di Santo Scalia
Correva l’anno 1536 (volendo richiamare alla memoria il titolo di una fortunata trasmissione televisiva della Rai) quando, come ci dice il Canonico Giuseppe Recupero «A LI 22. DI MARZO IXI (uscì) LO FOCO DI LA MONTAGNA».
La presenza monastica alle pendici dell’Etna è comunque ben più antica: infatti, come ricorda Tommaso Fazello, intorno alla metà del XII secolo, il conte Simone di Policastro, nipote di Ruggero d’Altavilla, concesse l’uso di una piccola chiesa e degli edifici circostanti ad un monastero benedettino che si trovava in Malpasso, noto col nome di San Leone in Pannacchio (o San Leone del Bosco). Nella prima metà del XIV secolo la regina Eleonora d’Angiò, quando soggiornava nella sua dimora estiva di Malpasso, spesso si recava presso il cenobio etneo per condividere con i monaci momenti di preghiera.
In seguito, nel 1359 – ed esattamente il 25 luglio – il vescovo di Catania Marziale, con un documento denominato Privilegio di Marziale, stabilì – in accordo con la volontà di Federico II d’Aragona – che presso la sede del già esistente Hospitalis Sancti Nicholai si costruisse un vero e proprio monastero, dipendente anch’esso, come quello di San Leone, da Santa Maria di Licodia. La cappella rurale, alla quale era annesso un ospizio per monaci malati (da qui il nome), nel 1359 fu quindi trasformata nel monastero di San Nicola all’Arena.
Nel 1536, a dire il vero nell’arco di soli venti giorni, l’Etna si produsse in una grande eruzione, interessando vari suoi versanti e mettendo in allarme coloro che abitavano alle sue pendici. Tutto ebbe inizio il 23 marzo (o il 22, a seconda di come si interpreta l’ora italiana, allora in uso). Quel giorno, dopo una serie di terremoti, cominciò un’intensa attività sommitale che si concluse con il crollo della parte settentrionale del Cratere Centrale.
Nei giorni che seguirono varie bocche e colate si manifestarono, sia nel versante orientale sia in quello occidentale. Il giorno 26 fu invece il versante meridionale ad essere interessato, con numerosi crateri che si aprirono tra Monte Manfrè e Monte San Leo.
La lava scaturita dall’apparato formatosi presso il citato Monte San Leo, tra il giorno 28 ed il 29, raggiunse e seppellì il monastero di San Leone e le fertilissime terre vicine (nei territori di Malpasso e di Mompileri). In proposito riportiamo le parole di Tommaso Fazello che, nella sua opera Le due deche dell’historia di Sicilia del 1573, così scrive:
«In quel medesimo giorno, la Chiesa di Sean Leone, che era nel bosco, scossa dal terremoto prima rovinò, dipoi fu consumata tutta dal fuoco, et hoggi non si vede vestigio alcuno della Chiesa, ma solamente si vede un monte di sassi, gittati da quella voragine.»
Anche il Canonico Recupero racconta della distruzione della Grangia [piccola comunità monastica governata da un rappresentante dell’abate e una unità economica (fattoria) amministrata dal cellerario o monaco «granciere» (da Treccani)] di Santo Lio
Di quel monastero oggi è rimasto solo il ricordo attraverso il nome, tramandatosi nel tempo, e che fa chiamare quelle contrade terre di Santu Liu.
Come già detto anche il monastero di San Nicolò fu danneggiato, ma non distrutto completamente. L’attività eruttiva, con fasi alterne, continuò fino ad aprile dello stesso anno. Passata la tempesta, i monaci benedettini tornarono a Nicolosi e ripararono i danni che i terremoti avevano arrecato alle strutture.
Ma il vulcano non aveva ancora finito la sua opera: poco più di un anno dopo, nel maggio del 1537, una nuova eruzione terrorizzò i frati: stavolta il Monastero di San Nicolò l’Arena di Nicolosi fu raggiunto e circondato dalle lave. Lo storico agrigentino Federico del Carretto, che l’anno prima aveva prodotto il manoscritto De Aethneo incendio, scrisse stavolta un De alio incendio.
