisa di paura, religiosità profonda, credenze popolari, amore per te profondamente radicato – del rapporto tra la lava e la fede, un rapporto che si è manifestato negli anni attraverso la realizzazione. in vari punti del territorio del vulcano, di luoghi di culto davvero magici. Laddove, in pratica, nel corso delle varie eruzioni, le colate si sono improvvisamente fermate, le genti dell’Etna hanno prodotto una serie di simboli di fede – chiese, santuari, altari, statue, ex voto, dipinti – per ringraziare la Provvidenza per avere bloccato la “furia devastatrice del vulcano” (riporto testualmente la bruttissima frase, profondamente irriguardosa nei tuoi confronti, letta più volte nelle cronache dell’epoca)”.

Sant'Agata in processione (foto di Klaus Dorschfeldt)
Sant’Agata ieri in processione (foto di Klaus Dorschfeldt)

Questa premessa mi è sembrata indispensabile per introdurre la storia della domenica, bellissima e appassionante, doverosamente dedicata a Sant’Agata, patrona di Catania, la Santuzza adorata dal suo devotissimo popolo etneo, che si festeggia oggi 5 febbraio con la tradizionale, grande processione nel cuore della città. Tratta dal piccolo, delizioso libretto “L’Etna, la lava e la fede” – una guida del luoghi sacri del vulcano promossa dal Parco e scritta mirabilmente dalla professoressa Maria Teresa Di Blasi, grande esperta dell’argomento, che ebbi il piacere di conoscere in quella occasione – , racconta uno degli episodi più significativi di questo fascinoso rapporto e si intitola  “Nicolosi: il Velo Rosso di Sant’Agata“. Il Vulcanico la propone integralmente a chi non la conosce, ma anche ai tantissimi catanesi che la conoscono a fondo ma hanno sempre piacere di rileggerla.

(Maria Teresa Di Blasi). Dalla cima dell’Etna sorse, ad un tratto, una colonna di fumo che si sparse per il cielo. Giunta molto in alto, la colonna di fumo si allargò, spandendosi da tutte le parti, come un pino e come un immenso ombrello. ‘Ecco, un’eruzione’, gridarono tutti a una voce … Già da lontano si scorgeva una colonna di fumo denso e nero che, scaturendo da fianco del monte, ci indicava il luogo dell’eruzione. In Catania la cenere giaceva per le strade alta un dito, un velo nerastro, venendo dall’Etna, avvolgeva la città: il sole aveva perduto il suo splendore, muovendosi come un globo rosso per il cielo. Molte carrozze, l’una dietro l’altra, salivano la strada che conduce da Mascalucia a Nicolosi; migliaia di curiosi correvano alla lava, che fin dal secondo giorno, stendendosi sempre più minacciosa, si volgeva verso Nicolosi e Belpasso.

Al sopraggiungere della notte l’orizzonte si coprì d’uno splendore rossastro, come se fosse un grandissimo incendio; un tetro rimbombo, simile a un tuono lontano, risuonò per l’aria; salendo più in su e per i villaggi, situati lungo la strada, troviamo dappertutto le chiese aperte e molte candele che ardono intorno all’altare. Sulle gradinate stanno, prostrati o genuflessi, uomini e donne; altri si vedono sulle porte delle case, ogni lavoro è interrotto. La gente, vestita a festa, guarda con l’espressione di una ansiosa aspettativa le carrozze che passano, aspettano la carrozza dell’Arcivescovo di Catania, il quale deve portare anche oggi il Velo di Sant’Agata a Nicolosi.

Lo splendore del fuoco sopra le nostre teste diviene sempre più chiaro, il tuono del monte sembra sempre più rimbombante: a un tratto, più in là, si ode una strano cantare e gridare. E’ veramente un cantare ? Veramente un gridare ? S’innalza subito, come un lamento stridente, e dopo si perde in un lungo e tetro sussurro, quasi venisse giù dal monte una folla innumerevole. Ecco che alla svolta di una cantonata si vedono dei lumi e delle torce che lentamente si avvicinano: le carrozze si fermano. ‘Sono i Santi !’, bisbiglia il nostro cocchiere, cavandosi devotamente il cappello. E se anche tu non credessi né a Sant’Antonio, né al miracoloso Velo di Sant’Agata, ti caveresti certamente anche tu il cappello come fanno tutti questi paesani e anche sui tuoi occhi spunterebbero le lacrime a quella vista”.

