di Giuseppe Riggio 

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Questa volta la consueta domanda posta da una conduttrice televisiva ad una abitante di Fleri, con la quale in sostanza si chiedeva di spiegare come si fa a continuare a vivere in un posto dove i terremoti arrecano distruzioni ad intervalli abbastanza regolari, mi è sembrata meno banale del solito. Lo scrivo da etneo, non da leghista d’annata in versione “forza Etna”.

Lo scorso 26 dicembre l’onda d’urto del terremoto ha attraversato con forza casa mia e si è andata ad infrangere a pochi chilometri di distanza. Solo che questa volta non mi pare che si possa parlare di capricci della natura o di sfortuna. Gli studiosi non solo ci mettono in guardia da decenni sulla necessità della prevenzione anti-sismica, ma ormai chiamano per nome delle faglie (Pennisi, Fiandaca) che attraversano proprio la zona di Fleri, Pisano, appunto Pennisi.

Fleri, il crollo della Chiesa Madre a causa del terremoto del 25 ottobre 1984 (foto da www.ct.ingv.it)
Fleri, il crollo della Chiesa Madre a causa del terremoto del 25 ottobre 1984 (foto da www.ct.ingv.it). Sotto: crolli a Santa Venerina con il terremoto del 29 ottobre 2002

Normalmente si fa ricorso ai libri di storia per dimostrare i rischi sismici in una certa area. Ma in questo caso basta la memoria di un semplice uomo del territorio, per ricordare il 25 ottobre del 1984 ed il 29 ottobre del 2002, con le scosse sismiche che squassarono proprio la stessa zona e la poco distante Santa Venerina. Mi serve invece la consultazione di un testo per citare le distruzioni arrecate da sommovimenti della terra sempre nella medesima area il 19 marzo del 1952.

Pur sapendo che la prossima volta il vulcano potrebbe potenzialmente dare una scrollata da qualsiasi altra parte, mi pare però che ci siano sufficienti elementi per stabilire ad esempio che in caso di nuove costruzioni o di ricostruzioni nelle aree colpite dal sisma del 26 dicembre si debbano finalmente privilegiare soluzioni abitative che non siano basate sulla dittatura del cemento armato, ma prevedano ad esempio l’opzione del legno quale elemento prevalente per la sua caratteristica di elasticità e di assorbimento delle scosse.

Del resto ci sono degli imprenditori privati che stanno realizzando già questo tipo di edilizia in altre aree etnee, perché non farla diventare una proposta qualificante per l’area di Fleri-Zafferana, dove il rischio sismico è certamente concreto e ripetutamente dimostrato? Anche le stesse costruzioni in pietra lavica, opportunamente adattate, sono state recentemente rivalutate dagli addetti ai lavori in chiave anti-sismica.

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Naturalmente queste considerazioni non riguardano le tante situazioni (per fortuna di gran lunga prevalenti) in cui sarà sufficiente procedere ai ripristini delle parti crollate per restituire l’abitabilità agli edifici. Però dopo tre terremoti nella stessa area in 70 anni e con lavori di ricostruzione di una chiesa di Santa Venerina conclusi solo da qualche mese, penso che da etnei non possiamo semplicemente rispondere che continueremo a vivere sul vulcano perché qui stavano i nostri antenati e perché siamo abituati a vedere il lampadario che dondola. Da tempo nuove tecniche costruttive più adatte ad una terra bellissima, ma ballerina, possono consentirci di continuare a viverci, magari osservando con meno inquietudine il prossimo risveglio del vulcano.

Con il titolo: gli effetti del terremoto del 26 dicembre a Fleri nella foto di Rosario Catania

 

 

 

Giuseppe Riggio

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