di Giancarlo Santi
La Grotta delle Palombe o delle Colombe, forse la più conosciuta cavità vulcanica etnea, deve il suo nome ai piccioni selvatici che un tempo popolavano il suo interno. La cavità si formò durante l’eruzione del 1669 grazie a due differenti meccanismi genetici: la sua parte superiore – il pozzo d’ingresso e la prima sala – è uno sfiatatoio creato da violente fuoruscite di gas magmatici; il resto della galleria è invece una tipica grotta di fessura, formatasi cioè per frattura vulcanica. Lunga circa 400 metri con un dislivello di 70, la cavità dapprima si sviluppa verso sud-est per poi puntare, nel suo tratto terminale verso sud-ovest.
La grotta si apre in fondo a un piccolo cono avventizio situato circa 700 metri a ovest dei Monti Rossi di Nicolosi. Oltre la piazzuola di cemento in cui era inserita una grata protettiva, un pozzo profondo 8 metri discende fino alla cosiddetta “prima sala” notevolmente rimaneggiata dall’intervento umano. Nei primi anni ’60 del ‘900 l‘Istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania, collaborato dal Centre National de Volcanologie Belgique, vi installò infatti un laboratorio sotterraneo dotato di una serie di pendoli Melchior. Dopo essere state utilizzate per brevi periodi, le apparecchiature rimasero in abbandono fino al novembre del 2001 quando il Gruppo Grotte Catania del Club Alpino Italiano e il Soccorso Speleo Alpino Fluviale dei Vigili del Fuoco di Catania effettuarono una pulizia straordinaria della sala per ripristinarvi le condizioni naturali.
La cavità si trasforma poi in un angusto cunicolo in forte pendenza che conduce, 15 metri oltre, alla “seconda sala“, un tratto di galleria pianeggiante. Un ripido scivolo prosegue fino alla minuscola “terza sala” delimitata dalla stretta imboccatura di un pozzo a campana, profondo 17 metri. Dalla base del pozzo la frattura discende con inclinazione accentuata per una sessantina di metri fino a una parete rocciosa, la cosiddetta “Risalita“, che ostacolò per decenni l’esplorazione della grotta. Grazie alle moderne tecniche di progressione è oggi possibile raggiungere un’alta apertura nella parete per continuare la visita della restante parte di galleria invasa da materiale lavico crollato dalle instabili pareti. Si deve così prima scalare e discendere poi tali instabili frane fino a raggiungere, nella parte ancora praticabile di galleria, le aperture che consentono la discesa nei due più profondi e meglio conservati rami della grotta.
Questa è la sommaria descrizione della cavità creata dal vulcano; aspra, pericolosa eppur affascinante come tutte le grotte in frattura. Vi si respira davvero l’anima della Terra.
Ma esiste un’altra Grotta delle Palombe ancor più affascinante, complessa e misteriosa: quella creata dall’immaginazione umana. Una plumbea cavità nei cui contorcimenti è di gran lunga più difficile muoversi. Sin dall’antichità l’Etna è stata considerata sede delle voragini infernali e ad ogni eruzione si è creduto – anche da parte di persone di cultura – che la diabolica corte infernale uscisse dall’inferno con la lava per portare ovunque disgrazie e distruzione. Queste fantasie fiorirono soprattutto nella catastrofica eruzione del 1669. La Grotta delle Palombe, allora formatasi, fu così creduta uno dei punti d’accesso all’inferno.
Di questa credenza si trova ancora traccia nei resoconti dei viaggiatori del Gran Tour. Dopo aver visitato nel 1770 i Monti Rossi, Patrick Brydone si recò a visitare la vicina Grotta delle Palombe descrivendola in modo poco invitante: «Di fronte alla montagna c’è una vasta caverna, dove si va a caccia di piccioni selvatici. Questi uccelli popolano la caverna a stormi. In fondo all’antro regna una tenebra tanto lugubre, che a quanto racconta il nostro padrone di casa, ci fu chi impazzì per essersi inoltrato troppo innanzi: questa gente deve aver creduto di vedere i diavoli e le anime dannate, dato che qui regna ancora incontrastata la credenza che l’Etna sia la bocca dell’inferno» (1968: 94).
