di Santo Scalia
La Valle del Bue (così era nota almeno fino ai tempi di Sartorius), o del Bove, è una delle principali evidenze morfologiche del versante orientale dell’Etna. E’ un’ampia depressione, vagamente a forma di ferro di cavallo, di circa 6 chilometri per 5 (a seconda di dove si decide di effettuare la misura) delimitata a nord e a sud dalla Serra delle Concazze e da quella del Salifizio, e ad occidente dalla ripida parete che a sua volta è sovrastata dai crateri del vulcano. Dal lato orientale invece la valle degrada verso i paesi pedemontani e la costa del mare Ionio.
Ma non è della descrizione e dell’origine della Valle del Bove che voglio raccontare, quanto piuttosto di come essa era fino a quasi trent’anni fa, fino alla grande eruzione del 1991-93. Quest’eruzione infatti, iniziata il 14 dicembre del 1991, si protrasse per 472 giorni, fino al 30 marzo del 1993 (la più lunga del XX secolo). Data l’enorme quantità di lave emesse – la più grande per una eruzione laterale, a partire dall’eruzione del 1669 – ha cambiato radicalmente l’aspetto della Valle, ricoprendone tutta l’area meridionale con uno spesso strato di lave.
La Valle del Bove è tutt’ora meta di numerosissime escursioni, e forse ancor di più lo era quando il suo fondo non era ancora una brulla e sterminata distesa di nere lave, ma una splendida sorta di “savana” ricchissima di vegetazione, con gramineti, arbusti di ginestra, astragali e, in prossimità dei costoni, faggi.
Allora, così come anche ora, si era soliti accedere alla Valle per vari percorsi: dalla Val Calanna, aggirando a settentrione l’omonimo Monte, dal Canalone dell’Acqua, che si diparte dalla Serra del Salifizio, o attraverso il Canalone della Rina, il più scenografico ed entusiasmante: partendo dal piede orientale della Montagnola, a circa 2500 metri, in pochi minuti, saltellando e quasi surfando sulla sabbia nera, si raggiungeva il fondo della Valle, lì alla quota di circa 1650 metri.
Lo spettacolo durante la discesa era, ed è ancora, unico: uno scivolo interminabile di sabbia nera e tutto intorno dicchi basaltici, ciascuno testimonianza di una intrusione di magma, poi solidificatosi, ed infine messo a nudo dall’erosione meteorica.
Alla fine della discesa, sulla destra, ci si trovava difronte ad un’imponente formazione di roccia, detta il Castello del Trifoglietto: “castello” per il suo aspetto turrito, “del Trifoglietto” perché questo è il nome del pianoro che costituisce l’angolo sud-occidentale della , e che deriva da un antichissimo omonimo centro eruttivo.
Già da lì si vedevano i ruderi del Rifugio Gino Menza, il casolare dei pastori, i maestosi faggi e il Poggio Canfareddi – conosciuto dai frequentatori anche col nome “Isolabella” – un rilievo alto una cinquantina di metri, prossimo al costone della Serra meridionale. Tutto ciò oggi è scomparso.
La frescura dei faggi era la desiderata meta per uno spuntino, per un breve riposo, oppure per preparare un bivacco notturno. Sì, pernottare nel cuore della Valle del Bove è stata per me una esperienza che non dimenticherò: aspettare la scomparsa del sole (che, data l’alta mole del vulcano, più di mille metri più su, avveniva nelle prime ore del pomeriggio) e poi, nel silenzio quasi assoluto, attendere la prime stelle ed infine il buio della notte: sono ricordi indelebili. Poi, distesi in posizione supina, ascoltando il suono ritmato dell’assiolo, ripercorrendo con lo sguardo le costellazioni nel cielo perfettamente nero e tutte le loro stelle, fino alla sesta magnitudine… e dopo un breve sonno, l’alba!
Riprendendo il cammino verso la Val Calanna, per poi raggiungere Zafferana, si incontrava la Croce Menza, proprio sotto il Monte Zoccolaro. Segnava il luogo dove lo sventurato Gino Menza perse la vita nel gennaio del 1925, tentando di scalare un canalone ghiacciato. Anche questo monumento, così come il rifugio, che per quasi settant’anni hanno tenuto vivo il nome di Gino, è scomparso nel corso dell’eruzione del ’91-’93.
Ed ecco il teatro dell’eruzione: nella mia foto, dei primi mesi del 1992, si vede la bocca sulla parete e le lave che invadono la Valle.
Per finire, mi piace ricordare ancora una volta il Rifugio Menza, che nonostante allora non fosse più attivo, era comunque una meta ed un riferimento all’interno della Valle.
Con Lo ricordo con una foto presa nei suoi ultimi giorni. La sua distruzione, in seguito ai vari esperimenti per deviare le colate, si può vedere nella fotogallery, con tre istantanee tratte da un servizio televisivo Rai dell’amico Giovanni Tomarchio.
Con il titolo: Valle del Bove, nel canalone della Rina. Foto di Santo Scalia
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