Riportiamo ancora una volta le parole del Fazello, ora a proposito della nuova eruzione: ««[…] finalmente a’ xiij. di Maggio nel monte Etna, sopra un colle, che da’ paesani è chiamato Sparverio, apparver molte voragini, fuor delle quali uscì tanta gran copia di fuoco, ch’egli nello spatio di xv. miglia, abbruciò tutto quello, che potette ardere, et arrivò per fino al monasterio di S. Nicolò dell’arene, dove adunatosi insieme, e lasciato intatto il monasterio, entrò nel paese di Nicoloso [sic], e di Mompileri, e n’abbrucciò molte case, e molti edifici».
Due eruzioni praticamente nel corso di un solo anno furono troppe per i frati che, anche a causa di alcuni atti di brigantaggio, ma soprattutto avendo perduto i loro terreni e le fertili vigne, chiesero di abbandonare definitivamente il monastero, e di ritirarsi nella Città di Catania.
Ed ancora, nel 1669, un altro episodio vulcanico sconvolgerà tutta l’area sud-etnea: proprio presso Nicolosi, a meno di un chilometro dal convento, si aprirà una delle bocche di quella che è definita la più distruttiva eruzione dell’Etna. Nicolosi non è distrutta dall’eruzione, ma i forti terremoti e i numerosi metri di cenere fuoriusciti dai crateri lasciano in piedi molto poco del villaggio. Anche il monastero di San Nicolò ha molti dei suoi edifici compromessi ma verrà rimesso in sesto, anche se in tono minore, essendo ormai un convento di secondaria importanza.
L’edificio restò a disposizione della comunità monastica fino al 1866. Poi la proprietà passò a privati per oltre un secolo, fino all’acquisto nel 1992 da parte dell’Ente Parco dell’Etna che, dopo averlo ristrutturato, nel 2005 ne ha fatto la propria Sede (http://www.parcoetna.it/Pagina.aspx?p=9).
Ma dobbiamo tornare ancora più indietro nel tempo per trovare il legame fra Nicolosi e Monreale. Fu nel 1347 che l’arcivescovo di Monreale, Don Emanuele Spinola, volle che nel feudo già allora detto di San Martino, di pertinenza del vescovado monrealese, venisse edificato un monastero benedettino. Ancor oggi si conserva l’atto di fondazione, redatto dalla cancelleria dell’arcivescovo Don Emanuele Spinola, nel quale vengono fatti i nomi di sei monaci benedettini del monastero di San Nicola, sito alle falde dell’Etna, i quali furono cooptati dall’arcivescovo per dar vita al nuovo monastero. «Tra questi spicca il nome del fondatore, il beato Angelo Sinisio, un uomo dalle spiccate qualità spirituali e organizzative che, in breve tempo, costruì il primo monastero, accolse altri uomini desiderosi di condividere con lui l’ideale monastico e impiantò nello stesso cenobio quelle attività tipiche dei monasteri benedettini, tra cui la coltivazione dei campi e delle erbe semplici per la cura delle malattie e uno scriptorium per la riproduzione dei codici.» [dal Sito dell’Abbazia]
Questa storia è stata anche doviziosamente raccontata nel Bollettino del Parco dell’Etna di Giugno 2011, da Gaetano Perricone, allora responsabile dell’Ufficio Stampa del Parco. Grazie al riferimento al prezioso volume del 1905 dello studioso Gregorio Frangipani – Cassinese, dottore in teologia, filosofia e lettere – che ricostruisce nei dettagli la fondazione dell’Abbazia di San Martino delle Scale, veniamo così a conoscenza dei nomi dei monaci fondatori: Angelo Sinisio, sacerdote, Giovanni, suo fratello, diacono; Paolo Bello, suddiacono, monaci coristi; fra Bartolomeo Squillaci, fra Angelo Failla e fra Francesco da Lentini, conversi. Fra questi, Angelo Sinisio fu il primo abate di San Martino, eletto il 26 luglio 1352.
Voglio anche ricordare la figura di Giuseppe Benedetto Dusmet, che fu Arcivescovo di Catania, e che proprio nell’Abbazia monrealese entrò all’età di cinque anni, studiò, intraprese il noviziato ed infine dell’Abbazia divenne Abate (vedi ilVulcanico).
Un’ampia galleria di foto del Monastero di San Nicolò l’Arena di Nicolosi e dell’Abbazia benedettina di San Martino delle Scale si può vedere nella fotogallery. Tutte le fotografie sono dell’autore.
Con il titolo: la bellissima Abbazia di San Martino delle Scale, sopra Palermo (foto di Santo Scalia)
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