ECCOMI QUA

(Gaetano Perricone). Avevo 11 anni e mezzo, ero un ragazzino, alunno di seconda media. In quegli anni della prima adolescenza certe cose ti restano fisse in mente, scolpite a caratteri cubitali. Così accadde, ovviamente, per le pazzesche sequenze di quella notte tra il 14 e 15 gennaio del 1968, quasi 50 anni fa, una domenica notte che resta nella storia come la notte del grande terremoto del Belice. Erano da poco passate le due e mezza, le due e trentacinque per l’esattezza. Nella grande casa della mia famiglia, in viale Regina Margherita a Palermo al primo piano, fu improvvisamente gran trambusto, scuotimento, “trantulio”: letti che ballavano, mobili e quadri che tremavano, lampadari che ballavano. Fummo in piedi di soprassalto, tutta la famiglia. Affacciandoci, capimmo che il fortissimo terremoto aveva svegliato tutta la città e la gente scappava impaurita. Per noi fu lo stesso: indossammo velocemente i cappotti su pigiami e vestaglie e via in macchina verso la già affollatissima Piazza Lolli, la più vicina zona all’aperto, senza palazzi che ci opprimevano. Ricordo tanti particolari di quelle scene di ordinaria follia, compresa la fibrillazione e tutto sommato l’incosciente divertimento per la novità mia e di mia sorella Elisabetta, più piccola di quattro anni. Non sapevamo ancora della spaventosa tragedia dei paesi del Belice, dei morti, della distruzione, delle macerie.

Mi scorrono davanti agli occhi le immagini di altri momenti topici di quei giorni tristemente indimenticabili: la tremenda scossa pomeridiana del lunedì pomeriggio, dopo la notte in macchina e il rientro a casa, con tutto che ballava, perfino le sedie e qualche quadro che arrivò a staccarsi dal muro; e poi, soprattutto, la fuga dalla scuola dopo l’altra fortissima scossa del mercoledì successivo, alle 11 di una fredda mattinata, che mi fece molta più impressione proprio perché accaduta durante l’orario scolastico (oggi sembra assurdo, ma allora andammo regolarmente a lezione a Palermo nonostante il drammatico terremoto). Gli insegnanti ci fecero uscire precipitosamente e io tornai a casa a piedi, per circa metà del lungo percorso insieme a un paio di compagni e poi da solo, con il traffico impazzito e la città in tilt. Non esistevano telefonini, nessuno della famiglia poteva rintracciarci – anche se da scuola avevamo avvertito dell’evacuazione  – , dunque fu un rientro relativamente tranquillo e comunque senza ansie o pressioni di nessuno.

Mi fermo qui con i miei ricordi, sempre vivi e forti dentro di me. Lascio spazio al mio amico Mario Mattia, primo tecnologo dell’INGV di Catania e uno dei massimi esperti, dal punto di vista scientifico e storico, del terremoto del Belice, che ha studiato tantissimo. Lo ringrazio sempre, a maggior ragione in questa circostanza alla vigilia di un anniversario estremamente importante e delle altrettanto importanti iniziative per ricordare la tragedia – in primo luogo la visita nelle zone terremotate del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – , che vedranno Mario molto impegnato per la sua profonda conoscenza della materia e la sua competenza.

Arricchirò questo momento di ricordo del blog IlVulcanico.it con una fotogallery particolare, con le scansioni di alcune pagine e immagini tratte dallo straordinario inserto del grande giornale L’Ora di Palermo, il quotidiano nel quale ho cominciato la mia carriera di giornalista e ho avuto l’onore di lavorare per quindici anni, dal titolo “Belice. A 20 anni dal terremoto. Un miracolo fatto in casa”. Titoli e foto che ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, fanno venire i brividi e ci fanno ben comprendere la spaventosa entità di quel dramma, il sisma dei “poveri cristi della Sicilia Occidentale… “, come dissero il 25 marzo del 1970 Pino Lombardo e Franco Alasia, compagni d’avventura del grande Danilo Dolci nella brevissima, ma storica esperienza di Radio Sicilia Libera, la prima emittente libera d’Italia.

