FONTE: INGVVULCANI
di Alessandro Bonforte
Sono passati ben 30 anni dall’incredibile eruzione dell’Etna che sconvolse la Valle del Bove e tenne in apprensione la cittadina di Zafferana Etnea. Voglio celebrare questo anniversario con il mio personale ricordo di quell’evento eccezionale. Ricordi un po’ sbiaditi, come le foto che ho scansionato, e che vorrei far rivivere qui.
L’eruzione del 1991-1993 è stata un evento particolare, importante sotto molteplici aspetti. Da un punto di vista vulcanologico, rappresenta la più “voluminosa” eruzione degli ultimi secoli. Non esistevano allora i dispositivi per il monitoraggio che abbiamo oggi, disseminati sul vulcano, né in termini di numero, né in termini di accuratezza. Chissà quante cose avremmo potuto osservare e registrare. Ma questa frase la potremmo ripetere tra trent’anni per gli eventi odierni, e così via. La tecnologia avanza e permette nuove osservazioni e nuove ricerche, ogni scoperta pone nuove domande e rivela nuovi orizzonti, in un circolo virtuoso. Però, ogni evento “importante” della nostra montagna scandisce un momento della nostra vita, come una colonna sonora, che affianca noi ed il vulcano in un percorso nel tempo.
Al di là della descrizione scientifica, ognuno vive lo stesso evento in modo diverso, personale. Tutti quelli che ricorderanno le fontane di lava di febbraio – ottobre 2021, lo faranno in modo diverso, in funzione delle emozioni che hanno suscitato e che sono prevalse ed in relazione al particolare momento della vita di ciascuno. Chi le ricorderà perché ha fatto memorabili fotografie, chi ricorderà le notti insonni per i boati, chi ricorderà la cenere da spazzare e così via. Un fenomeno complesso ha molteplici sfaccettature.
Io l’eruzione del 1991-93 la ricordo perché, appena iniziata, subito dopo l’immancabile escursione per coglierne i primi vagiti (Figura 1), mi fiondai nella stanza del professore di Vulcanologia dell’Università di Catania, Renato Cristofolini, per chiedere di poterne fare una tesi di Laurea.
All’epoca mi mancavano un paio di esami per completare il mio percorso di studi e l’occasione era ghiotta. Un sogno, conciliare utile e dilettevole per chi, come me, sognava dal 1983 di fare il vulcanologo. Contavo, povero illuso, con un colpo solo di divertirmi, completare tutto e laurearmi per l’estate 1992. Certo, non potevo immaginare quanto sarebbe durata quella eruzione e cosa avrebbe comportato da lì a pochi mesi in termini di impatto per la popolazione e di impegno per la protezione civile. Questo “imprevisto” mi fece allungare di due anni la mia esperienza universitaria, la tesi diventò tesina (tanto bisognava farne due oltre alla tesi) e ne iniziai un’altra in geofisica. Sostenni anche qualche esame in più rispetto al piano di studi originale, avendo terminato quelli obbligatori due anni prima di finire la tesi, ma l’entusiasmo era tanto e l’esperienza unica.
Quella fu la prima occasione in cui guardai al vulcano ed ai suoi fenomeni con occhi nuovi, maturi, (quasi) professionali, orientati all’osservazione oltre che all’ammirazione. Ricordo quando la lava si affacciò dal Salto della Giumenta per entrare in Val Calanna (Figura 2). Mi arrampicai in motocicletta lungo il lastricato e poi proseguii a piedi raggiungendo la cima di Monte Calanna. Passai così, fino a sera, tutta la vigilia del Natale 1991, con mia mamma che mi aspettava per il cenone (Figura 3).
Osservai i primi blocchi lavici rotolare giù dal fronte della colata fino alla formazione di un vero e proprio conoide di detriti, prima che il flusso diventasse continuo dalla cima alla base del Salto. Da queste osservazioni non trassi solo belle foto e un ricordo indelebile ma cercai, da studente diligente con carta e penna alla mano, di tirar fuori un modellino di frammentazione del fronte lavico alla rottura del pendio, fino alla formazione del flusso continuo (Figura 4). Foto e scarabocchi che riporto qui, così come erano riportati nella tesina di allora.
L’energia e l’entusiasmo dei 21 anni mi spingeva a recarmi, almeno due volte a settimana, in Valle del Bove e Val Calanna. Ogni escursione mi dava occasione per osservare la formazione e l’evoluzione dei flussi lavici. Ricordo che emozione il giorno in cui potei confermare l’azione erosiva del flusso principale sui tufi sottostanti, documentando la formazione di una cascata di lava nel giro di un paio di giorni (Figura 5).
Le dinamiche erano rapidissime, il flusso si approfondiva, generando crolli degli argini del canale in cui scorreva (Figura 6) che, a loro volta creavano ostruzioni e variazioni del flusso a valle. Queste variazioni mi permettevano di seguire con estremo dettaglio l’evoluzione sempre più complessa del campo lavico che si stava creando a valle, con tutti i meccanismi di avanzamento delle colate e dei fronti che rallentavano per poi rinvigorirsi nuovamente (Figura 7).
Gli eventi dei mesi successivi, nella primavera del 1992, videro gli interventi dello Stato per il contenimento dell’avanzata della colata verso l’abitato di Zafferana Etnea. Diventò sempre più difficile recarsi nelle aree interessate dall’eruzione ma per me fu anche una nuova occasione per osservare i comportamenti dei diversi flussi lavici quando incontravano ostacoli e creare modelli di avanzamento delle colate in funzione della loro viscosità e temperatura (Figure 8 e 9).
La diga costruita in Val Calanna ebbe l’effetto di provocare un accumulo di lava molto complesso, con l’apertura di bocche effimere dappertutto e la formazione di un’infinità di piccoli flussi dalla lunghezza e vita molto variabile (Figura 10).
Mi sbizzarrivo a documentare forme e dinamiche delle lave e la loro morfologia (pahoehoe, toothpaste) col mio taccuino e la macchina fotografica. Mi sentivo alle Hawaii per il tipo di campo lavico su cui mi trovavo a consumare, anzi a sciogliere le suole di numerose paia di scarponcini (Figure 11 e 12).
Quando la lava oltrepassò il terrapieno allo sbocco della Val Calanna, fu eseguito il famoso tentativo di deviazione della colata a monte, con l’esplosivo che ruppe l’argine meridionale del flusso lavico – visibile nelle figure 5 e 6 – per drenare il canale creando un nuovo espandimento su quel che restava ai piedi del bordo meridionale della Valle del Bove. Tra i ricordi di ciò che fu e che non rivedremo mai più, nella continua evoluzione di un paesaggio tanto vivo quanto potente, ci sono le faggete dei canaloni di ingresso della Valle del Bove, i colossali dicchi denominati “Castelli” e, ai loro piedi, i ruderi del Rifugio Menza, meta di sciatori ed alpinisti fino agli anni Sessanta e Settanta (Figure 13 e 14).
L’eruzione finì, senza ulteriori sbalzi e variazioni, nella primavera del 1993. Un evento eccezionale per i volumi di lava emessi, per l’impatto sociale e paesaggistico, per le variazioni causate al paesaggio e alle attività agricole della Val Calanna e escursionistiche nella Valle del Bove. Una delle eruzioni più importanti del XX secolo e, per me, l’inizio di un’avventura che spero possa continuare ancora a lungo.
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