(Gaetano Perricone). Diciotto anni fa, l’11 gennaio del 1999, poco meno che cinquantanovenne, ci ha lasciati Fabrizio De André, immenso poeta e cantautore. Fu per me, come per molti della mia generazione che con lui siamo cresciuti, un grande, profondo, autentico dolore. Per me lo è ancora, con la sua scomparsa – troppo precoce, ma non imprevedibile – ho perso una figura di riferimento fondamentale, che insieme a pochi altri personaggi che ho amato altrettanto ha lasciato una traccia importante nella mia formazione culturale e umana. Ho  adorato e adoro le sue canzoni, molte delle quali conosco a memoria e continuo a intonare frequentemente, le sue storie, le sue strofe, le sue riflessioni. Ho conservato tanti suoi LP, ho la collezione completa della sua discografia masterizzata, sono andato fino a Genova a vedere la meravigliosa mostra promossa dalla Fondazione De André, ho aiutato negli anni passati alcuni studenti nelle tesi di laurea su di lui.

Fabrizio, insomma, è un pezzo davvero importante e significativo della mia vita. E dunque mi ha fatto immenso piacere sapere che tanti ragazzi appassionati di musica “seria” lo amano tantissimo. E con altrettanto piacere ed entusiasmo il Vulcanico ha accolto la proposta di Daniele Musumeci, un giovane e colto amico filosofo, amante della natura e dei libri, dell’Etna e della letteratura, di scrivere un ritratto e un ricordo di Fabrizio De André nell’anniversario della sua morte.

Ecco il suo bellissimo, intenso, appassionato articolo. “Il cuore rallenta, la testa cammina … ” è il primo verso di Khorakhanè, stupenda canzone di De André dall’album “Anime salve” (1996).

di Daniele Musumeci

Daniele Musumeci

Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese

li condannerai a cinquemila anni più le spese

ma se capirai, se li cercherai fino in fondo

se non sono gigli son pur sempre figli

vittime di questo mondo

(La città vecchia, 1962)

 

 

 

DE ANDRE' 1

Non scrivo spesso ma quando mi imbarco nell’impresa di mettere nero su bianco qualche parola, lo faccio con e per passione. Parlare di Fabrizio De André non è una novità dato che di lui si è scritto e detto tanto sia in vita sia dopo la sua morte, giunta l’11 Gennaio di 18 anni fa.

Non intendo dare molte notizie biografiche sul personaggio perché si tratterebbe solo di infinite ripetizioni; esistono già moltissimi libri e una gran quantità di informazioni su internet. Preferisco, piuttosto, intrecciare i miei pensieri, le mie idee e le mie emozioni con quelli delle canzoni cantate e declamate dal grande cantautore genovese.

Quali sono le ragioni del suo successo? Sicuramente una bella voce, un carisma straripante e le melodie emanate dalla sua chitarra erano sempre armoniose e piacevoli. Basta solo questo per riconoscerlo come grande? Certo che no. Le sue canzoni sono poesia pura, afflati dell’animo che ti avvolgono, ti includono e ti espandono il cuore, sono richieste d’amore trovato e perduto che non hanno paura di esporsi a confronti ma sono espresse semplicemente con l’esigenza di essere narrate.

La narrazione appunto: è questa la cifra della poetica deandreiana, il racconto delle storie personali dell’autore, vicende divulgate per impedire che la morte corporale cancelli dall’esistenza gesti, atti, ascese e cadute di personaggi che hanno calpestato la nostra Terra e fanno parte della memoria di un uomo.

