di Mario Mattia
Oggi si celebrano gli 850 anni di uno dei terremoti più distruttivi tra quelli che hanno colpito Catania. Meno noto del “cugino” del 9-11 gennaio 1693, il terremoto del 1169 soffre della minore disponibilità di documenti storici e dunque risulta difficile per gli storiografi definirne esattamente sia il contesto storico che quello urbanistico anche a causa delle successive ricostruzioni che hanno di fatto oscurato la topografia dell’antica città medievale e disperso importanti testimonianze.
Di certo, Catania era molto diversa da oggi. Il capo della Civitas era il Vescovo e la città era decisamente più piccola dell’attuale. Il “cuore” era l’antico porto e la Platea Magna (oggi Piazza Duomo) ospitava la nuova cattedrale di Sant’Agata (la precedente prese, appunto, il nome di Sant’Agata la Vetere) ed i palazzi del potere ecclesiastico. Poco resta di quegli edifici e, non a caso, sono arrivate fino a noi le absidi della Cattedrale, sopravvissute a tutti i terremoti in virtù della loro forma tondeggiante e dunque resistente allo scuotimento sismico.
Il fiume Amenano scorreva lì vicino e, a pochi passi la “Giudecca” ovvero il quartiere ebraico ospitava la (allora) numerosa comunità ebraica catanese. La Porta di Aci (oggi Piazza Stesicoro) era già ai limiti della pianta urbana della Civitas e l’odierna Via Etnea non esisteva. La nuova grande Cattedrale di S.Agata, posta nei pressi del mare, cinta da grandi mura che la rendevano Ecclesia Munita, ovvero Chiesa fortificata a protezione del nucleo cittadino e della cittadella vescovile, si ergeva nel nuovo centro cittadino, a qualche distanza dalla città antica.
Il suo ruolo era anche quello di sorvegliare da vicino la grande quantità di musulmani che abitavano in quella zona della città e che rappresentavano una pericolosa minaccia. E proprio in quella nuova bellissima cattedrale, verso le sette del mattino del 4 Febbraio 1169 si trovava il vescovo a celebrare la messa della vigilia della festa di Sant’Agata, già allora amata patrona della città. Con lui, secondo la testimonianza di Romualdo Salernitano (successore nella carica di arcivescovo) si trovavano quarantacinque monaci. La potentissima scossa di terremoto (6.6 è la magnitudo riportata sui cataloghi, ma é da prendere con le pinze, n,d,r,) fece crollare la bella cattedrale, uccidendo tutti i religiosi. Antiche fonti storiche riferiscono di quindicimila morti in città, pari alla gran parte dei cittadini catanesi, e della integrale distruzione di tutte le case e di molte chiese.
Grande fu la distruzione anche a Lentini, a Modica, a Siracusa, come anche nella ricca e potente città di Messina, dove esercitava il potere imperiale il giovane Guglielmo II d’Altavilla, assistito dalla madre-reggente Margherita di Navarra. Molti danni vengono segnalati anche a Forza D’Agrò, a Piazza Armerina ed a Reggio Calabria.
Sui reali effetti del terremoto i limitati documenti storici sono piuttosto vaghi e ci si imbatte anche in qualcuno che gioisce di questo evento. E’ il caso di Pietro di Blois, precettore di Guglielmo II, che in una lettera afferma che il terremoto era il giusto castigo divino per i cittadini catanesi e per il loro empio vescovo, usurpatore del potere imperiale.
Anche sul numero delle vittime non possiamo essere certi, ma di sicuro l’intera città venne distrutta. Ugo Falcando nella sua Historia parla chiaramente di Catania come città subversa (danneggiata) fino al punto che al suo interno non restò nemmeno una casa agibile (ne una quidem domus in urbe superstes remanseri). Oltre le absidi della cattedrale, solo due edifici resistettero al terremoto, ovvero la chiesa di S. Maria della Rotonda (anch’essa salvata dalla sua forma sferica) e la cappella del Salvatore (poi cappella Bonaiuto).
Anche se accaduto 850 anni fa, il ricordo dei nostri concittadini morti deve spingerci ad un sentimento di pietà nei loro confronti e deve servirci da monito riguardo il fatto che viviamo in una terra soggetta a questo tipo di eventi. A questo proposito è particolarmente toccante un componimento scritto in occasione di questo terremoto e riportato da Matteo Selvaggio, frate francescano catanese vissuto nella prima metà del ‘500:
Da dove l’uomo trae motivo d’insuperbirsi? E’ cenere, carne esca per i vermi,
fiore di fieno, generatore, generato, genitrice, creatura.
Compiango Catania. E’ un dolore miserando da esprimere.
Fu illustre, potente e antica in quanto a popolo, a esercito, a clero.
In quanto a ricchezze, a oggetti d’oro, a bellezza, a valore e a trionfi.
Ahimè! Per un terremoto andò in rovina quel dominio del mondo.
A causa della morte va in rovina il giovane; muore l’uomo, la sposa, il marito.
Da dove l’uomo trae motivo di insuperbirsi? Dio demolisce in un’ora.
Le torri, gli ornamenti, le vesti e tutti gli abbigliamenti.
Chi potrebbe conservare in cuor suo i gemiti, le lacrime, i sospiri?
In un siffatto lamento perì la maggior parte della gente.
Oh! Dolore! E più di quarantaquattro monaci,
e perì il pastore della città, lo stesso padre Giovanni,
la dignità pontificia, luce del regno, così perirono.
Sia riposo a tutti, risplenda la luce, la luce perpetua,
per il pontefice e per i suoi monaci, ora e sempre.
(Traduzione dall’originale in latino di Marco Pistoresi).
Le notizie storiche sono tratte da “Catania Terremoti e Lave” di Enzo Boschi ed Emanuela Guidoboni, Editrice Compositori.
Con il titolo: una foto del sarcofago di Costanza d’Altavilla, dove su un lato è incisa una delle poche immagini che rappresentano la Catania medievale, con la Platea Magna (piazza duomo) e la Loggia dei Giurati, costituita da un piano terreno e da un piano superiore merlato, a cui si accede da una scala esterna e il Duomo. Le immagini dal web
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