L'altarino di Sant'Agata, poco fuori l'abitato di Nicolosi
La cappelletta dedicata a Sant’Agata, poco fuori l’abitato di Nicolosi (foto Gaetano Perricone)

August Schneegans (“La Sicilia nella natura, nella storia e nella vita”, 1890), con queste parole ancora piene di trepidante commozione, ci ha lasciato una testimonianza diretta dell’arrivo del Cardinale Dusmet, che trasportava il Velo di Sant’Agata da Catania a Nicolosi, teatro della terribile eruzione del 1886. Certamente l’episodio appena descritto resta, nell’immaginario delle genti dell’Etna, il più significativo e il più ricco di pregnanti simbolismi religiosi. Oggi, nel luogo in cui la lava si arrestò miracolosamente, sorge una cappelletta (1886) con l’altare e le panche per assistere alle sacre funzioni. Sulla facciata, decorata da colonnine sormontate da un frontone spezzato, spicca la “Tavoletta di Sant’Agata” e l’iscrizione ‘DIVAE AGATAE SERVATRICI” (A Sant’Agata che ci salvata). Nel 1989, a destra dell’edificio, è stato realizzato un monumento bronzeo al Cardinale Dusmet.

La tradizione che attribuito al Velo di Sant’Agata un potere miracoloso contro le eruzioni ha origini antichissime. Narrano gli agiografi che un anno dopo la morte di Agata (252 d,C.) una moltitudine di persone afferrò il suo Velo che era rinchiuso nel sepolcro e con quello arrestò l’eruzione. Nell’iconografia agatina molte sono le tele che si riferiscono ai miracoli di Sant’Agata contro le eruzioni: tra le più interessanti, ricordiamo quella ottocentesca, conservata al Castello Ursino, del pittore Giuseppe Rapisardi che evoca il momento in cui il Beato Domenicano Pietro Geremia portò il Velo sul luogo dell’eruzione del 1444 e la tela settecentesca di Marcello Leopardi con Sant’Agata che intercede presso Gesù per liberare Catania dalle colate laviche.

I tre Altarelli (dalla pagina Nicolosi.Etna
I tre Altarelli (dalla pagina NicolosiEtna.it)

Legato alla medesima eruzione devastante del 1886, di cui abbiamo appena riferito, è un altro altarino, poggiato su una piattaforma naturale di lava rappresa, che segna il punto in cui fu portata la statua di S. Antonio Abate; è datata 1986 ed è interamente realizzato in piccoli blocchi di pietra lavica. A qualche chilometro di distanza dal centro di Nicolosi è situata un’altra memoria miracolosa che, stavolta, riguarda l’eruzione lavica del 1776, quando la città si vide minacciata da vicino. In quell’occasione i nicolositi portarono sul luogo più critico le immagini sacre di Sant’Antonio di Padova, Sant’Antonio Abate e della Madonna delle Grazie. Il monumento attuale, conosciuto come “I tre Altarelli”, sorge nel luogo di quello più antico, che è andato distrutto”.

In homepage: Nicolosi, la cappelletta eretta dove si fermò la lava del 1886 e accanto la statua del  cardinale Dusmet (mia foto)

 

 

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Oriana, moderna cantastorie dell’anima siciliana https://ilvulcanico.it/oriana-moderna-cantastorie-dellanima-siciliana/ Wed, 11 Jan 2017 17:00:50 +0000 http://ilvulcanico.it/?p=2096 di Sara La Rosa Primo articolo dell’anno sul Vulcanico, scritto mentre aleggiano ancora nell’aria i buoni propositi che, durante le festività appena trascorse, abbiamo immancabilmente messo in cantiere. Tra i tanti, anche quello di ritrovare tempo per sé stessi da dedicare alla musica, alla lettura o a quella passeggiata tante volte rinviata. Bella la nostra […]

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di Sara La Rosa

Sara La Rosa con Oriana Civile
Sara La Rosa con Oriana Civile

Primo articolo dell’anno sul Vulcanico, scritto mentre aleggiano ancora nell’aria i buoni propositi che, durante le festività appena trascorse, abbiamo immancabilmente messo in cantiere.

