di Maria Pia Basso
Siamo tutti allievi della didattica a distanza. Lo sono i docenti, lo sono i discenti, lo sono i genitori. E ciò appare di immediata percezione. Allievi confusi, a tratti, fin troppo incerti. Allievi da nutrire e orientare. Lo sforzo è richiesto a chiunque perché il percorso non è subito ben chiaro e nemmeno scevro da imprescindibili aggiustamenti in corsa.
Insegnare “da lontano”, apprendere “da lontano”. Ma lontano solo fisicamente, lontano dall’aula, disgiunti dai compagni. Al di là, in fondo, di un incedere consuetudinario di cui si invocava, a gran voce, un cambio di direzione. La famigerata visione da altre angolazioni, auspicata dall’esimio professore John Keating ne “L’attimo fuggente”. Un suggerimento forte, perentorio, che merita compartecipazione e sostegno.
Ed eccola: servita da un inclemente virus coronato in un frangente singolare che ci indurrà a riflettere, facendoci scoprire di non ritrovarci nell’immagine solita dentro cui specchiavamo le nostre ansie, i nostri interrogativi in cerca di soluzione, la frenesia di un mondo veloce, velocissimo, un vortice inarrestabile. Un’immagine che non ci apparterrà più, se non nella memoria. In quel ricordo che chiederà di non essere accatastato tra cianfrusaglie di valore esiguo, ma pretenderà giustizia, e ne riceverà. In fondo, siamo ciò che siamo stati: riveduti e corretti.
Corretti come quei compiti assegnati attraverso il WEB, questo diavolo contro cui ci si è, sovente, accaniti, e di cui, adesso, rivalutiamo le virtù. La demonizzazione non è mai la scelta più corretta; la moderazione, sì.
E oggi ci ritroviamo ad osservare, per chi lo fa, i nostri ragazzi alle prese con spiegazioni provenienti da uno schermo che, in parte, scherma, in parte accoglie. Un mezzo per superare gli steccati della timidezza, scoprendo una certa “spavalderia”, sommersa dai timori. Un mezzo per confermare competenze didattiche, ma, soprattutto, uno strumento per far evolvere i rapporti empatici, trascurati a vantaggio di programmi, progetti, pon e intrighi ministeriali vari.
Perché i ritmi incalzanti della scuola non sempre aiutano le relazioni umane, anzi le bypassano, inaridendole. Interrogazioni, collegi docenti, riunioni scuola-famiglia, compiti in classe…e le emozioni? L’introspezione? La vicinanza affettiva?
Parimenti, all’interno delle famiglie, tra lavoro, impegni fuori casa fino a tarda sera, attività pomeridiane, ben poco ci si sofferma sui reali bisogni dei propri membri che vanno ben al di là dei voti scolastici o delle gratificazioni professionali. E che chiedono di trovare un posto in prima fila, poiché da loro si parte e senza di loro ci si inabissa.
Gironzolando, e neanche tanto, tra le bacheche dei vari social, emerge con vigore la necessità di un ritorno alle basi. Emerge l’esigenza di una ripartenza dall’ascolto, dalla comprensione, dal confronto, dal dialogo. Si evince un desiderio di integrazione, di condivisione. E la didattica si intrufola tra queste impellenze, esplicandosi anche come veicolo di vicinanza, di coesione. Il docente, mentre insegna, impara dall’alunno che, mentre apprende, insegna. Ed è preponderante assimilare concetti che esulano dalle materie programmatiche. La scuola maestra di vita. La vita spicciola, quella fatta di sorrisi, di pianti, di scoramento, di fiducia, di speranza. Quella che può anche abbandonare i teoremi di Pitagora, le equazioni, l’analisi logica, la versione in prosa di testi poetici, per dedicarsi all’animo, per percorrere un viaggio in un’interiorità bistrattata che reclama luce, sole, calore, pedissequa attenzione.
E la didattica, affinché non distanzi, si rimbocca le maniche e induce a un “patto di reciproca assistenza” tra insegnanti e allievi. Un’alleanza, finalmente!
Non accadrà dappertutto, è chiaro, ma si scorge una certa volontà, finora sopita, alla quale si è deciso di dar corso. Si scorge una certa comprensione, sino ad ora celata, grazie a cui docenti ostici, agguerriti, imperturbabili, abbassano la guardia e si avvicinano agli alunni definiti “lacunosi” per colmare, prima delle falle del sapere, quelle scaturenti dalla paura, dalla convinzione di non essere all’altezza.
Certo, non manca chi approfitta per rimpinzare a dovere di compiti da svolgere in fretta o chi tiene incollati ore, contravvenendo alle disposizioni in corso, alunni, ormai, stremati e poco recettivi; chi, rivestendo il ruolo di professore, manda al diavolo senza mezzi termini questo modo di approcciarsi all’insegnamento. Non mancano coloro che definiscono fallace questo modo di concepire la trasmissione del sapere. Ma non è certo possibile piacere a tutti e, meno che mai, ricercare l’ordinario nello straordinario. Per cui, rendiamo efficace ciò che viene proposto, traendo spunto per migliorarlo, per mitigarlo, finanche per innalzarlo.
Siamo tutti allievi, siamo tutti apprendisti. Stiamo scrivendo una pagina epocale che passerà alla storia: facciamolo con cura, tenendo presente, prendo in prestito Roberto Vecchioni, che: “nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita”.
Un invito del cantautore, sia pur non attinente al contesto in questione, da considerare perno intorno a cui far ruotare il sogno di rinascita albergante in ciascuno, e che ciascuno ha il dovere di rendere realtà.
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