di Santo Scalia
Sono trascorsi poco più di due mesi dalla scomparsa dello scrittore siciliano Andrea Camilleri, e voglio ricordare il Maestro prendendo spunto da uno dei suoi numerosi romanzi: Un filo di fumo.
La prima edizione del romanzo fu pubblicata nel 1980 dall’editore Livio
Garzanti, seguita, nel 1997, dalla pubblicazione a cura della casa editrice siciliana Sellerio. Ma perché parlare proprio di questa, tra le tante opere di Camilleri?
Intanto, perché con questo romanzo Camilleri ricevette a Gela il suo primo premio letterario; poi, perché questo è il primo di una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigàta, nel periodo storico che va dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento; infine, perché in questo romanzo viene inserito un episodio storico realmente avvenuto legato all’eruzione – sottomarina prima, subaerea poi – ed alla conseguente emersione di un’isola vulcanica nel Mar di Sicilia.
Com’è noto l’immaginaria Vigàta è una cittadina affacciata sul Canale di Sicilia, sita lungo le coste agrigentine, proprio di fronte al tratto di mare spesso indicato dagli studiosi di vulcani come “i campi flegrei del mar di Sicilia”. L’azione del romanzo di Camilleri si svolge all’inizio degli anni ’90 dell’Ottocento, ma l’autore trova il modo di rievocare gli eventi straordinari avvenuti, temporalmente, sei decenni prima. Così come già nella pucciniana opera lirica Madama Butterfly, al molo c’è qualcuno che aspetta d’intravedere all’orizzonte “levarsi un fil di fumo”: «“U fumu! U fumu! U fumu!”. Variata di tono, timbro e altezza come un gioco di foco che s’alzava nell’aria la parola rimbalzò da tetto a tetto, da finestra a finestra, […] e poi a ruscelli, a torrenti, a cascata precipitò verso i piani bassi e verso i catoj…».
In questo caso, nell’intreccio del romanzo, il filo di fumo è il segno dell’arrivo del vapore russo Tomorov, evento che avrebbe determinato da un lato il fallimento dell’attività di un commerciante di zolfo e dall’altro la gioia dei suoi accaniti avversari; ma la nave non arriverà mai a terra, naufragherà sulla secca che si trova al largo del porto.
A questo punto Camilleri, in poche pagine, con il solito inconfondibile stile, ci racconta come era nata la secca sulla quale l’attesa nave era andata a infrangersi:
«All’alba del 13 luglio del 1831, vale a dire sessant’anni prima, il Capitano Mariano Currao di Vigàta, che qualche tempo avanti aveva trovato un banco miracoloso al largo del suo paese, in una zona compresa fra lo scoglio dello Zito e Zita, e la punta di Capo Russello, si era recato con la sua barca a strascico per fare la quotidiana minnitta di pesci dopo essere riuscito a seminare, con giri a coda di porco e finte fermate, tutti gli altri capibarca. Il segreto di quel banco miracoloso l’aveva confidato solamente a Nino Trifiletti di Fela, che era amico fidato suo, compare di sangue e omo di panza: una cosa detta a Nino era come sotterrarla. Stava Capitan Currao tirando a bordo la prima calata quando Toto Ferro, il marinaio che alzava la rete per metà curvato in avanti verso il mare, s’impietrì facendosi bianco in faccia.
“I pesci sono tutti morti”. Non ci mise tempo in mezzo, sentendo quelle parole, Capitan Currao a dare ordine di pigliare vento e d’invertire la rotta. Da qualche tempo succedevano cose in quel tratto di mare che non lo persuadevano per niente. Una volta, proprio dal fondo, si era sentito un rumore surdo, di tuono, che era durato una mezz’ora e poi si era sfrangiato in una serie di colpi più forti ma staccati l’uno dall’altro, come di cannonate; un’altra volta l’acqua si era fatta di colpo calda che uno poteva a momenti calarci la pasta; una terza volta erano venute a galla alghe giallose che fra le dita diventavano farina che feteva. […] si allontanarono ancora un poco. E dalla nuova posizione, dopo qualche minuto, sentirono prima un boato lungo e lento, che proprio se la pigliava comoda, poi videro l’acqua che cominciava a bollire e mentre gli scafi prendevano a tremare come per la terzana, un’altissima colonna di fumo e faville si alzò a picco, facendo voci di raggia e rumori proprio come una persona viva. Mentre il sole diventava grigio e una cenere spessa e densa entrava col fiato nei polmoni, e i marinai, morti di scanto, cadevano in ginocchio pregando la Madonna e tutti i santi, Currao e Trifiletti, ammammaloccuti, si resero conto che stavano assistendo a un fenomeno mai prima visto: un’isola vulcanica nasceva sotto ai loro occhi […]».