Tra i tanti, anche quello di ritrovare tempo per sé stessi da dedicare alla musica, alla lettura o a quella passeggiata tante volte rinviata. Bella la nostra Sicilia, quante cose ci perdiamo, mentre corriamo per andare a lavorare senza degnare di uno sguardo i nostri paesaggi…

Ecco che così la serata conclusiva delle manifestazioni natalizie a Capo d’Orlando, cittadina in provincia di Messina, diventa una incantevole occasione per ascoltare i canti della tradizione siciliana del Natale e ripercorrere il “viaggiu dulurusu di Maria Santissima e di lu Patriarca S.Giuseppi in Betlemmi”.

Tra nenie e letture Oriana Civile, cantante e studiosa delle tradizioni popolari siciliane, con la sua voce dalla personalità eclettica e versatile, ci riporta indietro nel tempo, proponendo un vasto repertorio, frutto di accurati studi di etnomusicologia che, approfittando del periodo natalizio ci propone, da moderna cantastorie, parole e suoni della nostra terra.

Qui e sotto, due momenti del concerto di Oriana
Un momento del concerto di Oriana

E nascìu la luci eterna: questo il titolo dello spettacolo, che ha proposto una selezione di nenie curata da Oriana Civile,  voce dello spettacolo con Nino Milia alla chitarra e mandola e Daniela Giaimo al flauto

Dalla “Gnignarèdia” di S. Michele di Ganzaria (CT) alla “Novena” di Agira (EN) e tante altrie che fanno scorrere, quasi come un film in bianco e nero, il percorso di “quella” famiglia, la necessità di trovare un ricovero, mestieri che non esistono più se non nei Presepi e di cui è importante raccontare ai nostri figli.

Tutta la Sicilia si ritrova a cantare il proprio omaggio al Bambinello e, per dirla con le parola di un altro canto, “A ciaramedda” ci ricorda “la nuvena quant’è duci, duna paci all’infilici”.

Ecco così riemergere, in quell’atmosfera di serenità, le tradizioni musicali siciliane, quelle del popolo e della musica che appartiene a tutti noi, delle quali purtroppo si rischia di perdere le tracce a vantaggio delle tradizioni di altri Paesi.

Se infatti, immergersi nelle sonorità di altre tradizioni può sicuramente costituire un piacevole diversivo, il rischio è quello di perdere la cultura popolare siciliana che, come dice la stessa Oriana Civile, “nella versione cantata dal popolo è diversa e talvolta riproposta in maniera distorta. Ritrovare la musica di tradizione orale è un lavoro impegnativo ma di grande soddisfazione”.  

La serata è stata anche il pretesto per riascoltare canti che riportano indietro nel tempo, quelli dei nostri nonni. Quando le comunità erano unite e non virtuali.

Lo spartito della "Ciaramedda"
Lo spartito de “A Ciaramedda

E per ricordarsi che la musica popolare siciliana ha un repertorio vastissimo: mentre una giovane  donna con la sua chitarra  canta e incanta, un’altra giovane donna, da un Presepe vicino, sta lì con un bimbo tra le braccia. Tra sacro e profano: grazie ad una nenia che rischiava di rimanere chiusa in un cassetto, scritta su un foglio di carta ingiallito dal tempo mentre fuori, oggi come allora, “sciuscia ‘a tramontana cu la nivi e la biancura tinci tutta la campagna: oh, che bedda la natura!”, per dirla con le parole di un altro canto tradizionale.

Natura e solidarietà, valori in musica: anche questo una occasione per pensare a “quella” famiglia che chiedeva aiuto ed ospitalità, così simile ad altre famiglie dei giorni nostri.

 

 

 

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