FONTE: INGVVulcani
Racconto di Mario Mattia
Disegni di Catherine Lemercier
Continua da parte prima
Pantelleria, 23 Ottobre 1891
Caro Giovanni,
Sono appena rientrato nel «dammuso» del mio ospite, il signor Errera, uomo molto simpatico e pieno di entusiasmo per la scienza. Dopo una intera mattinata passata in mare a svolgere le più svariate misure su questa stranissima eruzione (leggerai i miei appunti nell’allegato a questa lettera), ho passato il pomeriggio insieme al giovane D’Ancona che mi ha portato a vedere altre meraviglie di quest’isola. Un’autentica miniera di stranezze geologiche! Pensa che ci sono anche delle «stufe», ovvero grotte pervase dal vapore caldo, molto apprezzate in caso di malattie polmonari! Ma, visto che a te interessa la gente più della geologia, ti racconto una stranezza che mi è appena capitata. Ebbene devi sapere che il caro Errera mi ha invitato, dopo cena, a salire sul tetto della sua villa per osservare col cannocchiale il luogo dell’eruzione e magari provare a cogliere le vampate di fuoco che lui stesso dice di aver visto nei giorni passati. Restammo lassù per un’ora, a chiacchierare e bere ottimo passito, ma di fiammate in mare non ne abbiamo vista nemmeno una. Alla fine, un po’ per la stanchezza e un po’ per il freddo, mi congedai dalla compagnia e mi avviai verso casa. Poco prima di arrivare alla mia dimora, notai una piccola luce sul retro. Visto che già ieri sera avevo intravisto strani movimenti nei pressi di casa, mi nascosi dietro i muretti. Spensi il lume che mi portavo dietro e, alla sola luce della luna piena, mi avvicinai.
Qui trovai la ragazza cui Errera ha affidato il compito di farmi da mangiare e rassettare la casa (si chiama Maria ed è una ben strana ragazza!) in piedi, con le braccia alzate verso la luna e con gli occhi chiusi. Poggiato per terra, stava un piccolo lume che accendeva la sua figura di una luce bianca e sinistra. Ma la cosa che mi stupii era la cantilena che ripeteva in continuazione, che ho riportato sul mio taccuino, e che ora voglio sottoporre alla tua attenzione. Magari potrai chiedere lumi al nostro comune amico Luigi Capuana, appassionato di spiritismo!
Luna vieja, luna nueva
Que tienes en la caveza
Quatro cabretos
O tu me los da
O tu me los presta
Non sono sicuro di aver scritto bene questi versi perché conosco appena lo spagnolo, ma, se la memoria non mi inganna, la traduzione dovrebbe essere:
Luna vecchia, luna nuova
Che tieni sulla testa quattro capretti
O me li dai o me li presti
La ragazza ha ripetuto la litania per almeno cinque minuti, poi si è inginocchiata, ha chinato il capo e ha baciato per terra. Dopo, è rientrata in casa dove mi ha accolto con un grande sorriso e adesso è qui davanti a me che rassetta la casa, come se nulla fosse accaduto.
Ci tengo a raccontarti questa storia perché ho l’impressione che i prodigi della natura che sto osservando in quest’isola stiano minando il corpo e lo spirito di questi isolani, la maggior parte dei quali sono contadini privi delle minime conoscenze scientifiche. Solo oggi pomeriggio, ad esempio, sono riuscito a convincere il sindaco a mandare in giro per le campagne il banditore comunale affinché annunciasse a tutti che è possibile far rientro nelle case e che non è più necessario arrangiarsi nei campi o nei tuguri. Chissà se la scienza anche stavolta trionferà sulla superstizione!
Ti abbraccio
Annibale
«Prufissuri, ho una cosa per lei.»
«Una cosa per me? E cosa, Maria?»
«Lei zuppichìa.»
«Ah…si. Mi sono fatto male scendendo dal postale. È solo una storta»
La ragazza andò in cucina e, da una borsa di iuta, tirò fuori un contenitore di vetro.
«Ora vossia si distende nel letto e si leva i pantaloni.»
«Maria, ma che dici?»
«Ci metto una cosa per il dolore, così cammina meglio e magari riesce a fermare il fuoco nel mare» disse sorridendo.
Lo scienziato fece un sospiro e si alzò.
«Ora indosso il pigiama e poi mi metti questa cosa.»
Andò nella sua stanza e chiuse con cura la porta. Poi, si tolse le grosse scarpe di cuoio, i ruvidi pantaloni di lana nera pesante, i calzettoni che aveva acquistato in Scozia durante un congresso di astronomia e indossò il pigiama di lana leggera.
«Entra, Maria» urlò.
La ragazza entrò, aprì il barattolo dal quale tirò fuori un unguento che emanava un forte profumo di canfora e cominciò a spalmarlo sulla caviglia del piede sinistro di Riccò.