«[…] poi, il 15 di luglio, l’isola emerse tutta intera e il mare parve addormentarsi di colpo, oramai giunto allo stremo. Dalla Francia si precipitarono a studiarla gli accademici Jonville e Prevost che le diedero il nome di Giulia perché comparsa in luglio; da Catania si scapicollò il geologo Gemmellaro che, avendo una cattedra in sospeso e per la quale doveva decidere Sua Maestà in persona, la battezzò Ferdinandea in onore del suo re; dalla Germania arrivò a palla allazzata il professor Hoffman che, essendo privo di fantasia e d’interesse, non la battezzò per niente e si limitò ad osservarla; mentre Capitan Currao, che per conto suo l’aveva chiamata Curraa, rompendo una ventennale amicizia con Capitan Trifiletti che s’era permesso di darle il nome di Trifiletta, vi faceva la navetta da Vigàta almeno due volte al giorno portandovi curiosi a pagamento. In tutto questo accendersi di fervore scientifico, gli inglesi si limitarono a mandare il cutter Hind al comando del capitano Jenhouse il quale un bel giorno, sceso a terra un piede leva e l’altro metti, vi piantò la bandiera britannica e chiamò l’isola, va a sapere perché, Graham […]».
Il racconto di Camilleri continua ancora, integrando la testimonianza oculare storicamente attestata di Benedetto Marzolla:
«[…] L’isola consisteva, come scrisse Benedetto Marzolla, impiegato nel Reale Officio Topografico, espressamente imbarcatosi da Napoli per la Ferdinandea col pacchetto a vapore Francesco I, “in una pianura di livello che appena si eleva sul mare di tre palmi, e che si compone di sabbia fina, nericcia, e pesante, sparsa di piccoli frantumi di lava, e di scorie molto friabili e leggiere. Quasicché nel mezzo dell’isola sorge un monticello che si compone di sabbia simile a quella della pianura, e di scorie friabilissime. A ponente del monte vedesi un laghetto di circa 160 palmi di giro, che contiene dell’acqua bollente sulla quale vedesi galleggiare del fumo. L’isola tutta ha un perimetro di palmi 2000 circa, siccome risultò da tre misure fatte accuratamente”».
Camilleri – tra lo storico ed il romanzato – ci racconta ancora delle scaramucce tra i vari equipaggi delle navi inviate, di chi scese per primo o di chi per primo vi piantò sopra una bandiera. Racconta pure di un fatto di sangue, di un inglese che avrebbe scannato un vigatese… non per questioni di territorio, bensì per un quarto di vino!
Ed infine «[…] il 16 dicembre 1831, dopo cinque mesi di discussioni e di liti, l’isola decise che s’era stufata e se ne risprofondò di botto, lasciando agli uomini che aveva sopra appena il tempo di rimbarcarsi.»
Poco prima che l’isola s’inabissasse, cessata l’eruzione, le due bocche del cratere si riempirono di acqua marina: così le vide e le raffigurò Carlo Gemmellaro, allora professore di Geologia e Mineralogia presso l’Università di Catania.
Come un filo di fumo avvisava dell’avvicinarsi a riva di un vapore, dunque, così un filo di fumo, nel 1831, era stato visto da Sciacca, quando una nuova isola sorgeva dalle acque del Mediterraneo.