di Mario Mattia *

  1. L’evento sismico

I freddi numeri raccontano di una sequenza sismica durata molto a lungo, sino a febbraio del 1969. La scossa principale fu preceduta da una serie di eventi minori iniziati il 14 Gennaio, di cui tre con magnitudo momento Mw compresa fra 4.9 e 5.2, e seguita da altri 79 eventi, con una forte replica di magnitudo Mw=5.5 il 25 gennaio (fonte CPTI11). Dalla fine di gennaio al 1° giugno dello stesso anno furono registrati dall’Università di Messina altri 65 terremoti con magnitudo M≥3 e circa un migliaio di repliche con magnitudo M≥2. Per quel che riguarda la profondità, molti studiosi concordano con Bottari (1973) che sostiene una localizzazione crostale degli ipocentri (profondità ≤28 km), compresi i terremoti più forti. Secondo Anderson e Jackson (1987), invece, le profondità focali arriverebbero fino a 36 km. E’ da sottolineare che si discute ancora molto sulla localizzazione delle scosse principali della sequenza, sulle loro profondità e sulla determinazione della magnitudo. Tutti questi parametri risentono, ovviamente, della modesta densità di stazioni sismiche al tempo del terremoto e sulla scarsa qualità dei pochi dati strumentali disponibili.

La disastrosa sequenza interessò l’area compresa fra le province di Agrigento, Trapani e Palermo, comunemente definita col termine di Valle del Belice con molti eventi allineati lungo la direzione NE-SO della Valle. Il terremoto provocò danni in diversi comuni della Sicilia centro occidentale, quindici in totale. L’area danneggiata in modo più rilevante fu molto vasta, all’incirca un triangolo che va, ad ovest, da Menfi a Salemi, attraverso Partanna e Santa Ninfa e, ad est, a Poggioreale attraverso S. Margherita.

CARTA MATTIA
Distribuzione degli effetti del terremoto del 15 gennaio 1968 secondo lo studio di Guidoboni et al. (2007) [fonte: DBMI11]
Dei quindici paesi interessati, dieci furono quelli maggiormente colpiti e, fra questi, quattro furono completamente distrutti: Gibellina, Montevago, Salaparuta e Poggioreale. Gli altri paesi in cui si riscontrarono le più alte percentuali di danni furono Santa Ninfa, Santa Margherita Belice, Partanna, Salemi, Menfi, Contessa Entellina, Vita e Camporeale; mentre danni minori si ebbero a Roccamena, Castelvetrano e Sambuca. La dolorosa conta delle vittime racconta di 352 morti e 576 feriti (Di Sopra, 1992). I senzatetto furono 55.700. Il numero relativamente contenuto delle vittime, se paragonato all’enorme portata delle distruzioni, fu dovuta in gran parte all’allarme suscitato nelle popolazioni dalle scosse premonitrici del pomeriggio del 14 gennaio.

Purtroppo, la mancanza di evidenze di effetti visibili sul terreno legati alla presenza delle faglie che hanno scatenato questa drammatica sequenza, ha fatto sì che ancora oggi il dibattito sia aperto e molte sono le ipotesi sulla reale struttura geologica responsabile della sequenza. Solo recentemente (Barreca et al., 2014) una analisi multidisciplinare ha rivelato, grazie all’utilizzo di tecniche geodetiche satellitari (InSAR e GPS) e ad una serie di profili sismici in mare ad alta risoluzione, l’evidenza di faglie inquadrabili nello stesso contesto delle strutture responsabili del terremoto del 1968 e che potrebbero essere anche legate alle due scosse (IV secolo a.C. e IV-VI secolo d.C – Bottari et al., 2009) che hanno distrutto l’antica città greca di Selinunte.

