di Santo Scalia

Abbiamo visto, in un precedente articolo, come il 9 aprile 1992 cominciò per la cittadina di Zafferana Etnea un periodo di ansie e di paure: la colata di lava, scaturita a quota 2200 metri, dopo aver attraversato per intero la Valle del Bove e la Val Calanna, dopo essere stata trattenuta dall’argine opportunamente realizzato a Portella Calanna, era ormai giunta a poche centinaia di metri dalle prime case della periferia del paese.

Da L’eruzione 1991-1992 dell’Etna e gli interventi per fermare o ritardare l’avanzata della lava

Fu chiaro a questo punto che bisognava ricorrere, al più presto, ad altre forme di intervento per salvare l’abitato. Scartato il progetto di tentare di incanalare i flussi lavici in Valle San Giacomo – cosa che non avrebbe dato la certezza di salvare Zafferana, ma che forse avrebbe causato danni più lievi di quelli che si sarebbero verificati se il fronte che aveva raggiunto il Piano dell’Acqua avesse proseguito nella sua marcia – si pensò di tentare un intervento sulla base dell’esperienza con gli esplosivi acquisita nel tentativo di deviazione effettuato il 14 maggio del 1983.

In quell’occasione si era intervenuto con gli esplosivi per intaccare l’argine laterale della colata, poco a valle delle bocche effusive, per far sì che il flusso lavico si riversasse lateralmente rispetto alla colata principale, causando un arresto nella progressione del fronte lavico e costringendo le colate a ripercorrere nuovamente tutto il percorso già fatto.

Già il 10 aprile, in seguito alla riunione della Commissione Grandi Rischi, il Governo dichiarò lo stato di emergenza: venne immediatamente individuato il sito più promettente per lo scopo: intorno a quota 2000 metri, nell’alta Valle del Bove, lì dove la colata si era costruita un carapace protettivo e così, riparata dalla dispersione termica, continuava a scorrere fluida all’interno del tunnel (il cosiddetto fenomeno di ingrottamento).

Nell’occasione, data la difficile accessibilità del luogo via terra, fu anche richiesta la collaborazione dei mastodontici elicotteri CH53 Black Stallion della base NATO di Sigonella, per il trasporto di tutto il materiale necessario ai progetti di ostruzione del canale lavico e conseguente deviazione della colata, nonché degli elicotteri della Base Maristaeli della Marina Militare di stanza a Catania.

Frame da un servizio televisivo RAI dell’epoca (di Giovanni Tomarchio)

Preliminarmente vennero effettuati vati test, per valutare le tipologie e le quantità di esplosivo da utilizzare, nonché gli effetti ottenuti con le esplosioni.

Tra il 13 ed il 16 aprile vennero testate le cosiddette cariche cave da 20 kg di esplosivo, senza e con l’ausilio di piastre di acciaio per aumentare l’effetto della pressione sul materiale lavico solidificato.

L’esplosione del 21 aprile (da Barberi et Al.)

Il 21 aprile, alle 19,20, vennero fatte esplodere «10 cariche da taglio T2 di compound B da 15 kg tempo 0» e «100 cariche di tritolo da 3 kg microritardate» [Barberi et Al.]; con l’esplosione caddero dentro il canale lavico circa 100 metri cubi di materiali, tra blocchi di rocce, blocchi in cemento e piattaforme in acciaio. Una parziale ostruzione di uno dei rami dell’ingrottamento causò un breve rigonfiamento del flusso lavico ed una limitata tracimazione della lava, ma non la completa ostruzione del flusso.

Tra il 26 ed il 29 aprile gli elicotteri americani furono sostituiti, nelle operazioni, dai CH47 dell’Esercito Italiano; vennero trasportati blocchi in cemento e croci di frisia, collegati tra loro da grosse catene metalliche. Furono effettuate 10 esplosioni con «cariche cave da 11 kg (compound B) e da una carica di spinta da 30 kg (esplosivo granulare)»; una ulteriore sequenza di due esplosioni ebbe luogo il 29 aprile lungo il margine destro del canale, allo scopo di farvi precipitare dentro una quarantina di blocchi di calcestruzzo, 6 containers e altre tre croci di frisia.

