di Antonella De Francesco
Siamo tutti cresciuti con il “ mito” dei paesi scandinavi: paesi liberi ( anche sessualmente), città pulite e perfette, gente ordinata e obbediente ma per lo più algida. Questo è pure l’affresco che, in una complessa parodia, ci regala il regista Ruben Östlund nel suo ultimo film The square, con cui ha vinto la Palma d’oro al 70esimo festival di Cannes.
Un film difficile che tenta di fornire uno spaccato delle nostre società evolute, in cui, forse, un po’ tutti abbiamo assunto quell’atteggiamento freddo e distaccato che, un tempo, era solo appannaggio dei paesi nordici.
Il direttore di una galleria di arte moderna di Stoccolma, Adrian, nel corso dell’allestimento dell’ennesima mostra si trova a dover contravvenire egli stesso ai principi a cui essa di ispira. Perché se The square doveva rappresentare il luogo sicuro all’interno del quale “tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri“, in cui si praticano senza parsimonia altruismo ed empatia, è fin troppo evidente come il resto del mondo resti fuori da quel luogo-non luogo, uno spazio sconfinato dove non esistono relazioni sociali immediate e sincere (neanche a letto tra amanti), in cui chi chiede aiuto viene scansato nell’indifferenza generale da chi cammina per strada isolato da una coppia di auricolari, in cui i mendicanti sono talmente tanti da essere invisibili.
Stoccolma ci appare come una città “assurda”, forse anche più di quelle stesse mostre di arte moderna, in cui artisti improbabili trovano spazio per le loro esibizioni. Una città piena di immigrati dai capelli “scuri”, ignorati e non integrati, relegati ad abitare lontano dai luoghi dell’arte e a dormire sui marciapiedi.
Il protagonista, Adrian, magnificamente interpretato da Claes Bang (bello e insensibile) davvero meglio non potrebbe rappresentare l’uomo moderno, elegante e affermato ma che vive profondi disagi esistenziali, a partire dai più semplici rapporti quotidiani. Il regista ci porta ad interrogarci su un mucchio di cose, trascinandoci in questa realtà surreale che, metaforicamente, rappresenta proprio noi ma anche mettendoci in guardia sulla possibilità che potrebbe accadere l’imprevedibile, che la situazione, pur se controllata e monitorata, potrebbe sfuggirci di mano, che stiamo andando verso l’annullamento delle emozioni a vantaggio delle “ condivisioni” sul web e sui social per approvare o disapprovare un fatto, un gesto, un evento culturale. Siamo tutti, chi più chi meno, prigionieri dei like e/o dislike che fanno da cassa di risonanza ai nostri successi personali ma anche ai nostri fallimenti.
Si esce turbati da questa realtà urticante tra riprese e inquadrature un po’ alla Stanley Kubrick, ma consapevoli che questo film è, a suo modo, indimenticabile!
Per pochi volenterosi e amanti del paradosso.
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