Quali personaggi? Gente semplice, umile, poveri, prostitute, ladri e malfattori, lavoratori e mestieranti, innamorati e disperati, il tutto condito dall’assenza di un giudizio morale sostituito dalla pietà verso i propri conspecifici, verso tutti gli altri esseri umani solo per il fatto di essere uomini e donne e nulla più. Infatti De André non riconosceva particolare merito alla virtù e nessuna condanna severa dell’errore. Il suo pensiero in merito è condensato da quanto disse durante il suo ultimo concerto il 14 Febbraio del 1998 al teatro Brancaccio di Roma, quando presentando La città vecchia si espresse così:

 “Questa è una canzone che risale al 1962, dove dimostro di avere sempre avuto, sia da giovane che da anziano, pochissime idee ma in compenso fisse. Nel senso che in questa canzone esprimo quello che ho sempre pensato: che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l’errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c’erano morali, nel Medioevo, nel Rinascimento, che oggi non sono più assolutamente riconosciute. Oggi noi ci lamentiamo: vedo che c’è un gran tormento sulla perdita dei valori. Bisogna aspettare di storicizzarli. Io penso che non è che i giovani d’oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri”

Questo umanesimo laico si intreccia prepotentemente con il messaggio evangelico, con le gesta e le parole di Gesù di Nazareth, per alcuni un grande uomo di pace per altri addirittura il Figlio di Dio. Da ateo, il cantautore genovese disegna e canta strofe mirabili di amore e di perdono per tutti gli ultimi della Terra, gli stessi destinatari del messaggio del Cristo. Questo incrocio è inevitabile e – da credente – quasi mi imbarazzo faticando a comprendere il perché un ateo sia riuscito a descrivere così bene e a penetrare visceralmente un significato che parecchi, forse troppi praticanti travisano o confondono. Il ritratto del Gesù uomo è un vero capolavoro di amore e poesia, raccoglie l’impronta di un rabbi galileo con un messaggio rivoluzionario e dirompente a cui l’umanità riservò come ringraziamento una croce in mezzo a due ladroni, destino amaro per chi guerra insegnò a disertare.

Va ricordato che la sua visione su Dio mutò notevolmente in seguito al rapimento (avvenuto in Sardegna e durato quattro mesi dall’Agosto al Dicembre del 1979) del quale furono vittime lui e Dori  Ghezzi, sua compagna da cinque anni, sposata poi in seconde nozze nel 1989. Al termine della spiacevole avventura, Faber e Dori si mostrarono comprensivi verso i loro carcerieri, li perdonarono e sottolinearono di essere stati trattati bene nei limiti che una situazione del genere può consentire. Riguardo le sue personali convinzioni interiori, il Nostro si pronunciò così qualche tempo dopo:

“Le ore scorrevano in lunghi silenzi, che per me hanno contato molto perché mi hanno portato a una riscoperta, o perlomeno a delle riflessioni su Dio. Credo nella mia vita di aver spesso messo in discussione la religione, di essermi fatto beffe di dogmi e di aver ascoltato con orecchio critico di crisi mistiche. Eppure io, in quella terra, che amavo e in balia di uomini che non capivo, soggetto ad un destino che non mi ero scelto, ho ricominciato a credere, a cercare nella forza di un’entità diversa, superiore a quella umana, il bisogno di Dio. Non so ancora se questa è una mia svolta essenziale o no. È stata fatta in tempi troppo drammatici perché io abbia le idee chiare, ma quel che so è che Dio, anche se in modo ancora informe, dentro di me, ho sentito che c’era”

(Sotto le ciglia chissà – I Diari)

Quindi l’amore, la gente semplice, la fede nell’uomo e la fede critica in Dio, basta? Assolutamente no. Le dinamiche del potere e della politica sono quasi onnipresenti attraverso una posizione anarchica e libertaria che condanna tutte le forme di potere che ci soggiogano e ci imbambolano fino al punto di non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Come non ricordare il sovvertimento dei dieci comandamenti per indicare come spesso le leggi siano fatte da chi comanda e siano utilizzate come un’arma da questi contro chi invece ha meno possibilità di difendersi e alle stesse leggi è sottoposto? In questi capovolgimenti di fronte il potere e i suoi rappresentanti sono sarcasticamente derisi nonché irrisi e ciò che rimane è l’immagine di una giustizia ingiusta compensata solo dalla tensione ad un egualitarismo universale capace di salvarci dalle nostre fragilità e miserie.

