di Antonella De Francesco
Siamo a New York, è il 1939 e il Café Society è pieno di persone e di fumo. Tre sere a settimana Billie Holiday sale sul palco. Intrattiene il pubblico con la sua voce suadente in uno dei pochi locali in cui neri e bianchi possono sedersi accanto .
Una sera però fredda tutti con il brano Strange Fruit, scritto da un autore ebreo americano di sinistra di nome Abel Meeropol e che parla di un linciaggio. Quello è il primo grido di protesta di una cantante Jazz contro il dilagare del razzismo. Da lì in poi non avrà vita facile quest’artista bella e tormentata che ha subito violenza, anche privata, per tutta la vita sin dall’infanzia. Lady Day, sfruttata dagli agenti e dai suoi stessi mariti, è talmente sottomessa e rassegnata alla violenza domestica, da non essere neanche in grado di vivere l’amore vero offertole dal federale Jimmy Fletcher.
Il film Gli Stati Uniti contro Billie Holiday rivela il grande vuoto che l’anima nera di Billie non riesce a colmare, se non facendo uso di eroina e al tempo stesso, la forza con cui questa donna sul palco, sotto i riflettori, non smise mai di levare il suo canto, per ricordare al mondo bianco quanti neri venivano uccisi senza ragione. Bravissima la protagonista, la cantante Andra Day, che non è soltanto fisicamente simile al suo personaggio, ma riesce a immedesimarsi completamente in lei anche quando canta. La sua esecuzione dei capolavori di Billie lascia a bocca aperta.
Positivo quindi il giudizio sul film del regista Lee Daniels (un nuovo esordiente Spike Lee?), che serve anche a non dimenticare che le Democrazie odierne non hanno sempre origini “nobili” e ancora oggi il razzismo negli Stati Uniti è considerato “sistemico”, cioè istituzionalizzato e i pestaggi restano ancora molto diffusi .
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