Il lugubre e inquietante fascino che scaturisce dalla grotta continuò a gravare nelle pagine di quanti, dopo lo scozzese, vennero a visitare l’Etna. Aspra quanto l’interno della grotta è la descrizione che ne fece Joseph Antoine de Gourbillon:«Vi si scende per una larga apertura che comunica con molte cavità sotterranee, alla fine delle quali si arriva ad una specie di galleria, in cui la chiarezza del giorno non è mai penetrata … All’estremità opposta, si apre una nuova voragine, e questo abisso è senza fondo, o almeno, tutti i tentativi che sono stati fatti, non hanno condotto a nessun risultato, se non l’impossibilità di scoprire questo fondo che fugge incessantemente … Questo spaventoso abisso nel suo insieme è una lava compatta e solida: le pareti e le volte sono assai rudi all’occhio ed al tatto; paragonata alla fossa delle Colombe, la famosa grotta di Posillipo sarebbe un elegante boudoir». (1820: I, 405-406)
Ancora nel 1865, quasi un secolo dopo Brydone, le impressioni di Eliseo Reclus nel visitare il “fesso della Colomba” sono dello stesso tono dei suoi predecessori: «Guidato da un monello di Nicolosi, scesi nel primo pozzo, ma ivi giunto mi passò la voglia di continuare un tenebroso viaggio di esplorazione nelle viscere del vulcano. Sfuggendo alla gelida umidità che filtrava dalle pareti di lava, io con gioia risaliì a rivedere la luce del sole». (1873: 142-144)
Tra i grandi viaggiatori del ‘700 soltanto Deodat de Dolomieu, il primo vero geologo che visitò l’Etna, si accostò alle grotte vulcaniche con curiosità e sereno animo scientifico. Sull’Etna non raccolse infatti soltanto campioni di lava ma, «avvezzo a disprezzare qualunque pericolo, quando esaminar vuole le segrete vie della natura» come evidenzia il danese Münter (1823: 45), esplorò grotte un po’ dappertutto, discese nei pozzi senza fonti di luce per evitare che presunte materie infiammabili potessero prendere fuoco. Nel condurre le sue ricerche si trasformò in un autentico distruttore di miti: cacciò i diavoli dall’Etna e dalle sue caverne per portare alla luce i suoi fenomeni naturali. Durante queste avventurose esplorazioni in cui fu animato da una sorta di sacro furore e da un’energia sovrumana, talvolta lo studioso si allontanò tanto dai suoi compagni da far temere di essere stato «rapito dagli spiriti infernali» (Tuzet, 1988: 103).
Il suo diario, Un viaggio geologico in Sicilia nel 1781, per quasi un secolo e mezzo inedito, fu finalmente pubblicato nel 1918 da Lacroix nel Bollettino della Società di Geografia francese; la sua descrizione dell’ascensione all’Etna e altri parti del diario sono contenute pure nel Voyage pittoresque di Saint Non. Nel IV volume di quest’opera (1829: 45-48) si trova il lungo brano in cui Dolomieu narra l’esplorazione della parte iniziale di una grotta situata nella zona dei Monti Rossi «che porta il nome di Fossa». Con molta probabilità, data la descrizione che segue, si tratta proprio della Grotta delle Palombe che Dolomieu descrive come una cavità che lanciava ceneri e che serviva da sfiatatoio durante l’eruzione del 1669. «Con una fatica infinita», da solo e senza fonti d’illuminazione, Dolomieu s’inoltrò nel primo pozzo fino al punto in cui filtrava un po’ di luce. Durante la mezz’ora in cui restò nella cavità, osservò con occhio esperto quanto lo circondava: la conformazione della cavità, la natura della lava compatta, di estrema durezza, il suo processo di cristallizzazione, le stupefacenti infiltrazioni d’acqua in ambiente tanto arido, l’assenza di zeolite. Prelevò infine campioni di lava. Ben lungi dal francese, perfettamente a suo agio, ogni forma di cedimento nei confronti della pressione psicologica della grotta.
La cosiddetta “terza saletta” delimitata dal baratro che discende nella parte inferiore della cavità è uno dei luoghi sacri della speleologia etnea, la porta dell’ignoto mondo infero. Durante una delle prime parziali esplorazioni della grotta, innanzi alla stretta imboccatura del baratro si fermò nel 1815 l’abate Recupero. Otto anni dopo, servendosi di un verricello, Mario Gemmellaro si fece calare alla base del pozzo. I diciassette metri del “pozzo dell’inferno” dovettero forse apparirgli un alieno mondo fantastico e terrorizzante allo stesso tempo; dopo un paio di metri di discesa, le pareti della verticale si distanziano infatti tra loro aprendosi “a campana” nel nulla dell’oscurità … Hic sunt daemones?… Raggiunta la base del pozzo e la fessura vulcanica, lo scienziato vi discese per una sessantina di metri fino a raggiungere lo sbarramento della “Risalita“, l’insuperabile parete rocciosa nella cui parte superiore, a suo dire, si apriva «un buco che non da adito al passaggio di un uomo». A ricordo dell’impresa lo studioso lasciò sul luogo una piccola lapide – oggi introvabile perché forse coperta dai crolli verificatisi in zona – in cui era scritto «Marius Gemmellaro Primus Ima Haec In Tartara Venit Anno Domini 1823». Il mondo degli Inferi era stato finalmente violato da un comune mortale che non era impazzito per la paura; ancor più importante, nessun diavolo era in fondo al pozzo ad accogliere il temerario col forchettone in pugno.