L’isola creata dal Nuovo Vulcano, come fu definito allora – in seguito a svariate dispute sull’appartenenza territoriale, a contrasti sull’interpretazione del Diritto Marittimo Internazionale, a priorità dettate da chi e quando vi fosse sbarcato per primo e quale bandiera vi avesse piantato – fu denominata in vari modi: Sciacca (essendo nata nel mare proprio di rimpetto alla città); Nerita; Corrao (dal nome di Giovanni Corrao, il Capitano che assistette alla sua emersione); Hotham (dal nome di Sir Henry Hotham, viceammiraglio britannico); Julie – o Giulia, in italiano – (la chiamarono i francesi dal mese di luglio in cui s’era formata); Graham (nome dato dal capitano Humphrey Le Fleming Senhouse in onore di Sir James Graham, primo Lord dell’Ammiragliato Britannico); Ferdinandea (nome proposto da Carlo Gemmellaro in onore del Re Ferdinando II di Borbone).
Inghilterra, Francia, Regno delle due Sicilie inviarono sul posto imbarcazioni, capitani e scienziati per avere delle relazioni accurate su quanto stesse accadendo in quel tratto di mare. Così Carlo Gemmellaro produsse la Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano, il Signor Federigo Hoffman scrisse una Lettera per il Duca di Serradifalco, dal titolo Intorno al nuovo vulcano presso la città di Sciacca. Constant Prévost, per la Société Géologique de France, a sua volta scrisse una Lettre relatant l’exploration de l’île de Julia.
Sembra inoltre che negli anni seguenti in quel tratto di mare sia avvenuto ancora qualcos’altro: come riportato in un articolo dagli studiosi Falzone, Lanzafame e Rossi (secondo notizie però mai confermate), fu segnalata un’attività sottomarina nel 1833 e la riemersione dell’isola, a pelo d’acqua, per pochi giorni, nel 1863.
Oggi Ferdinandea è solo un rilievo sommerso. Non possiamo vederlo, a meno di essere in grado di scendere sotto il pelo dell’acqua, in pieno Canale di Sicilia, per circa sette metri. Chi invece volesse più comodamente vedere comunque un pezzo dell’isola, non ha che da recarsi al Museo di Geologia Gaetano Giorgio Gemmellaro di Palermo, che qui ringrazio per la disponibilità data alla realizzazione e pubblicazione delle foto inserite nel testo e nella Fotogallery. Presso il Museo Gemmellaro, nella sezione vulcanologica allestita al pianterreno, due belle vetrine espongono non solo un disegno dell’epoca realizzato nel novembre 1831 (ad eruzione terminata) dal vulcanologo nicolosita Carlo Gemmellaro, ma anche una collezione di rocce vulcaniche raccolte sull’isola dallo stesso scienziato, padre di Gaetano Giorgio, cui è intitolato il Museo.
Vi sono esposti scorie doleritiche, scorie pirosseniche e prodotti piroclastici, oltre a disegni (in originale o in riproduzione) realizzati dal Gemmellaro.
Vari autori si sono cimentati in opere attinenti la spettacolare apparizione dell’Isola che non c’è, come a volte è stata nominata l’Isola di Ferdinando II; nella mia biblioteca, oltre alla ristampa anastatica del volumetto del 1831 Descrizione dell’Isola Ferdinandea di Benedetto Marzolla, sono presenti altri titoli, quali: Dell’isola Ferdinandea e di altre cose (Salvatore Mazzarella, 1984); Ferdinandea, l’isola che non c’è (Gaetano Allotta, 2000); L’isola che se ne andò (Filippo D’Arpa, 2001); L’isola effimera (Gaetano Allotta, 2002); L’ile à éclipses (Bruno Fuligni, 2003).
La fotogallery a corredo di questo ricordo del Maestro Camilleri, e dell’Isola Ferdinandea, comprende un’ampia selezione di immagini, dipinti, e schizzi che documentano un’evento accaduto centosettantotto anni fa. Tutto avvenne poco prima che Louis Daguerre perfezionasse la tecnica per dipingere con la luce: otto soli altri anni sarebbero bastati perché potessimo avere delle foto del fenomeno, ma purtroppo la Gazette de France avrebbe potuto annunciare al grande pubblico la rivoluzionaria invenzione soltanto il 19 gennaio 1839.
Con il titolo: vista del cratere del nuovo vulcano il 29 settembre 1831 (da Le Monde Illustré – N° 384 – 20 Agosto 1864)
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