  1. Le operazioni di soccorso

Nel Quaderno di Protezione Civile L’OPERA DI PROTEZIONE CIVILE NELLA SICILIA COLPITA DAL TERREMOTO l’Ingegner Rosati, Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Roma così descrive l’intervento nella zona terremotata del Belice:

“Alle ore 2,40 la Prefettura di Trapani diede notizie di una forte scossa tellurica nella Valle del Belice, verificatasi verso le ore 2,30”, Successivamente il Comando VV.F. di Palermo comunicava di aver avvertito una nuova scossa verso le ore 3,02. Si trattava questa volta della scossa distruttiva, che aveva coinvolto vari centri della Provincia di Trapani e Agrigento”. “L’Ispettore Generale, già sul posto, portò a termine una rapidissima ricognizione ed alle ore 4,10 potè dare, dalla Caserma dei Carabinieri di Castelvetrano, la prima comunicazione che metteva in rilievo la gravità del disastro e l’elevatissimo numero delle vittime umane. Da questo momento venne allarmato l’intero dispositivo di emergenza e messo in atto il piano generale di soccorso”, prosegue il resoconto.“A fronte alle notizie del sisma che cominciarono a pervenire alla Direzione Generale fra le ore 3 e le 4 del mattino del 15 gennaio, verso le ore 9 dello stesso mattino, la Colonna Mobile Centrale iniziava le operazioni di imbarco a Civitavecchia, la Colonna Mobile della 6 Zona iniziava le operazioni di imbarco nel porto di Napoli ed i primi aerei decollavano dall’aeroporto di Ciampino, mentre i reparti che dovevano raggiungere la zona per via ordinaria erano già in marcia”, scrive l’ingegner Rosati. “A meno di 24 ore di distanza tutte le forze mobilitate dal Continente erano sbarcate in Sicilia ed il giorno 16, nelle prime ore del pomeriggio, erano già in gran parte in zona di operazione ed in attività”.

Secondo i VV.FF, dunque “nessun sostanziale ritardo si è verificato rispetto ai tempi previsti anche se non poche sono state le difficoltà incontrate nelle operazioni di imbarco e di sbarco, nel reperimento dei mezzi necessari e nel superamento degli inevitabili imprevisti collegati al movimento di circa duemila uomini e di molte centinaia di automezzi. L’estremo decentramento periferico delle zone colpite dal terremoto ha posto fin dall’inizio problemi estremamente impegnativi all’organizzazione dell’intervento e dei soccorsi, problemi aggravati dalla difficile situazione della viabilità (strade tortuose e in parte investite dalle frane causate dal sisma)”. “Per fortuna, le scosse di terremoto verificatesi nel pomeriggio del giorno 14 gennaio non avevano ancora determinato danni gravi, ma erano servite di tempestivo allarme mettendo subito in moto la macchina dei soccorsi. Ciò infatti ha consentito che, alle ore 15 circa del giorno successivo, al momento cioè delle scosse distruttive, si trovassero già sul posto alcune squadre di Vigili del Fuoco dei Comandi locali, mentre erano in arrivo i reparti provenienti da zone più lontane costituenti la Colonna Mobile di Zona”. “Dopo le scosse più violente il quadro della situazione (…) era altamente drammatico. I paesi colpiti erano inaccessibili, tutte le strade erano invase dalle macerie. Nella notte fonda e con tempo freddo umido e nevoso, i superstiti, in parte feriti, vecchi e bambini, affollavano ammutoliti le strade all’imbocco dei paesi. Salaparuta e Poggioreale, dove squadre di vigili trovavansi sul posto al sopraggiungere della scossa disastrosa, erano completamente tagliati fuori nè era possibile ricevere da quei luoghi notizia alcuna. Ogni squadra doveva perciò agire in maniera autonoma operando di propria iniziativa e cercando di porre in salvo più persone possibile. Molti atti di puro eroismo sono stati compiuti in quelle prime ore dai pochi vigili, che moltiplicavano le loro energie operando sotto la minaccia dei crolli, mentre altre scosse si susseguivano con frequenza”. “Migliaia di vecchi, bambini e feriti venivano trasportati dai vigili a Castelvetrano con tutti i mezzi utilizzabili, mediante un numero incalcolabile di viaggi”.

