di Paolo Martinez
Nella casa dei pescatori respiravo l’aria del mare trasmessa senza pausa dalle reti accatastate nell’ampio magazzino a cui si accedeva dal cortile; ma anche dalla camera dove dormivo. A completare questa sensazione il vecchio pescatore, il patriarca: minuto, magro; il volto, con grandi baffi e coronato da folti capelli bianchi, era segnato dal mare e dalle fatiche. Gli occhi penetranti esprimevano saggezza. Lo leggevo come un libro sul mare e lo ascoltavo, incantato, narrare avventure marinare ricche di aneddoti.
Quell’odore di salmastro saziava l’aria ed era nutrimento alle mia fervida fantasia. Trascorrevo il giorno a mare, immerso nell’acqua limpida di allora, o sulla barca di legno a remi. Solo sulla barca “vogavo”, vogavo con grande lena senza pesare la fatica, quasi a volere realizzare una improbabile fuga: verso l’orizzonte, verso l’infinto. Ma le sensazioni che vivevo non mi appagavano appieno e volevo andare oltre.
Masi, figlio del pescatore, aveva un anno meno del sottoscritto; ma già con la responsabilità della “lampara”. Essendogli diventato amico, un giorno gli chiesi a bruciapelo: mi imbarchi?. Dopo una pausa, che mi sembrò interminabile, mi fissò e chiese: ma tu “t’ammaraggi”. L’unica sua preoccupazione era di conoscere se soffrivo il mar di male perché, certamente, non sarebbe tornato indietro per me compromettendo l’esito “della cala”.
Non avendo vissuto tale esperienza rimasi interdetto, per un attimo, ma il desiderio era tanto che risposi categoricamente: no. Concordammo l’imbarco per la stessa sera. Verso le diciotto iniziarono i preparativi per l’imbarco; seguendo i consigli di Masi, adottai l’abbigliamento invernale; perché trascorrere la notte sul mare significava andare incontro, oltre che all’umidità alta, al freddo, che diventa pungente verso l’alba. Non trascurai neppure quello di porre attenzione nella scelta dei viveri per la cena: una scelta oculata al fine di evitare alimenti che tendono a stimolare il mal di mare.
Intorno alle ore diciannove, dopo gli opportuni controlli ed ascoltato il “capobarca” che indicava il luogo dove arrestare la barca: si salpa! A remi, lasciando il ponente alle spalle, avanzammo spediti e senza titubanze verso la meta. Giunti sul luogo indicato, già all’imbrunire avanzato, Masi si apprestò ad accendere la “lampara” che lentamente, emettendo un fruscio costante, raggiunse la massima luminosità.
Le onde leggere cullavano la barca dolcemente e, volgendo lo sguardo intorno, notavo il brillare delle luci: la città appariva ai miei occhi come un presepe. Nell’ attesa che la luce della “lampara” svolgesse il compito di attirare i pesci, ci “rivolgemmo” al cibo, che consumavamo lentamente perché la curiosità mi spingeva a porre domande sul mare, sulla pesca, desideroso di apprendere in fretta.
Finita la cena, continuammo a parlare; ma dopo un poco Masi mi suggerì di riposare, in quanto bisognava attendere delle ore prima di potere valutare la quantità di pesce che stazionava sotto la barca. Con affettuosa attenzione preparò un cuscino di macchina nel gavone di prua , dove mi “accucciai” protetto da una coperta. Lui, dopo essersi imbacuccato, si distese nel fondo della piccola barca. Sarebbe troppo lungo parlare di quelle ore di riposo, ipotetico, il sonno si rifiutava di accontentarmi, nei momenti che mi si concedeva sognavo di navigare con cattivo tempo ed al buio assoluto (1- continua).
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