(Gaetano Perricone) Il video che vi propone il Vulcanico è di quelli che fanno storcere il muso: parleremo, con l’ausilio di una ricostruzione dettagliata e scrupolosa dell’amico Mario Mattia dell’Ingv Osservatorio Etneo di Catania, delle deviazioni di lava sull’Etna, un argomento che per una serie di ovvie ragioni ha sempre profondamente diviso favorevoli e contrari e, come bene racconta Mario nel suo eccellente articolo, suscitato grandi polemiche. Io dico chiaramente che faccio parte della schiera dei contrari: la mia è una posizione “ideologica”, non mi piace e mai mi è piaciuta l’idea che l’uomo possa cambiare il corso degli eventi naturali, tra l’altro nel caso specifico per proteggere un luogo e una popolazione in pericolo, mettendo a rischio un altro luogo e un’altra popolazione. Ma, da vecchio giornalista, sono un cultore della memoria storica e soprattutto dei documenti preziosi e significativi, come è certamente l’affascinante, finora inedito film sulla deviazione del 1983 (considerata il primo vero tentativo di deviazione del flusso lavico), realizzato da  Francois “Fanfan” Leguern, leggendario studioso francese di vulcani del mondo, profondo conoscitore anche dell’Etna insieme al mitico connazionale Haroun Tazieff. Un documentario di grande interesse, che lo stesso Fanfan lascio a Mario Mattia in occasione del loro ultimo incontro a Catania nel 2009, due anni prima della sua morte, e che riteniamo possa essere uno strumento di importante conoscenza per gli appassionati, utile anche per gli addetti ai lavori.

di Mario Mattia *

MARIO MATTIA

“Si lasci che la il fuoco vada dove destinato dalla Provvidenza”

Questa fu la sentenza emessa dalle autorità spagnole quando, nel 1669, si accese una vera e propria battaglia tra un gruppo di cittadini catanesi che, coperti con pelli bagnate e armati di pale e picconi, tentavano di erigere barriere che impedissero al flusso lavico di quella tremenda eruzione di raggiungere la loro città e un altrettanto nutrito gruppo di cittadini di Paternò che temeva che quella deviazione potesse far sommergere dai “fuochi” il loro paese. Da allora in poi, il dibattito sulle deviazioni dei flussi lavici è sempre stato condizionato da due fattori: da un lato l’idea che deviare la lava dal suo naturale percorso fosse sinonimo di sacrilegio nei confronti della volontà divina, dall’altro il timore per le conseguenze legali che una deviazione comporterebbe per i responsabili di una simile scelta, con tutto il seguito di cause di risarcimento da parte di chi fosse eventualmente danneggiato dal “nuovo” tragitto del magma.

Di fatto un “impasse” che ha bloccato qualunque sia pur timido tentativo di alterare il corso degli eventi vulcanici etnei. Nel 1928, allorché il paese di Mascali fu travolto da un impetuoso e veloce flusso lavico, non ci fu nemmeno il tempo di pensare ad un simile intervento perché tra l’apertura della frattura eruttiva alle Ripe della Naca (notte tra 4 e il 5 novembre 1928) e l’ingresso della lava nell’ambito comunale della cittadina ionica, passarono solo tre giorni. Nel 1950, quando una imponente eruzione minacciò Milo e Fornazzo, sui giornali si tornò a parlare di bombardamenti del flusso per causarne la deviazione, ma non se ne fece nulla per via delle insormontabili difficoltà tecniche. Nel 1971 qualcosa fu tentato dagli operatori turistici a protezione delle stazioni della funivia. In quella occasione delle piccole barriere in terra effettivamente mostrarono una loro efficacia nel bloccare, almeno parzialmente, il flusso lavico. E’ da sottolineare che questi interventi erano da considerarsi abusivi, perché svolti senza autorizzazione alcuna da parte delle autorità.