«Lo prepari tu questo unguento?» chiese.
«Me lo insegnò Catalina»
«Una tua parente?»
«Nonsi, una ca mi crisciu. Iu sugnu figghia di nuddu.»
«Che vuol dire che sei figlia di nessuno?»
«Che m’attruvanu nica nica sutta n’ponti, a Palermo»
«Ah…e questa…Catalina ti ha insegnato a preparare i rimedi con le piante?»
«Non solo» disse la ragazza mentre continuava a massaggiare con i soli pollici il piede e la caviglia.
«Maria, ma che pianta hai usato per questo unguento?»
«La chiamano artigghiu do diavulu. È una pianta bella, colore ciclamino, ed è difficile assai da trovare. E a chiamanu accussì pirchì se qualche animale si avvicina per succhiare il nettare, resta appiccicato e mori di fame e di siti.»
“Sai scrivere?” disse lo scienziato
La ragazza sorrise e fece di sì con la testa.
“Non è che tutti i poveri sono ignoranti”
«Potresti scrivermi la ricetta di questa pomata? Me la farò preparare appena rientrerò a Catania.»
La ragazza prese uno dei taccuini dello scienziato e scrisse quanto richiesto.
«E chi ti ha portato qui a Pantelleria da Palermo?» chiese Riccò.
«Ci vinni sula» disse la giovane fissandolo negli occhi.
Notò che gli occhi di Maria erano allungati, quasi a mandorla, e di un colore strano, ambrati con striature verdi. E per la prima volta si accorse che i suoi lineamenti non erano solo dolci, ma di una bellezza strana, selvaggia.
Deglutì e si rese conto che quella ragazza lo stava mettendo a disagio.
«Grazie, ma adesso è meglio se te ne vai. Sono molto stanco e vorrei dormire.»
La ragazza prese un piccolo telo di cotone e lo distese sotto il piede di Riccò. Poi, si pulì le mani sulla gonna e si diresse verso la porta.
Mentre stava per uscire si fermò e si voltò verso lo scienziato.
«Vossìa si riguarda.»
«Grazie Maria, riguardati anche tu.»
Maria sollevò il mento.
«Di mia non c’interessa a nuddu» disse seria.
Poi uscì dalla stanza e pochi secondi dopo Riccò sentì chiudere la porta dell’ingresso del dammuso.
Si svegliò molto presto, al suono delle campane della vicina chiesetta. Ma in realtà, a svegliarlo era stata la sensazione di angoscia per uno strano sogno. Correva in una strada di pietre bianche, sotto un sole fortissimo, abbagliante. Sentiva che qualcuno lo seguiva, ma non voleva voltarsi. Poi aveva inciampato in un pezzo di pietra lavica, molto simile ai palloni di lava che aveva osservato il giorno precedente. Mentre cercava di rialzarsi, una mano gli aveva afferrato la testa e lo aveva tenuto fermo per terra. Ricordava le spighe di grano che vedeva da quella posizione. Gialle, cotte dal sole bruciante. Poi la mano lo lasciò andare e si voltò. Davanti a lui c’era Maria, in piedi, nuda, che lo guardava sorridendo. Abbassò lo sguardo e vide che i piedi della ragazza erano in realtà delle zampe di gallina. L’ultimo ricordo di quel sogno era il suo urlo di terrore.
Sentì rumori nel saloncino e si vestì in fretta. Sperava di incontrare la ragazza. Voleva ringraziarla per il prezioso unguento della sera prima. Il dolore, infatti, era del tutto sparito e il piede era meno gonfio.
Ma quando uscì si trovò davanti l’anziana domestica di Errera che versava il latte caldo in una ciotola.
«Ah… È lei? Credevo fosse Maria.»
La donna fece una smorfia e alzò e spalle.
«Stamatinu non vinni a casa. Per questo sono venuta io. Il signor Errera si scusa e dice che passa alle otto per andare alle favare.»
Riccò si sedette per fare colazione, poi riempì la borsa con alcuni strumenti e si incamminò verso la casa del suo ospite.
Era una splendida mattinata autunnale. Un magnifico sole illuminava la stretta mulattiera dove lui, Errera e il giovane D’Ancona trovarono due viddani che avevano preparato i muli per quella escursione alle favare, i soffioni di vapore, tipica espressione del vulcanismo pantesco.
La stradina, dopo un iniziale percorso pianeggiante, diventò aspra e ripida, ma il panorama era magnifico, tra vigne, casette rustiche, e orti curati alla perfezione. E Riccò vide da vicino le incredibili sfide che la gente di Pantelleria, da sempre diffidente nei confronti del mare, aveva vinto nei confronti di una morfologia tremenda, fatta di roccia lavica e ripidi crateri chiamati cuddie.
