(Gaetano Perricone). Il Vulcanico sceglie di ricordare oggi il Giorno della Memoria, quel 27 gennaio del 1945 in cui le truppe sovietiche dell’Armata Rossa liberarono il famigerato campo di concentramento nazista di Aushwitz. Lo faccio con un’idea precisa: dopo le giuste, anzi doverose manifestazioni di ieri delle istituzioni e della società civile, dopo l’enorme effluvio di parole e immagini dovunque, credo sia opportuno, anzi necessario, continuare a svolgere anche il giorno dopo e tutti i giorni a venire, sempre, il filo della memoria sull’incredibile orrore del quale l’uomo è stato capace nei confronti di altri uomini.
Per questo ricordo … del giorno dopo, con il consenso dell’autore pubblichiamo alcune immagini e il video dal bellissimo, emozionante reportage, un documento che riteniamo di ottima qualità e di notevole interesse, realizzato nei campi di concentramento da Simone Genovese, un giovane e bravissimo fotografo e videomaker che abbiamo conosciuto e particolarmente apprezzato qualche anno fa per la sua passione per l’Etna.
Sono stato anch’io, l’ultimo, indimenticabile giorno di un anno ormai lontano, ad Auschwitz, a visitare quello spaventoso teatro dell’orrore. Scene che mi tornano molto spesso davanti agli occhi, scene che i ragazzi di tutte le scuole del mondo, io credo, dovrebbero vedere per conoscere e capire … Soprattutto oggi, con alcuni dei più importanti Paesi del mondo che sembrano avere dimenticato la più spaventosa lezione della storia.
Abbiamo anche chiesto a Simone, che il Vulcanico ringrazia di cuore per la disponibilità, di scrivere una breve testimonianza di ciò che ha provato nel realizzare il suo reportage. Eccola.
(Simone Genovese). Solitamente cerco di dar vita alle mie immagini, ma in questo caso il silenzio assordante trasportato dal vento congela il mio cuore.
Il primo campo di concentramento che ho visitato è stato quello di Dachau, poi Auschwitz e Birkenau, e la sensazione è stata sempre la medesima. Attraverso i binari arrivo fino al cancello dove si legge la scritta Arbeit Macht Frei…l’hai sempre letta in tutti i libri ma toccare quel metallo è come bruciarsi le mani.
Una volta entrato, nonostante i selfie irrispettosi di qualche turista, il silenzio ti isola: ogni scatto era un ritorno a quel passato che non dobbiamo lasciare andare via.
Non è difficile immaginare le urla, i passi, i pianti, gli odori acri e il freddo, ma ciò che più mi ha stretto il cuore è stato vedere le camere a gas intatte e illuminate da una debole luce, che quasi sembravano non avessero mai smesso di funzionare…
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