L'ORA Gibellina 15 gennaio 1968Fin qui il rapporto dei Vigili del Fuoco, che, va sottolineato, pagarono un altissimo tributo di sangue durante una delle più forti scosse successive al 15 Gennaio, ovvero quella del 25 Gennaio. A Gibellina, la nuova scossa fece crollare alcuni dei muri che avevano resistito al terremoto del 15. Quattro vigili del fuoco impegnati nelle operazioni di soccorso persero la vita. Alessio Mauceri, 53 anni, Giovanni Nuccio, 28 anni, Savio Semprini, 30 anni, e Giovanni Carturan, di 20 anni, trovarono una orribile morte, seppelliti da ciò che restava di un paese che, lo ricordiamo, subì un danneggiamento del 100%.

Numerose sono le testimonianze che invece riferiscono di enormi ritardi nell’intervento dello Stato nell’immediatezza del dopo terremoto e, su questo punto la Commissione Parlamentare di inchiesta dell’VIII legislatura sottolinea, nella sua relazione finale, che i gravi problemi di tempestività dei soccorsi sono da ascrivere, nel 1968, alla mancanza di una adeguata organizzazione di un sistema di Protezione Civile. In Friuli, tanto per citare un esempio, il soccorso fu molto più veloce ed efficace per il banale motivo che in quella regione si trovava una massiccia presenza di reparti dell’Esercito, in grado di provvedere al supporto logistico per i primi soccorsi.

Don Antonio Riboldi, che nel 1968 era parroco a Santa Ninfa, ha scritto molto sulla lentezza della risposta dello Stato e sulla totale disorganizzazione negli interventi di soccorso. Addirittura, Don Riboldi denunciò che in assenza dello Stato, si era realizzata una rete spontanea che provvedeva alle necessità degli sfollati e che, paradossalmente, quando arrivò in forze lo Stato, per via della distribuzione insensata e maldestra di cibo e vestiti si assistette ad un peggioramento dei problemi di sussistenza dei terremotati.

Dalla lettura delle numerose testimonianze giornalistiche e documentali emerge, dunque, una grave approssimazione legata soprattutto al frazionamento insensato delle competenze e all’assenza di una autorità che si preoccupasse di sovrintendere le operazioni di primo soccorso e l’organizzazione delle tendopoli.

  1. La risposta dello Stato e la ricostruzione

Da qui in poi questa triste storia smette di essere competenza di geofisici e gestori dell’emergenza e diventa materia per fiumi di inchiostro spesi su leggi, regolamenti, giornali, interrogazioni parlamentari, atti di commissioni d’inchiesta, libri e progetti di ricostruzione. Riuscire a ricavare numeri certi per la ricostruzione è pressoché impossibile perché, di fatto, è ancora in corso oggi, a 50 anni dalla sequenza sismica. Solo fino al 1990 (Di Sopra, 1992) gli stanziamenti ammontavano alla cifra di 7.932,6 miliardi di lire (circa 4 miliardi di Euro). In questa somma sono contabilizzati anche i costi per le molteplici infrastrutture destinate all’intera Sicilia Occidentale.

