di Santo Scalia
Prima che si chiuda quest’anno 2019, anno nel corso del quale ricorre il 350° anniversario della grande eruzione dell’Etna del 1669, voglio scrivere di una poco conosciuta testimonianza, scritta dall’Arcidiacono Don Valentino Bonadies e inviata all’allora Vicario Generale di Girgenti Canonico D. Francesco Babillonia.
Valentino Bonadies – della Terra di Sambuca – nipote del più conosciuto Michelangelo Bonadies (nato anch’egli a Sambuca, divenuto poi Vescovo di Catania, nonché Conte di Mascali, Consigliere Regio e Gran Cancelliere dell’Università della stessa Città), fu suo collaboratore nel Governo della Diocesi.
Valentino morì ancora giovane nella stessa Città di Catania il 27 settembre 1685, un anno prima dell’Eccellentissimo zio: il Vescovo infatti, dopo un lungo ed operoso Governo Episcopale, morì il giorno 27 agosto 1686 e venne seppellito nella vecchia Chiesa Cattedrale della Città.
Proprio in occasione del 350° anniversario della grande eruzione dell’Etna ho ritrovato nella mia biblioteca, e riletto con vero interesse, una vecchia pubblicazione del 1905, scritta dal Prof. Sebastiano Crinò ad Agrigento (allora Girgenti) nell’ottobre del 1904 ed indirizzata al chiarissimo Cavaliere Dottor Giuseppe Lodi, Primo Archivista di Stato ed in quel periodo Segretario generale della Società Siciliana per la Storia Patria. La lettera, pubblicata a Palermo anche come fascicolo a sé stante (dalla Scuola Tipografica Boccone del Povero), è un estratto dall’Archivio Storico Siciliano, N.S. [Nuova Serie, n.d.a.] anno XXX, fascicolo I, ed ha come titolo Un nuovo documento sull’eruzione dell’Etna del 1669 (Lettera di P. Valentino Bonadies).
Quando ci si riferisce alla grande eruzione dell’Etna del 1669 si ricordano sempre le cronache di Carlo Mancino, di Francesco Morabito, di Tomaso Tedeschi e di Alfonso Borelli. Di queste, la Narrativa del fuoco uscito da Mongibello del “notaro” Carlo Mancino riporta gli eventi accaduti fino al 26 giugno; il Breve Raguaglio degl’incendi di Mongibello del Tedeschi è datato al 17 agosto (ricordiamo che l’eruzione era terminata il 15 luglio); il poema Catania Liberata del Morabito riporta la data del 17 agosto; e la Historia et meteorologia incendii ætnæi del Borelli è del 1670.
La particolarità della lettera di cui ci parla il Crinò sta nel fatto che la stessa fu scritta dal Bonadies il 2 di aprile, mentre l’eruzione era in corso (era iniziata l’undici di marzo, giorno di apparizione delle prime lave presso Nicolosi, preceduta già dall’otto da continui terremoti) e mentre la Città di Catania era sotto la seria minaccia di invasione da parte delle colate di lava che si avvicinavano alle sue mura.
Inoltre, come scrive Crinò, «[…] in nessuna di queste memorie [precedenti n.d.r.] si vede rivelato lo stato psichico degli abitanti con tanta vivacità e forza di espressione come nella seguente lettera che P. Valentino Bonadies inviava al Vicario Generale di Girgenti, per informarlo di quanto accadeva in Catania in quei giorni di tremenda minaccia e di orribile distruzione».
L’autore della pubblicazione ricorda inoltre che solo cinque anni prima, nel 1899, egli aveva avuto modo di ammirare l’affresco presente nella Sacrestia della Cattedrale di Catania (opera di Giacinto Platania) e che, osservandone i particolari, avesse esclamato: «Ecco la più bella pagina della famosa eruzione dell’Etna del 1669, che nessuno storico ci ha saputo tramandare». Subito dopo Crinò aggiunge ancora «A tale affresco ricorse subito la mia mente quando nel mese scorso mi fu dato rinvenire […] la copia d’un documento tuttora ignoto, scritto il 2 Aprile di detto anno. […] Potrebbe dirsi ch’essa sia l’illustrazione del suaccennato affresco».
