di Antonella De Francesco
Sembra quasi una pièce teatrale per l’ambientazione chiusa e i dialoghi serrati, il film La camera di consiglio, della regista Fiorella Infascelli, che racconta come due magistrati onesti, differenti ma determinati e otto giurati volontari, segregati per più di un mese in un appartamento all’interno del carcere Ucciardone, riscrissero la storia d’Italia, sancendo definitivamente e irreversibilmente l’esistenza della mafia e pronunciandosi con una sentenza epocale contro gli oltre 400 imputati del Maxi Processo.
Si tratta di un film dal profondo valore civile, quasi indispensabile per una società spesso incline a dimenticare il proprio passato, aspetto che diventa ancora più rilevante in un momento storico in cui il ruolo della magistratura viene frequentemente messo in discussione, perfino dalle stesse istituzioni.
L’opera di Fiorella Infascelli, con il contributo di Francesco La Licata in qualità di consulente storico, con il suo approccio onesto e misurato, rappresenta un monito e un invito a riflettere sull’importanza della memoria e della giustizia. Il film si caratterizza per la delicatezza con cui tratteggia i personaggi, sia i giurati che i due magistrati protagonisti, Alfonso Giordano (interpretato da Sergio Rubini) e Pietro Grasso (interpretato da Massimo Popolizio), che, pur diversi per carattere, visione e strategie, condividono un unico obiettivo: perseguire la giustizia, arrivando a condanne giuste e, dove necessario, alle dovute assoluzioni.
Nel corso della vicenda, il principio del “ragionevole dubbio” viene costantemente riaffermato da Alfonso Giordano, per voce di Sergio Rubini, che con consapevolezza e responsabilità lo ricorda a sé stesso e agli altri giurati, persino ridimensionando il peso delle confessioni dei pentiti, laddove non supportate da prove certe. Ritratti nella solitudine di quei giorni, separati dal resto del mondo, immersi in un’atmosfera quasi sospesa, che la regista restituisce con una scenografia essenziale a sottolineare la condizione di chiusura e concentrazione assoluta a cui erano sottoposti, con i pochi oggetti personali (unici strumenti per non perdere il senso di sé e per ricordare la propria storia e il proprio percorso umano) loro sono i primi “eroi”, ben prima delle stragi e del clamore mediatico dell’antimafia che avrebbe investito l’Italia. Sono stati loro, nella solitudine forzata e nel silenzio di quelle stanze, a scrivere una delle pagine più importanti della storia civile del nostro Paese, affrontando le paure, le fragilità e i dubbi che inevitabilmente accompagnano ogni decisione di grande portata.
In quel piccolo corteo finale che si dirige verso l’aula per esporre la sentenza, in quei visi fieri dei giurati con indosso la fascia tricolore, in quelle toghe indossate con onore, dovremmo riconoscerci tutti noi Italiani onesti per rinnovare quotidianamente il nostro senso di appartenenza e il rispetto verso la giustizia. La camera di consiglio, dunque, non si limita ad essere un semplice racconto di giustizia e di memoria ma, attraverso la narrazione delle vicende di quei magistrati e dei giurati, si fa portavoce della responsabilità collettiva di noi spettatori e cittadini, ricordandoci che la giustizia non appartiene soltanto a chi amministra la legge, ma a ogni individuo che, nella quotidianità, sceglie di schierarsi dalla parte dell’onestà e della verità.

 

Antonella De Francesco

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