Inoltre, il terremoto fece scoprire agli italiani che, proprio mentre a Milano o a Roma si vivevano gli ultimi bagliori del miracolo economico che aveva reso l’Italia una delle potenze economiche mondiali, in un pezzo del loro Paese, di fatto, ci si trovava ancora in una situazione socio-economica medievale. In quel pezzo di Sicilia, da molti anni prima del terremoto, si muovevano figure estremamente carismatiche e ben note in tutta Italia, come il sociologo friulano Danilo Dolci, o Lorenzo Barbera, attivissimo nel Belice e promotore del Centro Studi che ebbe un ruolo di primo piano nelle lotte dei belicini per la ricostruzione e per lo sviluppo. O anche Don Riboldi, parroco di Santa Ninfa all’epoca del terremoto, che fu promotore di iniziative fondamentali per la sua gente minacciata dalle insidie mafiose che vedevano nella ricostruzione del Belice un lucroso affare. Tutti costoro stavano lavorando per dare una coscienza sociale alle popolazioni della Valle del Belice e il terremoto rappresentò allo stesso tempo un ostacolo enorme e una grossa opportunità.

Il capitolo della ricostruzione, purtroppo, fu un dramma dal quale tuttora si fatica a tirarsi fuori. La costante presenza della mafia, le scelte basate su criteri discutibili, che sconvolgevano l’assetto tradizionale urbanistico in favore di concetti mutuati dall’architettura del Nord Europa o l’opzione di abbandonare del tutto molti dei paesi distrutti e di ricostruirli altrove, e la precarietà nella disponibilità di fondi sufficienti, hanno fatto sì che oggi gli italiani pensino al Belice come a una sorta di pozzo senza fondo. Soprattutto se si confronta quella ricostruzione con altri casi, quale quello del terremoto del Friuli (1976). Ovviamente queste analisi hanno il difetto della scarsa oggettività in relazione alle differenze di contesto, di impatto, di quadro legislativo e di scelte “filosofiche” di base (ricostruzione di ciò che è stato danneggiato versus ricostruzione ex novo di interi paesi e di tutte le infrastrutture).

Al tempo del terremoto del Belice l’interpretazione centralistica del sistema degli interventi e degli aiuti era prevalente, e tale restò per diversi anni ancora. Infatti solamente con la legge 178 del 1976 si sono tradotti in norme operative per il Belice i nuovi indirizzi in materia di catastrofi e calamità naturali. Innanzitutto, nella fase dell’emergenza immediata, fu riproposto il meccanismo del decreto legge 9 dicembre 1926, n. 2389 e del decreto legislativo 12 aprile 1948, n. 1010 (affidamento dei servizi di pronto soccorso al Ministero dei lavori pubblici e iscrizione dello stanziamento corrispondente nel capitolo gestito dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche di Palermo). Successivamente, con l’istituzione dell’Ispettorato Generale per le zone terremotate, si è praticamente svuotata la competenza regionale e comunale specie per quanto riguarda la normativa urbanistica. In altri termini, durante questa prima fase del dramma del Belice, l’Amministrazione centrale, in virtù dei compiti ad essa attribuiti in dipendenza di calamità pubbliche, si muove nel senso di esercitare poteri e funzioni spettanti invece, secondo l’articolo 14 dello statuto, in via primaria alla Regione Sicilia (fonte Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione e la ripresa Socio-Economica dei territori della Valle del Belice colpiti dai terremoti del gennaio 1968, VIII Legislatura, 1981). Solo successivamente, beneficiando delle leggi emanate dopo la tragedia del Friuli, anche nel Belice viene avviata una forma di decentramento dei finanziamenti, che accelerò la ricostruzione. Di fatto, le ultime baracche vennero abbandonate nel 1981, a 13 anni dall’evento sismico.