Un’avventura umana e scientifica che sul nostro vulcano fa il paio con il solitario brindisi «a l’honneur de la phisique et des phisiciens» fatto da Dolomieu sul bordo del cratere raggiunto dopo un’estenuante marcia notturna. A significare la fine di un’epoca, dopo la «libation» la vuota bottiglia verrà buttata nel cratere. Gemmellaro e Dolomieu segnano così simbolicamente la definitiva conquista da parte della scienza della montagna dei miti e dei suoi recessi.
Alla violazione del mondo degli Inferi di Mario Gemmellaro, fece seguito nel 1839 l’altrettanto famosa visita di Wolfgang Sartorius von Walterhausen – il principale studioso ottocentesco dell’Etna. Anche questa volta il pozzo fu superato con un verricello. Neanche Sartorius riuscì a superare la “Risalita” dove trovò integra la lapide di Gemmellaro. Il resoconto della sua visita si legge con piacere, quasi con sorpresa. Il freddo e razionale scienziato, abituato a rilevare colate laviche e a calcolare millimetrici spostamenti di astri, si mostra infatti al lettore in una dimensione desueta, finalmente più umana: «Da qui si scende ancora con una scala e ci si ritrova davanti ad un pozzo verticale, nel quale si viene calati con una corda, in profondità terrificanti, appesi nell’oscurità. Non senza terrore, sospesi nell’aria, si intravedono le torce accese sopra e sotto, che illuminano la volta magica e che fanno apparire l’ingresso degli inferi in un bagliore rossastro. Felicemente arrivati sul fondo ci si ritrova nell’ambiente principale della grotta, alta 20 metri, e appare una frattura larga da 3 a 5 metri, formatasi con violenza in uno strato di lava più vecchio, di colore grigio chiaro, alle cui pareti lisce sono rimaste attaccate scorie marroni della colata del 1669, che vi è passata in mezzo».
Le emozioni dello scienziato sembrano una momentanea resa del raziocinio, la vendetta dell’irrazionale e del vulcano violato su una delle più lucide menti che Catania abbia ospitato. Quel terrore, così familiare a chi affronta una grande verticale, rende comunque Sartorius ai nostri occhi più simpatico di prima. Il suo resoconto ha inoltre un rilevante significato storico. L’allegata sezione della Grotta delle Palombe, per quanto approssimativa, è infatti il primo rilevamento topografico conosciuto di una grotta vulcanica italiana.
Le successive visite di Orazio Silvestri, nel 1879, e Annibale Riccò, chiudono l’epoca pioneristica delle visite alla Grotta delle Palombe. I tempi erano cambiati; la paura dell’inferno era stata definitivamente debellata anche se, forse, il brivido di sfiorarlo resisteva ancora. Nel 1882 la visita alle rovine di Mompilieri e alla Grotta delle Colombe fu addirittura inserita nel programma delle escursioni del Club Alpino. In ricordo di questa gita resta un articolo scritto sul Fanfulla da Federico De Roberto, allora socio della Sezione Etna. Nel luglio dello stesso 1882, in una riunione del Consiglio direttivo della Sezione fu addirittura proposto d’installare un verricello a sedia per facilitare la discesa nella grotta. Considerando il pathos con cui furono affrontate le successive spedizioni esplorative, la proposta probabilmente non fu accettata o, se lo fu, il verricello fu installato soltanto per servire la discesa nel pozzo iniziale non certo nel pozzo a campana. Nel 1902 furono addirittura previste da parte del CAI tariffe per brevi escursioni nei dintorni di Nicolosi con visita alla Grotta delle Palombe e agli Altarelli. La cavità dalla sinistra fama era ormai entrata nel vortice del turismo etneo.
Anche se si limitarono a ricalcare le orme dei precedenti esploratori e nulla di nuovo fu scoperto nella grotta, ci piace ricordare le visite effettuate dai soci del Club Alpino Italiano negli anni ’30 da cui nacque in città la speleologia associativa, ovvero il Gruppo Grotte Catania della cui eredità culturale e tecnica gode ancora oggi la vulcanospeleologia etnea.
La “Risalita” è oggi superabile ricorrendo alle moderne tecniche di progressione in grotta. Oltre il «buco che non da adito al passaggio di un uomo», la visita della grotta può così continuare fino ai due più profondi rami della cavità.
Anche se ben conosciuta, la visita della Grotta delle Palombe, ex terribile porta dell’Ade, resta pur sempre una bella avventura sotterranea. Occorre però essere ben attrezzati e dotati di una buona esperienza speleologica perché la grotta è tanto interessante quanto pericolosa.
Con il titolo: il pozzo d’ingresso della Grotta delle Palombe dall’interno.
Tutte le foto che illustrano questo articolo sono di Diego Leonardi, che ringraziamo per il prezioso contributo.
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