Arrivarono alla Favara Grande dopo un’ora di cammino e qui lo scienziato tirò fuori dalla sua borsa di cuoio due grandi termometri, con i quali misurò le temperature del vapore acqueo.
«Ottantotto gradi!» esclamò.
«Provi ad avvicinarsi alla fumarola e a respirare un po’ di vapore, professore» disse Errera.
Riccò si distese per terra e avvicinò il viso ad una fenditura dalla quale più intenso era il flusso continuo di vapore. Dopo pochi secondi, si ritirò tossendo.
«Anidride solforosa! È lei che dà questa sensazione di soffocamento.»
«Proprio come pensavo» ribadì Errera con aria soddisfatta.
«Direi che è una prova lampante della sua origine vulcanica» disse D’Ancona.
«Già…ma sarebbe stato interessante rilevare le temperature prima dell’eruzione!»
I tre rimasero in silenzio ad ascoltare il rumore del flusso di gas, simile a quello di un mulino ad acqua. Sopra i massi, che circondavano le fenditure dalle quali veniva emesso il vapore, erano poggiate delle fascine, sbiancate dall’azione decolorante dell’anidride solforosa.
«A che servono queste fascine?» disse Riccò.
«Guardi qui! Il vapore, al contatto con i massi freddi si condensa e i viddani lo raccolgono dentro questi canali. E l’acqua che ricavano la usano per abbeverare le bestie.»
«Molto interessante! – esclamò lo scienziato mentre provava ad assaggiare alcune gocce che aveva raccolto nell’incavo della mano – e ottimo sapore, direi!»
«Guardi qui» disse D’Ancona spostandosi verso l’interno della favara.
Lì in fondo c’erano una serie di panni stesi per terra che sembravano ribollire per l’effetto delle sottostanti emissioni gassose.
«Vede professore? Usano il potere sbiancante dell’anidride solforosa anche per i tessuti.»
Riccò scosse la testa.
«Sto vedendo cose bellissime» disse.
Uscirono dalla favara e si diressero verso una contrada chiamata Karebbi, dove alcuni contadini avevano segnalato uno strano fenomeno, ovvero l’improvvisa morte di un gran numero di vitigni e di alcuni alberi di fico.
Lungo la mulattiera, Riccò si avvicinò ad Errera, che intanto, col suo mulo, si era portato qualche metro avanti rispetto agli altri.
«Posso farle una domanda?» disse.
«Ci mancherebbe, professore. Tutto quello che vuole!»
«Che è successo a Maria, stamattina?»
«Ah…lo vorrei sapere anch’io! Non era mai successo. Ma chi lo sa, magari si è ammalata!»
«Dovremmo andare a controllare, no?»
«Controllare Maria? Impossibile…quella ragazza è…strana. Ecco diciamo così. È molto strana.»
«Da quanto tempo lavora da voi?»
«Da due anni. L’hanno trovata al porto. Sembrava una barbona. Alcune guardie l’avevano fermata dopo che era stata cacciata da una nave proveniente da Palermo. Si era nascosta sotto un telo e aveva viaggiato come clandestina.»
Intanto anche il giovane D’Ancona si era messo ad ascoltare, avvicinandosi col suo mulo.
«Ieri mi ha detto che a Palermo è stata allevata da una certa Catalina che le ha insegnato ad usare le erbe.»
Errera si guardò intorno e sembrò a disagio.
«Si. Lo so. Una donna molto conosciuta a Palermo.»
«Davvero? E perché?»
«Niente…cose che farebbero inorridire uno scienziato come lei. Questa Catalina è, anzi era, una specie di fattucchiera, una che praticava la magia!»
Riccò guardò verso il rilievo di Montagna Grande dal quale alcune nuvole scure si stavano avvicinando trascinate da un improvviso vento di tramontana.
«Quindi questa Catalina è morta?» disse.
«Così ha raccontato Maria. Ammazzata da qualcuno.»
Errera diede un calcio al suo mulo che, abbassandosi sulle zampe posteriori, si produsse in uno scatto improvviso che gli fece guadagnare alcuni metri sugli altri.
«Eccoci arrivati, guardi Professore!» urlò D’Ancona.
Alla loro sinistra si stendevano alcuni vigneti, ma subito saltavano all’occhio delle macchie giallastre in mezzo al verde del fogliame. Centinaia di piante apparivano come rinsecchite e bruciate.
Un uomo stava ripulendo un confine dalle erbacce e si levò la “coppola” appena i tre si avvicinarono.
«Nunzio, questo è il professore Riccò di Catania. Fagli vedere i danni al tuo vigneto»
L’uomo abbassò il capo in segno di saluto e, senza parlare, si inoltrò nella vigna, spostando erbacce e foglie per agevolare il passaggio dei suoi ospiti.
Da vicino, i vitigni sembravano bruciati. I segni della combustione erano visibili, ma Riccò si rese conto che non si trattava degli esiti di un incendio, perché i danni al tronco erano visibili solo nella parte più vicina alle radici.