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Il quadro complessivo del disastro del Belice è riassumibile nella tabella qui accanto (fonte : Di Sopra, 1992)

Non è un caso che ho preferito, in questo ricordo del terremoto del 1968, di cui oggi ricorrono i cinquant’anni, riferirmi ai numeri. A mio avviso, infatti, uno degli errori più comuni che si fa nell’analizzare l’impatto di un terremoto sul tessuto sociale di una nazione è prescindere da come la nazione stessa ha risposto all’evento. I numeri del Belice parlano di un impegno economico di circa 8000 miliardi di vecchie lire (dati 1990) e di un flusso annuo di danaro veramente bassissimo, pari a circa 360 miliardi l’anno. Se vediamo i “numeri” del Friuli, ci dicono che, a fronte di un numero non molto differente di persone colpite dall’evento (inteso come residenti), l’impegno dello Stato si è tradotto in una spesa per la ricostruzione pari a 19000 miliardi di lire, ed un flusso di finanziamenti annui pari a 1300 miliardi. Già solo questo dovrebbe bastare a capire che sul Belice e su quel terremoto è stata consumata una retorica antimeridionalista che ha fatto passare, al solito, l’idea del “siciliano che aspetta che il pero gli cada in bocca” contrapposta all’uomo del Nord capace, determinato e con la grinta giusta per ricostruire il proprio territorio “com’era e dov’era”. E tralasciamo, per amor di patria, il contesto legislativo che fu immediatamente messo in campo dopo il terremoto del Friuli e quella sequenza di enti inutili e competenze in conflitto che hanno rappresentato la “risposta” dello Stato alla domanda di ricostruzione e sviluppo dei belicini. Nomina di un commissario con poteri straordinari e decentramento dei finanziamenti (affidati agli enti locali) sono invece state le chiavi (vincenti) dell’”esempio” Friuli.

Gibellina vecchia: il Cretto di Burri
Gibellina vecchia: il Cretto di Burri

E ancora: pochi soldi, mal spesi e nessuna volontà, nemmeno dalle aziende a partecipazione statale, a contribuire allo sviluppo della Sicilia Occidentale, e se a questo ci aggiungiamo gli interessi mafiosi il “quadretto” che descrive la tragedia del Belice è completo. E io spero che in questi giorni di ricordo e di partecipazione per quel terremoto, ci sia qualcuno che parli anche di queste cose. Affinchè venga posto fine allo scandalo di una ricostruzione non ancora completa a cinquant’anni da quell’evento e, ove possibile, alla marcia retorica di chi vede nel nome “Belice” un sinonimo di fallimento e incapacità.

 

Bibliografia

Anderson H., & Jackson J., 1987: Active tectonics of the Adriatic Region. Geophys. J.R. Astr. Soc., 91, 937-983.

Barbera Lorenzo, 2011: “I ministri dal cielo”. Duepunti edizioni, Palermo.

Barreca, G., et al. “Geodetic and geological evidence of active tectonics in south-western Sicily (Italy).” Journal of Geodynamics 82 (2014): 138-149.

Bottari A., 1973: Attività sismica e neotettonica della Valle del Belice. Ann. Geof., XXVI (1), pp. 55-83

Bottari, Carla, Stathis C. Stiros and Antonio Teramo. “Archaeological evidence for destructive earthquakes in Sicily between 400 BC and AD 600.” Geoarchaeology 24.2 (2009): 147-175.

Di Sopra Luciano, 1992: Il costo dei terremoti. Aviani Editore, Udine.

Guidoboni E., Ferrari G., Mariotti D., Comastri A., Tarabusi G. and Valensise G., 2007. CFTI4Med, Catalogue of Strong Earthquakes in Italy (461 B.C.-1997) and Mediterranean Area (760 B.C.-1500). INGV-SGA. http://storing.ingv.it/cfti4med/

Rovida, R. Camassi, P. Gasperini e M. Stucchi (a cura di), 2011. CPTI11, la versione 2011 del Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Milano, Bologna.

*Primo Tecnologo INGV Osservatorio Etneo (Catania)

Le immagini della gallery e quella con il titolo dall’inserto del quotidiano L’Ora di Palermo dal titolo “Belice. A 20 anni dal terremoto. Un miracolo fatto in casa”

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