Crinò riporta allora le parole del Bonadies, che riferendo gli avvenimenti a partire dal giorno otto di marzo, descriveva l’avvenuta distruzione di tre Casali già il giorno dodici. Inoltre «I stridi miserabili apportavano orrore, non meno per vedere i beni dissipati dal fuoco, ma anche portati via dalle rapine, che però vi furono che cascarono feriti e morti in pena de’ loro ladronecci.»
Seguono le descrizioni delle varie processioni delle reliquie del «braccio della gloriosa S. Agata», nonché «del Sacro Velo che dalla Chiesa Catredale [sic] fu portato da Monsignor coronato di Spine, con paramenti sacri vestito. Viddesi anco il Senato, e Capitolo con volto penitente, coronati pure di spine». E ogni qual volta le reliquie venivano avvicinate al torrente di fuoco… « … il fuoco non passar più innanti. […] Alla vista del Sacro Velo [il fuoco] si fermò, si seccò ed impetrì in modo che molti come beffandosene vi saltarono sopra».
In questa battaglia tra sacre reliquie e correnti laviche, registrando di volta in volta effimere vittorie e improvvise sconfitte, uscirono oltre al citato Braccio, al portentoso Velo, anche la Mammella della Martire, ed il Santissimo Chiodo custodito nel Monastero dei Padri Benedettini. Finanche il Corpo della gloriosa S. Agata «fu uscito […] e posto su l’Altar maggiore per tutto il giorno [domenica diciassette, n.d.r.]».
Questa lotta tra poteri della Religione e poteri della Natura si protrasse per tutto il mese; ma il giorno ventinove, dopo aver distrutto il paese di “Mister Bianco” «[…] una lingua di fuoco s’è avanzata verso Catania, dove l’havemo a vista meno di due miglia», e di conseguenza «[…] lascio considerare a V. S. Rev.ma l’afflittione, confusione, e terrore con che si sta nella Città…». Per chi, come lo stesso Valentino Bonadies, si trovava dentro la città minacciata, cominciarono a prendere corpo terribili timori, anche se mitigati dalle speranze scaturite dalla fede: «[…] saremo forzati uscir tutti; ancor che speramo nella gloriosa S. Agata che ce ne libererà».
Quattro giorni dopo, proprio il due aprile, giorno in cui fu scritta la lettera al Vicario Generale di Girgenti, le speranze cominciano ad affievolirsi: «A due di Aprile benché questa notte si fosse sparsa diceria che il fuoco era quasi cessato; […] però questa mattina continuano l’istessi avvisi, che il fuoco seguiti l’istesso cammino, benché adesso diviso in tre lingue». Bonadies conclude la sua cronaca ricordando come i cittadini abbiano portato fuori dalla città i beni trasportabili, come i Monasteri abbiano ricevuto ordine di imballare le loro cose e si tengano pronti perché, a nuovo ordine, «si possano trasportare in laci, dove pure Monsignore ha intentione di ritirarsi e di trasferire ancora le Moniali Claustrate».
Il due di aprile del 1669 è l’ultimo giorno descritto nella lettera. Le ultime parole scritte al Vicario lasciano trasparire tristezza e rassegnazione: «Il caso è tanto lacrimabile che non può né esplicarsi, né pensarsi. Siamo nelle mani di Dio; e quanto s’è scritto, s’è fatto con lagrime».
Sappiamo tutti come è andata a finire: Catania non fu totalmente distrutta, le mura che la circondavano riuscirono, con anche qualche intervento umano, a trattenere e deviare il flusso lavico; certamente comunque i danni alle campagne, alla viabilità, agli stessi immobili furono notevoli; la linea di costa, grazie alle lave che si inoltrarono in mare, fu spostata di quasi un chilometro. La città, superato il comprensibile smarrimento, tornò a vivere: Saint-Non ci ha dato una visione di Catania, con l’immancabile presenza del vulcano sullo sfondo, animata di persone e mezzi di trasporto, con finanche i panni stesi ad asciugare al calore emanato ancora della sciara ormai ferma.
Con il titolo: incisione su rame tratta da Description de l’Univers di Allain Manesson Mallet (particolare) – 1683 (Collezione personale)
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