De André (Fonte: www.lopsicologodelrock.it)

Tutto questo e molto più sono riuscito a intravedere nelle canzoni di un uomo che non aveva paura di essere uomo, nelle poesie di un autore che guardava in faccia la vita con la curiosità di un bambino e la narrava con la forza dirompente di un trascinatore. Un trascinatore gentile, non violento, un personaggio che aborriva la guerra e l’ha descritta molte volte in tutta la sua crudezza, nei suoi aspetti più veri e banalmente malati, gli stessi che mettono uno contro l’altro gli uomini con la sola colpa di avere la divisa di un altro colore.

Ed è così che l’amore, la guerra, la fede s’incarnano e vengono battezzati, ricevono i nomi o i nomignoli dei protagonisti che li portarono in giro a riempire la memoria di un cantautore e dei suoi ascoltatori di ogni tempo: Geordie, Andrea, Bocca di Rosa, Sally, Michè, Franziska, Don Raffaè, e tanti altri ancora.

Molte le vicende immortalate per la prima volta, tante le traduzioni tra le quali spiccano quelle dai testi di Georges Brassens, Leonard Cohen e Bob Dylan. Storie di uomini, di potere ma anche di popoli. Impossibile non ricordare i Rom o i Pellerossa americani le cui gesta sono rimaste immortalate nella narrazione di un uomo dalla cultura immensa e con un mondo interiore praticamente sconfinato.

Credo che questo modo di raccontare la vita possa essere esemplificato dalle parole che seguono:

Saper leggere il libro del mondo

con parole cangianti e nessuna scrittura

nei sentieri costretti in un palmo di mano

i segreti che fanno paura

finché un uomo ti incontra e non si riconosce

e ogni terra si accende e si arrende la pace

(Khorakhanè, 1996)

De André ebbe tanti amici e collaboratori illustri, basta sfogliare una sua biografia per trovarne i nomi e le tracce. Su tutti mi piace ricordare l’amico d’infanzia Paolo Villaggio, compagno di burle che gli affibbiò il soprannome Faber – lascio alla curiosità del lettore scoprire il perché – e Luigi Tenco, amico fragile e profondo al quale dedicò la meravigliosa Preghiera in Gennaio, composta subito dopo la notizia del suicidio di Tenco avvenuto in seguito alla delusione artistica che questi aveva ricevuto a Sanremo nel 1967.

Non dimentichiamo l’importanza di Genova e della Sardegna, i luoghi dove De André visse col corpo e con i sentimenti, dove conobbe le sue donne, i suoi amorazzi, i suoi amici di lungo corso e i suoi collaboratori o dove prese spunto per gran parte delle sue storie.

Chi di noi ha vissuto intensamente, certamente ha conosciuto una donna che l’amore lo faceva per passione oppure una Barbara che, non avendo ancora incontrato l’uomo della sua vita per questo ad un’altra età l’amore vero rimanderà e quindi gioca all’amore. Forse qualcuno, durante il suo vagabondare, ha incontrato una Suzanne alla quale ha toccato il corpo con la mente nel suo posto in riva al fiume. Si potrebbe continuare a lungo ma mi piace immaginare, tra le tante donne, che l’interiorità di Signorina Fantasia sia preziosa come il vino con la sua nuvola di dubbi e bellezza.

Si potrebbe dire davvero tanto su quest’uomo nato il 18 Febbraio del 1940 da una famiglia borghese, origini nelle quali si mosse nelle prime fasi della sua vita e che ben presto rinnegò. Attenzione, non rinnegò mai i suoi familiari ma una certa cultura, un certo modo di vivere e di vedere la vita che ti porta a definire il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato senza ascoltare i bisogni e le istanze degli altri gruppi sociali, magari solo perché appartieni a quella fascia di popolazione che detiene il potere economico-sociale. Questo aspetto del suo – e del nostro – mondo non fu ben digerito dal giovane De André e continuò a detestarlo per tutta la vita cantando la libertà degli assistiti che elevava a simboli, la loro possibilità e il loro dovere di autodeterminarsi in barba delle leggi e dei valori stabiliti dal potere civile e religioso. Un richiamo costante all’anarchia è presente nei suoi testi, un’anarchia che spalanca i polmoni e ti permette di osservare la vita da più punti di vista: ne emerge un’esistenza contraddittoria, dei protagonisti incostanti e incoerenti, fragili e spesso incapaci di trattenere un lavoro, un destino, un amore.

