di Santo Scalia
Nel lontano 1976, il giornalista Pietro Nicolosi – che si occupava, tra l’altro, della cronaca etnea sul quotidiano catanese La Sicilia – scrisse un articolo dal titolo Sette secoli fa la fama dell’Etna arrivò in Cina.
Nicolosi, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente ed incontrare più volte presso la redazione del citato quotidiano, è stato anche autore dell’interessante volumetto dal titolo Etna, storia di un vulcano, pubblicato dall’editore Tringale subito dopo la fine dell’eruzione dell’Etna del 1983.
Il giornalista riportava le notizie scritte nel 1225 da tale Chao Ju-Kua – ispettore del commercio marittimo del porto di Ch’uan Chou durante il periodo della dinastia Song – nel trattato dal titolo Chu Fan Chih, ovvero la Descrizione dei popoli barbari.
Forse è inutile ricordare l’accezione del termine “barbaro”, che etimologicamente ha un valore un po’ diverso dal significato pesantemente dispregiativo oggi spesso attribuitogli: infatti barbaro (dal greco βάρβαρος, da cui il latino barbărus), è sinonimo di straniero, cioè «chiunque non fosse greco o romano». Per Chao Ju-Kua, cinese, quindi, i popoli barbari potrebbero forse non essere altro che quelli diversi dai popoli sinici.
Di recente, rispolverando vecchie raccolte di ritagli di giornali, ho ritrovato l’articolo di quasi mezzo secolo fa: la rilettura della traduzione riportata da Pietro Nicolosi mi ha invogliato a ricercarne le fonti.
Il testo riportato dal quotidiano è il seguente: «Il paese di Ssi-Kia-li-ye è vicino ai confini della terra di Lu-mei. E’ un’isola nel mare, larga un migliaio di miglia. Le vesti, i costumi e la lingua sono quelli di Lu-mei. In questo paese c’è una montagna con una caverna molto profonda. Nelle quattro stagioni, ne esce un fuoco. Visto da lontano, di mattina sembra fumo, di sera, fiamma; osservato da vicino è come un fuoco fortemente rumoreggiante. La gente di questo paese porta su una pertica una grossa pietra del peso di cinquecento libbre, la getta dentro alla caverna e, quindi, dopo una esplosione, ne escono pietruzze come pietra pomice. Ogni cinque anni ne escono fuoco e pietre. Gli alberi dei boschi attraverso i quali scorrono non ne sono bruciati, mentre le pietre che incontrano sono arse in cenere».
Come vedremo nei testi riportati da altri autori, per quanto riguarda la larghezza dell’isola, viene indicato il valore di mille li; essendo un li (detto anche miglio cinese) corrispondente a circa 500 metri, la larghezza sarebbe di 500.000 metri, ovvero di 500 chilometri. Nicolosi propende per indicare il valore di “un migliaio di miglia” per indicarne la larghezza.
Nell’occidente la conoscenza del trattato di geografia etnografica e commerciale scritto da Chao Ju-Kua si deve allo studioso Leonardo Olschki (filologo italiano naturalizzato statunitense e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 1885-1961), autore anche dell’opera L’Etna nelle tradizioni orientali del Medio Evo (1959).
Altri autori hanno ripreso il lavoro di Olschki, lavoro citato da Pietro Nicolosi ma che purtroppo non sono riuscito a trovare…
Ho trovato però un lavoro del 1982 di Riccardo M. Fracasso – professore di cinese antico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, sinologo specializzato in paleografia, filologia e storia delle religioni – dal titolo Ssu-chia-li-yeh -The First Chinese Description of Sicily. In questo lavoro l’autore conferma che il trattato di Chao Ju-Kua rappresenta la prima descrizione cinese della Sicilia, e riporta il paragrafo 38, nel quale viene descritta l’isola.
«The country of Ssu-chia-li-yeh lays near the border of Lu-mei. It is an island in the sea, a thousand li in breadth. The clothes, the customs and the language are the same as those of Lu-mei. In this country there is a cave in a mountain reaching great depth; during the four seasons there is fire coming out of it. Looking from afar you may see smoke in the morning and fire in the evening; approaching it you may see a madly roaring fire. (Sometimes) the people of the country carry up with a pole a big stone, 500 or 1000 chin in weight, and throw it into the crater; after a while there is an explosion, and the stone comes out in splinters similar to the pumice stone. Once in every five years fire and stones break out flowing down to the seashore, and then go back. The trees in the woods through which (the lava stream) flows are not burned, but the stones which it meets become like ash». (“Il paese di Ssu-chia-li-yeh si trova vicino al confine di Lu-mei. È un’isola nel mare, larga mille li. Gli abiti, i costumi e la lingua sono gli stessi di Lu-mei. In questo paese c’è una grotta in una montagna che raggiunge una grande profondità; durante le quattro stagioni ne esce fuoco. Guardando da lontano potresti vedere il fumo al mattino e il fuoco la sera; avvicinandoti potresti vedere un fuoco follemente scoppiettante. (A volte) la gente del paese porta con un palo un grosso sasso, del peso di 500 o 1000 mento, e lo getta nel cratere; dopo un po’ c’è un’esplosione, e la pietra esce in schegge simili alla pietra pomice. Una volta ogni cinque anni scoppiano fuoco e pietre che scorrono giù in riva al mare, per poi tornare indietro. Gli alberi del bosco in cui scorre (il torrente lavico) non vengono bruciati, ma le pietre che incontra diventano come cenere”.