Bisognerà aspettare il 1983 per vedere il primo vero tentativo di deviazione e per studiare gli aspetti tecnici e valutare l’efficacia di un intervento di deviazione dei flussi lavici all’Etna. Quell’eruzione cominciò il 27 marzo 1983. Era una domenica di inizio primavera e quando il Prof. Mario Cosentino, per puro caso, andò nel suo ufficio accanto alla sala dove si trovavano i “tamburi” che registravano i segnali della rete sismica dell’Etna (allora se ne occupava l’Università di Catania) si mise letteralmente le mani ai capelli. Decine e decine di eventi sismici da fratturazione stavano interessando il fianco meridionale del vulcano. Il tremore era schizzato in poche ore a livelli impressionanti. Non c’era dubbio, una nuova eruzione stava iniziando. Quei terremoti indicavano l’apertura di una frattura eruttiva. E quella frattura fu visibile a tutti la mattina del 28 marzo. Era lunga tre chilometri e si estendeva dalla zona sommitale meridionale (circa 2950 asl) fino a quota 2300 asl. La lava veniva emessa dalla sua terminazione inferiore con una portata di circa 50 metri cubi al secondo e avanzava ad una velocità di circa 70 metri l’ora. Per fortuna questi valori, nei mesi successivi, si abbassarono notevolmente e tuttavia stiamo parlando di una grande eruzione che, conti alla mano, nei suoi 132 giorni di durata, ha prodotto qualcosa come 79 milioni di metri cubi di lava ed ha ricoperto una superficie stimabile in 6 chilometri quadrati.

Una grande eruzione, dunque, che preoccupò non poco gli abitanti di Nicolosi, Belpasso e Ragalna allorché, verso la fine dell’aprile 1983, il fronte lavico si trovava a soli 2.4 Km dal paese di Ragalna e minacciava da vicino anche gli altri due. La pressione da parte degli amministratori e degli abitanti di questi paesi ebbe un gran peso nella decisione che fu presa dall’allora Ministro per la Protezione Civile, Loris Fortuna dopo che la Commissione Grandi Rischi valutò come fattibile un intervento di deviazione della colata. L’idea era molto semplice: ridurre l’afflusso di lava calda che, attraverso il ben noto fenomeno dell’ingrottamento, riusciva ad arrivare fino alla sua punta più avanzata con ancora molta capacità di fluire e dunque di raggiungere velocità di avanzamento elevate. Per diminuire l’apporto di lava, era necessario far crollare l’argine che conteneva il fiume lavico nei pressi delle bocche di emissione e, in questo modo si sarebbe avuto il duplice vantaggio di una diminuzione della velocità di avanzamento e la sovrapposizione delle colate al fronte, per via dell’aumento di viscosità legato al raffreddamento indotto proprio dal minore afflusso di nuova lava.

L’intervento fu progettato da alcuni vulcanologi italiani (Villari, Barberi) supportati da esperti di esplosivi svedesi (Abersten, Gustaffsson). Molte furono le voci che si opposero alla deviazione. Tra loro alcuni vulcanologi e geofisici catanesi e molti ambientalisti. Ma la decisione fu presa e il 14 maggio 1983, dopo una infinita serie di problemi tecnici legati all’uso di esplosivi in una zona estremamente calda come l’argine di un fiume lavico, alle 4 di notte il “botto” fece saltare il famoso argine di uno dei due bracci dell’eruzione, quello che minacciava i paesi etnei. Sugli effetti di questo intervento si è aperto un dibattito scientifico dove il fronte dei favorevoli e dei contrari, essenzialmente, si ripropone uguale a se stesso nell’indicare il tentativo come fallimentare o parzialmente riuscito.  Corre obbligo, però, ricordare che per quella deviazione lo Stato fu chiamato a risarcire alcune comunità religiose che ebbero distrutti alcuni insediamenti di loro proprietà. In quel caso, però, la responsabilità non fu da attribuire all’intervento di distruzione dell’argine, quanto alla realizzazione di una barriera in terra a difesa della zona di Piano Vetore.