Dove sta la bellezza? Si situa esattamente in una narrazione poeticizzata che allontana di mille miglia l’ipocrisia, svela le maschere del potere e degli uomini e li lascia nudi nella loro verità. Pirandello diceva che, una volta tolte tutte le maschere, rimaniamo dei perfetti sconosciuti a noi stessi. Forse, permettendomi di aggiungere qualcosa al gigante Luigi, una volta tolte tutte le maschere si trova l’umanità più delicata, vera e sincera, quella parte di noi fragile, aggressiva e al contempo pacifica, contenente le nostre verità più profonde: la paura della morte e il bisogno esagerato e spropositato di dare e ricevere amore.

Quale la soluzione per accudire il nostro Io pervaso dalle forze freudiane di Eros e Thanatos? De André avrebbe risposto che solo nella pietà che non cede al rancore possiamo imparare veramente cos’è l’amore. E su ciò concordo pienamente: la pietà, la compassione e l’empatia ci aiutano a ridurre le nostre forze egocentriche e narcisistiche e ci obbligano amabilmente a metterci allo stesso livello di tutti gli altri uomini e, addirittura, per alcuni, allo stesso di livello delle altre forze viventi animali e vegetali. Al di sopra rimane solo lo stupore per la Creazione o per l’Universo – declinato diversamente a seconda delle nostre personali inclinazioni filosofico-religiose – con la consapevolezza pacifica che ogni elemento della nostra vita passata, presente e futura acquista un senso nell’ordine del tutto, nel Cosmo.

Fabrizio e Dori Ghezzi (Fonte: www.musicroom.it)

Ne emerge un mondo esteriore e interiore fortemente travagliato, pieno zeppo di alti e bassi, di attimi discreti l’uno dall’altro. Ma in fondo non è fatto così l’animo di un artista? Si lascia attraversare da emozioni e sensazioni che poi mette per iscritto e in musica e le comunica per il bene della comunità. Se i nostri padri Greci avevano i miti oggi noi abbiamo la letteratura e la musica d’autore per imparare cos’è la vita, la lezione più utile di tutte ma per la quale non esiste un corso di laurea istituzionalizzato. Grazie a Dio esistono i creativi e gli artisti di qualunque genere e Fabrizio De André è stato il più grande cantautore italiano di tutti i tempi e ha imperversato col suo carisma per tutta la seconda metà del Novecento. La sua fama e il suo intervento nella società tramite la sua arte sono ancora vivi, la sua lezione è molto lontana dall’essere dimenticata, il suo esempio ha ancora molto da dire, non solo tramite il figlio Cristiano che ha percorso la stessa strada del padre, ma primariamente nelle sue canzoni e nei suoi testi sempre attuali.

In poche parole, De André è un classico, un sempreverde, un autore capace di insegnare anche dopo la sua morte.

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità

(Smisurata preghiera, 1996)

(Gaetano Perricone). Voglio concludere con tre preziosi ricordi genovesi, testimonianza del mio amore per De André: Via del Campo, che dà il titolo a una sua celeberrima canzone; un angolo particolare che ricorda il suo …instancabile rapporto con le sigarette; un negozio di dischi a lui dedicato. Ciao Fabrizio, sarai sempre con noi …

FABRIZIO

De Andrè e le sue sigarette

 

IN VIA DEL CAMPO

 

 

 

Daniele Musumeci

Leggi tutti gli articoli

Commenti recenti