«Sembra quasi che le abbia bruciate un fuoco sotterraneo» disse D’Ancona inginocchiandosi e prendendo in mano uno di questi tronchi.
«Esatto…u focu era ‘ndo terrenu! Ma era ‘n focu stranu. Acchianava, acchianava lentu e bruciava li pianti» disse il contadino agitando le braccia.
«Quando hanno cominciato a bruciare le sue piante?» chiese Riccò all’uomo.
«A tempu di li terremoti. Era giugno dell’anno passato!»
D’Ancona consegnò allo scienziato alcuni pezzi di legno bruciato, che li ripose nella sua borsa di cuoio, ormai piena di campioni, quaderni e strumenti buttati alla rinfusa.
Sulla via del ritorno, lo studente fece in modo di restare solo con Riccò, approfittando della solita mania di Errera di camminare davanti a tutti.
«Ho sentito che avete chiesto di Maria» disse.
«Già. Mi incuriosisce quella ragazza. E poi devo ancora ringraziarla per avermi risolto il problema del dolore alla caviglia.»
«Eh, sì. Qui in paese molti si rivolgono a lei. È una ciarmavermi e conciaossa. E fa pure nascere i bambini. Il Dottore Valenza, il medico, la odia.»
«Me l’ero immaginato.»
«Poi c’è anche chi dice che sia qualcosa di più.»
«E cosa?» chiese con una smorfia Riccò.
Pantelleria , 24 ottobre 1891
Caro Giovanni,
Un’altra giornata di duro lavoro qui a Pantelleria, che però ha fatto maturare dentro di me due convinzioni. La prima è che questa attività in atto ha avuto una progressione piuttosto lenta, essendo cominciata oltre un anno fa con fenomeni collegabili all’eruzione sottomarina che ho potuto osservare con i miei occhi, mentre la seconda è che questo stesso fenomeno è in via di esaurimento. In questo senso parlano tutti i miei rilievi; dalla diminuzione dei tremori sismici alla diminuzione delle temperature nelle fumarole, alla scomparsa delle forti emissioni di calore e gas dai suoli fino, ovviamente, all’affievolirsi del fenomeno della risalita dei «palloni di lava» che tanto ha attirato la mia attenzione. In questo senso, ho già scritto al Prof. Tacchini affinché tranquillizzi il governo e Sua Maestà su quanto sta accadendo a Pantelleria. Non posso escludere una improvvisa recrudescenza e, per questo motivo, resterò ancora qualche giorno, allo scopo di osservare eventuali variazioni nelle mie misure.
Ti aggiorno anche sulla strana ragazza di cui ti ho già parlato nelle mie precedenti lettere. Intanto si è rivelata un’ottima erborista, visto che un suo unguento, con una sola applicazione, mi ha guarito da un dolore alla caviglia che rendeva penoso ogni mio movimento. Ma ci sono due novità: la prima è che questa ragazza sembra essere sparita, infatti da ieri sera nessuno l’ha più vista. Pensavamo fosse malata, ma nella casetta dove abita non c’era nessuno quando, al ritorno da una giornata passata in giro a svolgere osservazioni e misure, siamo andati a controllare di persona io e il giovane D’Ancona. La seconda sono le «rivelazioni» che mi ha fatto lo stesso D’Ancona su di lei. Mi vergogno un po’ a scrivere queste cose, ma so che invece tu e il buon Capuana ne discuterete con passione, visto il vostro interesse per il multiforme volto dell’essere umano.
Non mi dilungo, ma pare che questa ragazza sia stata allevata a Palermo da una specie di fattucchiera, uccisa in circostanze misteriose, che le ha insegnato l’oscura arte, ed una serie di saperi di tipo erboristico e medico che l’hanno fatta apprezzare da un lato e temere dall’altro. Ma la cosa che più mi ha colpito è stata la notizia che, in certe condizioni, Maria sarebbe capace di trovare tesori sepolti. La chiamano «truvatura» e qui sull’isola pare che sia una specie di sport, praticato da tanti, a caccia di monete d’oro arabe e romane. In pratica, la ragazza avrebbe contribuito a far scoprire alcuni di questi tesori, grazie ai suoi poteri «speciali».
Ci riderei, in condizioni normali, ma il fatto che sia sparita sta facendo sorgere in me qualche preoccupazione. In tempi di «prodigi» della natura non troverei strano che qualcuno possa scambiarli per «prodigi» magici. E farle del male.
A presto,
Annibale
P.S.: Unica consolazione di questa giornata difficile un eccellente piatto a base di capretto arrostito su un grande letto di brace ardente che abbiamo consumato nell’azienda agricola del D’Ancona. Mai assaggiato uno così buono! Vale la pena del viaggio!
2- continua
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