L’esplosione del 4 maggio (da Barberi et Al.)

Infine, il 4 maggio, «vengono eseguiti dei fori con 5 cariche cave da 11 kg di esplosivo l’una; nei fornelli […] vengono posizionati 600 kg di esplosivo granulare […]». Stavolta la corrente lavica esce allo scoperto e comincia ad alimentare tre flussi che si espandono nell’alta Valle del Bove, ben lontano da Zafferana.

La battaglia contro il vulcano è vinta, ma bisogna ancora vincere la guerra. Per questo tra il 7 ed il 9 maggio, nonostante le pessime condizioni meteorologiche, vengono effettuale 7 ulteriori esplosioni, ma con risultati ritenuti non soddisfacenti.

Si procede allora a preparare un canale di invito con gli escavatori ed il 22 maggio, alle 16,36, esplodono «6000 kg di plastico PE4», «1000 kg di granulato Tritonal» e «6 cariche cave, ciascuna con 11 kg di esplosivo, microritardate (30/1000s) rispetto al grosso delle cariche».

Dentro il canale, con l’aiuto dei mezzi meccanici, viene gettato di tutto. L’obiettivo viene raggiunto e finalmente, il 29 maggio, il canale viene dichiarato completamente ostruito.

«Il 100% del flusso lavico defluisce nel canale artificiale: per la prima volta nella storia l’uomo è riuscito a deviare totalmente una colata lavica».

L’esplosione del 27 maggio (da Notiziario della Marina, giugno 1992 – collezione personale)

Tirando le somme, sicuramente per difetto, furono fatti esplodere almeno 9.000 kg di esplosivo; inoltre gli elicotteri delle nostre Forze Armate effettuarono ben 362 missioni, per un totale di più di 426 ore di volo.

Un vero “mese di fuoco”, dal 21 aprile al 22 maggio. Come in tutte le guerre, si annoverarono degli indesiderati effetti collaterali: la parte meridionale del Piano del Trifoglietto (la zona pianeggiante nell’angolo sud-ovest della grande Valle del Bove), fino ad allora risparmiata, fu ricoperta dalla lava, così come i ruderi del vecchio Rifugio Menza; alcuni gruppi ambientalisti, come riportato dalla fonte più volte citata (Barberi et Al.), lamentarono la distruzione di «praterie montane» e delle «foreste di faggi plurisecolari», tesi, quest’ultima, confutata dagli autori degli stessi lavori citati e che di seguito vengono riportati.

Fondamentali per la stesura di questo articolo sono state le pubblicazioni L’eruzione 1991-1992 dell’Etna e gli interventi per fermare o ritardare l’avanzata della lava, di F. Barberi, M. L. Carapezza, M. Valenza, L. Villari, pubblicato da Giardini (a cura del CNR Gruppo Nazionale per la Vulcanologia) e la versione inglese, The control of lava flow during the 1991-1992 eruption of Mt. Etna, pubblicato nel 1993 dagli stessi autori in Journal of Volcanology and Geothermal Research  (n. 56 , pag. 1-34).

Mi piace ricordare che nel corso del lavori necessari per portare a termine i tentativi di deviazione della colata si distinse per capacità, disponibilità, caparbietà e abnegazione nel pericolo, un semplice, ma grande, uomo: Rosario Di Carlo, per tutti… Saro Ruspa! Va ricordato, invero, che l’aver optato di intervenire con gli esplosivi salvò dalla completa distruzione la verdeggiante Valle San Giacomo, che altrimenti sarebbe stata sacrificata nel tentativo di salvare Zafferana.

Ne parleremo prossimamente.

I precedenti articoli sono stati pubblicati su questo blog il 14 dicembre 2021: Trent’anni fa la grande eruzione dell’Etna del 1991-1993 (parte 1), il 23 dicembre 2021: C’era una volta… la Val Calanna: Trent’anni fa la grande eruzione dell’Etna del 1991-1993 (parte 2) e il 9 aprile 2022: Zafferana Etnea in serio pericolo. Trent’anni fa la grande eruzione dell’Etna del 1991-1993 (parte 3)

Con il titolo: esplosione in Valle del Bove – Frame da un servizio televisivo dell’epoca (collezione personale)

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