Fracasso precisa che il nome Ssu-chia-li-yeh (che, come visto, altri traslitterano in Ssi-kia-li-ye) altro non è che la descrizione fonetica del termine Siqîlîya usato dagli Arabi per indicare la Sicilia e che Lu-mei indica l’area dell’Asia Minore e dell’Impero Bizantino.
Recentemente (nel marzo di quest’anno) è stato pubblicato un articolo dal titolo A Chinese Gazetteer of Foreign Lands, a new translation of part 1 of the Zhufan zhi (traslitterazione in lingua inglese di quello che in italiano è invece Chu Fan Chih); l’autore (Shao-yun Yang, del Dipartimento di Storia presso la Denison University), riprende il lavoro di Riccardo Fracasso e riporta il testo di Chao Ju-Kua nella versione inglese, ribadendo, in una nota, che si tratta della “prima descrizione della Sicilia, anzi di qualsiasi parte d’Italia, in una fonte cinese” («This is the first description of Sicily, indeed of any part of Italy, in a Chinese source»).
Questo il testo in inglese esposto da Shao-yun Yang: «The country of Sijialiye (Sicily) is near the border of Lumei. It is an island in the sea, a thousand li across. Its clothing, customs, and spoken language are the same as those of Lumei. In this country there is a very deep cave that spews out fire in all four seasons. From afar one can see it emitting smoke in the morning and fire in the evening. When one gets closer, then one can feel how hot the flames are. Groups of people in this country use poles to carry large stones weighing five hundred to a thousand catties (700-1,400 lbs) to the mouth of the cave and throw them in. In just a short time, there is an explosion and fragments of stone fly out like pumice. Once every five years, fire flows out of the stone [of the cave], running down to the coast and then turning back. The forests that it passes through do not catch fire, but the stones that it touches burn up and become like ashes». “Il paese di Sijialiye (Sicilia) è vicino al confine di Lumei. È un’isola nel mare, mille li di diametro. I suoi abiti, costumi e lingua parlata sono gli stessi di Lumei. In questo paese c’è una grotta molto profonda che sputa fuoco in tutte e quattro le stagioni. Da lontano si vede che emette fumo al mattino e fuoco la sera. Quando ci si avvicina, si può sentire quanto sono calde le fiamme. Gruppi di persone in questo paese usano pali per trasportare grosse pietre che pesano da cinquecento a mille gatti (700-1.400 libbre) all’imboccatura della grotta e gettarle dentro. In poco tempo c’è un’esplosione e frammenti di pietra volano via come pomice. Una volta ogni cinque anni, il fuoco esce dalla pietra [della grotta], scendendo fino alla costa e poi tornando indietro. Le foreste che attraversa non prendono fuoco, ma le pietre che tocca bruciano e diventano come cenere”.
Forse, le notizie giunte in Cina quasi ottocento anni fa lasciavano un po’ a desiderare per quanto riguarda l’attendibilità: oggi viene difficile – non essendo esse, tra l’altro, confortate da altre fonti – credere all’usanza di gettare delle grosse pietre dentro il cratere…
Un’ultima considerazione va ancora fatta riguardo all’osservazione del mancato incenerimento degli alberi nei boschi: capita infatti che tronchi abbattuti dalla corrente lavica vengano da questa trasportati per lunghi tratti senza essere bruciati. Ciò è dovuto al fatto che l’aria più vicina alla superficie del flusso, a causa dei movimenti convettivi e della presenza di altri gas che si liberano dalla lava, risulti molto povera di ossigeno – il quale, come è noto – è il comburente indispensabile affinché avvenga la combustione.
Per chi avesse il piacere di accedere direttamente alle fonti ecco alcuni utili riferimenti:
Leonardo Olschki
L’Etna nelle tradizioni orientali del Medio Evo
(in Rendiconti dell’Accademia. Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, s. VIII, vol. XIV – 1959)
Pietro Nicolosi
Sette secoli fa la fama dell’Etna arrivò in Cina
(quotidiano La Sicilia – 6 giugno 1976)
Riccardo M. Fracasso
Ssu-chia-li-yeh. The First Chinese Description of Sicily
(in T’oung Pao, Second Series, Vol. 68, Livr. 4/5 (1982), pp. 248-253)
Shao-yun Yang
A Chinese Gazetteer of Foreign Lands – A new translation of Part 1 of the Zhufan zhi (1225) – 17 marzo 2022
Con il titolo: il nome della nostra isola, “Sicilia”, in caratteri cinesi e la sua traslitterazione
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