Etna 1993, foto Cataniaperte.it
Etna 1993, foto Cataniaperte.it

Il copione dell’eruzione 1991-93 non è molto differente, almeno per quanto riguarda il contesto che portò alla scelta di operare una deviazione del flusso di lava. L’eruzione, lo ricordiamo, cominciò il 14 dicembre 1991 da una frattura posta sotto il cratere di Sud Est. Al solito, la frattura si propagò accompagnata da una sequenza di terremoti legati al processo intrusivo, e la bocca principale di emissione della lava si posizionò nella parte terminale di questa frattura, nella parete occidentale della Valle del Bove. Una simulazione fatta dal collega Gianni Macedonio dell’Osservatorio Vesuviano, accertò che il paese di Zafferana si trovava sulla possibile direzione di flusso, nonostante fosse distante 9 Km dalla bocca eruttiva. Immediatamente si pensò a come evitare una simile evenienza e una barriera di terra lunga 234 metri e alta 21 metri fu iniziata il primo gennaio 1992. La barriera fu terminata dopo dieci giorni di febbrile lavoro e fu raggiunta dalla lava il 14 marzo 1992. La lava si accumulò alla base della barriera e riuscì a superarla solo il 10 aprile 1992. Tra il 10 e il 14 aprile furono costruite altre tre barriere per ritardare ulteriormente l’avanzata della lava. Il 10 aprile fu ufficialmente dichiarato lo stato di emergenza e il piano di evacuazione della periferia di Zafferana fu preparato. Contestualmente, fu autorizzato un ulteriore tentativo di deviazione intervenendo sull’alimentazione del flusso lavico. Sulla base dell’esperienza maturata, il coordinatore degli interventi, Prof. F. Barberi, scelse un sito a quota 2000, a 8 Km da Zafferana, in una zona inaccessibile se non per mezzo di elicotteri. Inizialmente si provò a ostruire i canali di scorrimento per mezzo di grossi blocchi di cemento e enormi pezzi di roccia presa dagli argini della colata, ma anche questo intervento si rivelò di breve respiro e, due settimane dopo, la lava riprese a minacciare Zafferana.  L’ultima risorsa era, anche stavolta, un intervento di deviazione “violenta”, ovvero per mezzo di 7000 Kg di esplosivo. Il “botto” avvenne il 27 Maggio 1992 e il risultato fu che 2/3 del flusso lavico tracimarono nel nuovo canale. Il completamento dell’opera di diversione fu ottenuto per mezzo del lancio di 230 metri cubi di blocchi di roccia lavica, allo scopo di rallentare ulteriormente il residuo flusso. L’avanzata della lava si arrestò in prossimità del fronte più avanzato e arretrò fino a 6-7 Km di distanza dal paese di Zafferana. Dal mese di giugno in poi, la portata effusiva si dimezzò e per i successivi dieci mesi di durata dell’eruzione, il flusso non destò ulteriori preoccupazioni. Successive simulazioni dimostrarono che, in assenza degli interventi, la lava avrebbe raggiunto Zafferana.

Altri interventi a salvaguardia della zona del Rifugio Sapienza furono operati anche nel 2001 e nel 2002, ma quelli del 1983 e del 1992 restano certamente i più imponenti e quelli su cui più rovente è stata la polemica tra sostenitori e detrattori.

E oggi cosa resta di quelle esperienze? Non molto. Le competenze maturate in quegli episodi non hanno avuto un seguito scientifico e pochissimi (cito il collega dell’Osservatorio Etneo INGV Mauro Coltelli) hanno continuato a fare ricerca tecnologica sui mezzi idonei ad effettuare sbarramenti per ostacolare flussi lavici. Inoltre, le polemiche ancora oggi sono molto accese e i contrari a quegli interventi continuano a dipingerli come perfettamente inutili, se non dannosi.

Purtroppo l’esperienza ci insegna che, se si dovesse ripetere il malaugurato caso di una grande eruzione in grado di minacciare da vicino zone abitate e proprietà private, l’eterno dibattito avrebbe una nuova impennata. Con la differenza che la società contemporanea estremamente “mediatica” potrebbe solo amplificare enormemente l’isteria collettiva che si manifesta in queste occasioni e, probabilmente, si arriverebbe ad una nuova decisione “interventista”. Anche per questo, da ricercatore, mi auguro che in ogni caso si proseguano le ricerche finalizzate alla diversione dei flussi lavici. Perché l’improvvisazione e le decisioni dettate dalla fretta e sotto la pressione sono quasi sempre foriere di danni e inutili rischi.

*Primo Tecnologo INGV Osservatorio Etneo (Catania)

Nota: in homepage, il bellissimo quadro di Renato Guttuso “Fuga dall’Etna”, 1940

 

 

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