di Francesco Palazzo
Cinquantatre anni fa, il 22 novembre 1963, fa a Dallas moriva per mano assassina John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti d’America.
Ricordo, mentre con la mia famiglia stavamo cenando, di avere appreso la notizia dal Telegiornale che, in edizione straordinaria, aveva interrotto Carosello, la mia trasmissione preferita. Una prima edizione straordinaria ci annunciò che il Presidente era stato vittima di un attentato ma che era stato d’urgenza trasferito in ospedale (il Parkland Memorial Hospital) per tentare di salvarlo. Circa mezz’ora più tardi, un’altra edizione straordinaria ci informava che non c’era stato nulla da fare e che il Presidente era spirato. Quelle speranze che si erano alimentate mezz’ora prima erano così svanite, evaporate.
Grande sconforto ci assalì. Non riuscivamo ad immaginarci il futuro, cosa sarebbe stato del Mondo. Dopo Papa Giovanni XXIII anche Kennedy non c’era più: il 1963 si era portato anche lui. Perché ci sentivamo in preda allo sconforto? Perché quell’uomo si era mostrato al mondo come il paladino della libertà e della democrazia. Primo presidente cattolico, era riuscito a dialogare (per come si poteva) con l’Orso sovietico, colpendo l’immaginario collettivo con l’istituzione del “telefono rosso”, la linea diretta Casa Bianca – Cremlino che doveva servire a fermare i lanci indiscriminati di bombe atomiche. Era riuscito a ribaltare a favore del mondo “democratico” la gara per la conquista dello spazio. Aveva una bella famigliola, con una moglie bella ed elegante. Insomma era l’incarnazione del glamour.
Quello che successe dopo l’attentato di Dallas, che fu fatto vedere e rivedere in televisione migliaia di volte, con quella povera Jacqueline che si protendeva a riacciuffare quello che poi ci spiegarono era parte del cervello di John, che era saltato dal cranio del Presidente a causa del proiettile che era stato sparato da un fucile di precisione, ha ormai del romanzesco. Lee Oswald che, accusato di essere stato il cecchino del Presidente, viene quasi subito acciuffato e, mentre si trova nella Centrale della Polizia di Dallas, durante il suo trasferimento dal primo informale interrogatorio (ancora il Miranda Warning non esisteva) al furgone che lo avrebbe portato alla prigione della contea, viene ucciso con un solo colpo di pistola da Jack Ruby, un tizio che si trovava lì per caso. Il trasferimento della salma del Presidente con l’Air Force One con la famiglia e dove il Vice Lyndon B. Johnson presta il giuramento presidenziale con accanto Jackie. I funerali con la bara coperta dalla bandiera a stelle e strisce posta su un carro che sfila per Washington con dietro Jacqueline coperta da un lungo velo nero mentre tiene per mano i suoi due figli, John jr. (che celebrò i suoi tre anni il giorno del funerale) a sinistra e Caroline a destra. Il saluto militare di John jr. davanti alla tomba del padre nel cimitero di Arlington. E via dicendo. Tutto questo contribuì a creare il mito.
Ciò anche se Kennedy era stato il protagonista delle crisi della Baia dei Porci di Cuba e l’avviatore della guerra del Vietnam; cioè due delle peggiori azioni mai commesse nel recente passato dagli USA e che hanno condizionato la politica mondiale fino ai nostri giorni. Ma allora non sembrava che il nostro John avesse fatto delle “monellerie” così grosse. Era biondo; aveva trentadue denti dritti e bianchi, sempre sorridente, si vedeva che la vita non gli sorrideva, gli rideva. E poi la vicenda di Marilyn Monroe, con la quale sembra avesse avuto una forte relazione, e che finì come si sa. I suoi rapporti con Frank Sinatra, la più grande voce bianca di tutti i tempi, che però si diceva avesse goduto di appoggi non proprio ortodossi e che questi appoggi avevano interessato pure le faccende del Presidente.
Insomma, quello che a noi appariva come il paladino di tutto ciò che si poteva considerare “bene”, in effetti aveva più di qualche scheletro nell’armadio e una vita decisamente spericolata. Ma ciò non toglie che emotivamente quel 22 novembre 1963 resta nella nostra memoria come una data che ha segnato il passaggio dall’età dell’innocenza a quella della consapevolezza che le vicende del mondo non sono poi così lisce (per dirla con le parole che allora dissi a mio padre).
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