di Gaetano Perricone
E’ sempre molto affascinante rivisitare gli antichi mestieri, fondamentali per la vita quotidiana e l’economia dei tempi passati, rivivendoli attraverso il racconto dei protagonisti.
E infatti sono rimasto molto affascinato – e con me ancora di più il mio nipotino Andrea – dal breve, ma intenso incontro domenicale con il signor Orazio Cavallaro, carbonaio e boscaiolo da oltre 45 anni, originario di Pedara, uomo della Muntagna di carismatica semplicità, di quelli che riescono a raccontare una vita di grande e silenzioso lavoro nei boschi attraverso le rughe che solcano il suo volto di uomo d’altri tempi. Ha 67 anni, Orazio, tre soli più di me, ma sembra molto più grande: guardandolo, percepisco più che mai la differenza tra il mio lavoro alla scrivania e il faticoso impegno della sua quotidianità.
Ci siamo visti in un luogo che più bello non potrebbe essere: la radura sulla fossa vulcanica di Serra La Nave, a quota 1700 metri sul versante sud dell’Etna, in quello che da qualche anno è il meraviglioso Parco EtnAvventura, il più alto d’Italia in mezzo a una natura straordinaria, punto di riferimento, di gioco e di gioia per bambini e ragazzi, ma anche per adulti che vogliono sprigionare in piano il Peter Pan che hanno dentro, oppure godersi come me la bellezza mozzafiato e il magnifico clima di questo posto. Mi ha invitato la mia carissima amica Sara Fraterrigo, che insieme all’altrettanto caro marito Giovanni Sciacca gestisce EtnAvventura con passione, entusiasmo, competenza, amore per la natura. Mi ha scritto: “Gaetano, vieni a vedere come si prepara u fussuni, è una rarità. So che ti piace e mi piacerebbe che lo raccontassi. E’ un’iniziativa a scopo didattico e divulgativo”. Una delle tante aggiungo io, tutte accattivanti e divertenti, che Sara e i suoi collaboratori organizzano spesso.
Detto fatto, debbo dire con molta soddisfazione, amplificata dalla meravigliosa frescura che abbiamo trovato a Serra La Nave a fronte del caldo infernale di questo rovente inizio di agosto 2020. Ho conosciuto il mitico carbonaio Orazio, che ci ha accolto con il bellissimo sorriso di chi è orgoglioso del suo vecchio mestiere, ricco di tradizione, ma soprattutto prezioso. In due giorni aveva finito di preparare u fussuni, da cui si ricavava e si ricava ancora il carbone, come raccontano i miei scatti, mentre per la descrizione dettagliata dell’attività pubblicherò a seguire un testo che ho trovato molto chiaro e istruttivo da un link del sito della Regione, dove vengono citati e spiegati i termini dialettali che corrispondono alle varie fasi di questa attività.
Poche le parole di Orazio Cavallaro, ma incisive e significative: “Faccio questo lavoro da tanti anni e mi piace ancora molto, mi piace farlo conoscere – racconta – E’ un lavoro che ha consentito a tanti giovani di guadagnare qualcosa per potere studiare. Sull’Etna si fanno ancora parecchi fussuni”. Ci illustra con molta semplicità, usando ogni tanto i termini della vecchia tradizione, i passaggi che portano al fussuni: il taglio della legna dagli alberi, una volta con le asce, oggi con la motosega; l’accatastamento dei pezzi e pezzetti di legno in forma di cupola arrotondata in cima; la predisposizione del foro alla base, collegato con un cunicolo, una sorta di camera d’aria, al cuore della carbonaia; la copertura, “muratura” del fussuni con foglie e toppe fatte di terra; infine si provvede a “cociri u fussuni” con l’inserimento attraverso il foro di rametti di legna accesa per innescare la combustione, che con il passare dei giorni e la rialimentazione del fussuni con nuovi tronchetti (a sostituire quelli già arsi) porta alla produzione del carbone.
Apprendo da Orazio termini dialettali curiosi, per me del tutto sconosciuti: ginisi, la terra bruciata, da cui ginisari u fussuni. gettarvi sopra appunto la terra bruciata. Passaggio molto importante, questo della predisposizione della terra attorno e sopra la catasta, ci spiega il carbonaio, evidentemente felice di avere potuto raccontare quello che fa da tanti anni sull’Etna. Il nostro incontro finisce con l’appuntamento per i prossimi fussuni a EtnAvventura.
Ma ecco la descrizione dettagliata, con i termini dialettali, di questa fascinosa attività.
FONTE:
La preparazione del fussuni
Avendo cura di risparmiare le piante più giovani e vive, capaci di ricostruire il bosco, il taglio degli alberi avveniva un tempo per mezzo di asce (‘ccetti, ‘ccittuni), sirruni e runculi, oggi in molta parte dei casi sostituiti da motoseghe, che permettono una notevole riduzione dei tempi e della fatica. Le piante abbattute venivano sfrondate e il fusto tagliato in pezzi di circa un metro di lunghezza. Lo stesso si faceva per i rami, riducendoli in piccola pezzatura qualora si fossero presentati storti. Si ottenevano dunque pezzi ruòssi e curciùma (curtùma).
Arrutari u fussuni
Lo spazio deputato per la combustione si puliva in precedenza per mezzo di zappuni, sciamarru, rastiedru e si iniziava l’operazione di costruzione del fussuni (arrutari u fussuni).
Si trattava di ottenere una catasta a forma di cupola in cui attorno a un nocciolo (civata) fatto di legna secca o carbone mal cotto (marruna), si iniziava a disporre i materiali a partire dal centro verso l’esterno (e verso l’alto) sempre con disposizione verticale.
‘Ncurtumari u fussuni
L’utilizzazione successiva dei pezzi di piccolo taglio permetteva di conferire la forma sferica al mucchio (‘ncurtumari u fussuni).
Alla base si lasciava un foro (‘a porta) collegato con un cunicolo al cuore della carbonaia; dal centro, fino all’apice (u cricchju), la collocazione di legni più piccoli e secchi avrebbe permesso una più diffusa combustione e il ricambio di legna che si fosse in seguito reso necessario.
Murari u fussuni
La fase successiva consisteva nel ricoprire il tutto (murari, ntufunari u fussuni) con foglie e toppe di terra; il trasporto avveniva per mezzo della cartiedra (cartedda, cufinu), e la collocazione sulla sommità grazie a una scaletta in legno. Al termine l’insieme veniva battuto e reso compatto con un magghiu.
Cociri u fussuni
La mattina si dava fuoco al fussuni attraverso l’inserimento nel cunicolo predisposto di un mazzo di rametti accesi, spinto con una forcella in modo che si innescasse la combustione nella civata.
L’emissione di fumo era segnale della ‘presa’, e dunque venivano chiuse le aperture da’ purtedda e du’ cricchju.
Durante i primi giorni, il carbonaio provvedeva a praticare fori diversamente disposti sulla superficie terrosa, per verificare attraverso la fuoriuscita dei fumi l’omogeneità della combustione o per permettere, attraverso il dislocato tiraggio e la degassazione, una corretta propagazione del fuoco all’interno della carbonaia.
Ginisari u fussuni
Ogni ventiquattro ore e per tre, quattro giorni il carbonaio scopriva la sommità per calare all’interno del fussuni nuovi tronchetti in maniera da rimpiazzare la legna già arsa.
La perdita di volume che si andava verificando col tempo, richiedeva una ciclica sistemazione e battitura della terra per mezzo del rastiedru e del magghju. L’operazione veniva detta ‘ginisari u’ fussuni’ perché si trattava di ridistribuire su esso la terra ormai bruciata, detta appunto ginisi.
Sfussari u fussuni
Dopo otto, dieci giorni la cottura si poteva dire completata e il carbonaio ne decideva l’interruzione, riconoscendone l’opportunità dal volume ridotto, dal colore, dalla densità e dall’odore del fumo.
Venivano chiuse tutte le fessure e fatto spegnere il nucleo; l’indomani si buttava acqua dall’apice e, a raffreddamento quasi completo, si iniziava a ‘sfussari’. Con movimenti lenti ma decisi si rimuoveva u ginisi, e per mezzo di furculi e cartiedra veniva prelevato il carbone che presentava, se l’operazione era perfettamente riuscita, tizzoni che avevano la stessa pezzatura del legno di origine, notevole leggerezza e suono argentino. Il prodotto veniva insaccato secondo pezzatura e contenuto in sacchi di juta legati con spago alla sommità, pronto per essere trasportato e venduto.
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