Un'immagine dalla La tragedia dello stadio Heysel
Un’immagine dalla La tragedia dello stadio Heysel

di Enzo Ganci

Confesso di non avere molte certezze nella mia vita, ma di vivere sempre accompagnato da mille dubbi. Se escludiamo i punti fermi che abbiamo un po’ tutti: la mamma, l’amore per i figli, l’unità familiare, l’onestà intellettuale, o, parlando di cose meno nobili, ma più concrete, se togliamo: la pasta al forno, il panino con le cazzille o un vassoio di cannoli, non credo che nella mia esistenza mi rimangano molti altri capisaldi che muovono le mie azioni. Fra questi, però, ce n’è sicuramente uno: il mio tifo per la Juventus.

Chi mi conosce sa che sono uno juventino sfegatato dal chicchiriddo all’unghio del piede. Per qualcuno un grave difetto, lo so. Per altri, invece, un notevole pregio. La libertà di tifare per chi si vuole non è fra quelle costituzionalmente garantite, ma possiamo considerarla, per fortuna, un diritto acquisito ed irrinunciabile.

Ed è proprio a causa di questa mia “juventinità” – chiamiamola così – che sarei potuto essere protagonista involontario di un episodio che oggi ho la fortuna di raccontare, ma che, se le cose fossero andate diversamente, mi sarebbe potuto costare molto caro.

Mi riferisco alla finale di Coppa dei Campioni, allora si chiamava così, proprio tra la Juventus ed il Liverpool, che si giocò a Bruxelles il 29 maggio del 1985, passata poi alla storia come la “strage dell’Heysel”, che si verificò a causa degli scontri con gli “hoolingans” del Liverpool, in cui morirono trentanove persone, in gran parte tifosi juventini, schiacciate dalla folla.

Per hooligans, per chi non lo conoscesse il termine, intendo quei tifosi violenti e facinorosi, che il tanto vituperato governo britannico di Margareth Tatcher, pace all’anima sua, ha debellato usando il pugno di ferro e che invece, in Italia, purtroppo, sono i padroni incontrastati degli stadi, senza che lo Stato riesca a fare niente di concreto per risolvere il problema alla radice.

Penso ancora al fatto che sarei potuto essere tra quelle vittime, perché avevo fatto di tutto per andare a vedere la finale della mia squadra del cuore, mettendo pure, come si suol dire, il mondo sottosopra per convincere i miei genitori, (fortunatamente) restii ad accontentarmi.

Studiavo per la maturità classica, mi sarei diplomato in quella sessione e mia madre, che per tutte le promozioni scolastiche non mi aveva mai regalato neppure un elastico, mi aveva promesso un viaggio in Europa, quale premio della maturità.

“Regalo? Sei tu che devi fare un regalo a noi, che ti facciamo studiare” era stata da sempre la filosofia dei miei. Quella volta, però, per il completamento degli studi superiori, avevano deciso di fare un’eccezione.

Sfruttando questa gradita disponibilità, quindi, avevo pensato bene di farmi anticipare il regalo che mi era stato promesso. Il mio discorso, in sintesi, era stato questo: “Papà e mamma, per essere promosso, sarò promosso di certo (a scuola, fortunatamente non andavo malaccio). Quindi: anziché aspettare questa estate, perché non mi fate andare a vedere la partita, dato che gioca la Juve? Quando mi ricapita di tornare a vedere una finale di Coppa Campioni?”.

L’organizzazione era già più che avviata. Grazie al mio amico Lello Granà, juventino più di me, e con i coupon che si trovavano sulla rivista “Hurrà Juventus”, ero già pronto per prenotare. Mancava solo la parte più sostanziosa: il sì di mio padre e mia madre. Mica un dettaglio.

Ricordo di averli messi “in croce”, di avere fatto il diavolo a quattro per convincerli. “E fatemici andare, e non vi preoccupate, e si tratta solo di due giorni, e di sopra, e di sotto, e tirituppiti, e tiritappiti…..” Ero quasi riuscito a convincere i miei, che per un po’ vacillarono di fronte alle mie richieste.

Poi, però, prevalse la “ragion di Stato”, che a casa mia era quella degli esami di maturità. “Se parti – fu il ragionamento dei miei – poi ti “stravii” la testa e non studi più. Quindi niente Heysel…. Il viaggio resta confermato per questa estate”. Punto. Nessuna possibilità di controreplica.

Mai decisione, col senno di poi, si rivelò più saggia. Dovetti rinunciare al viaggio a Bruxelles ed a Juventus-Liverpool, ripiegando per vederla solo alla TV. E meno male……

Quando quella maledetta sera accendemmo il televisore, con tutto quello che stava succedendo, con la folla impazzita, con le persone che morivano in diretta tv, schiacciate da una marea umana incontrollabile, con quelle immagini di sangue nell’ormai famoso “settore Z” dello stadio Heysel, tutti pensammo la stessa cosa. Pensammo che io mi sarei certamente trovato lì in mezzo (perché quello era il settore destinato alla tifoseria italiana). Mi sarei trovato a vedere la morte con gli occhi e combattere una lotta impari per cercare di restare vivo. Vidi mio padre trasformarsi in viso, diventare paonazzo, pensando a come sarebbero stati in quel momento la sua testa ed il suo cuore se io fossi stato fra tutta quella gente disperata, che chiedeva aiuto e che invece veniva calpestata dalla folla.

Mio padre, buonanima, non è mai stato un tipo manesco con noi figli. Nella mia vita ho preso ogni tanto solo qualche schiaffone, che ritengo mi abbia fatto bene e che certamente ha contribuito a fare di me l’uomo che sono oggi. Quella volta, però, fu più forte di lui. Non riuscì a trattenersi, perché gli stava scoppiando il cuore: mi diede un ceffone sonoro, che ancora oggi ricordo bene, benchè siano passati più di trent’anni. “…E chi mi parrava u cori? Menu mali ca un ti cci mannavu. Menu mali ca un ci isti. T’u mmaggini a st’ura comu n’aviamu a sentiri iu e to matri? Appi a essiri u Signuri ca mi rapìu u ciriveddu …”. Mi disse così, sfogando tutta la sua preoccupazione con quel gesto certamente irrazionale, ma di sicuro liberatorio.

Non dissi niente, capii che aveva ragione, presi quello schiaffo in silenzio, con la guancia rossa, ma con la consapevolezza di averla scampata bella, grazie anche e soprattutto all’accortezza, alla saggezza ed alla lungimiranza di mio padre e mia madre.

Per la cronaca, vinse la Juventus, grazie ad un rigore, calciato da Michel Platini quando le undici di sera erano passate da un pezzo. Un rigore che, con tutta la juventinità possibile, dico che non c’era assolutamente e che è rimasto forse l’emblema di una partita surreale che certamente non si sarebbe dovuta giocare, e che, purtroppo, ancora oggi, viene utilizzata con slogan beceri da chi il senso dello sport può solo cercarlo, ed invano, nell’uovo di Pasqua, nelle patatine o nel fustino del Dash.

Adesso, che ho i capelli bianchi e sono genitore, vivo queste problematiche dall’altra parte della “barricata”, contrastando le richieste a volte impossibili dei miei figli, sapendo di dover dare, quando e se è necessario, qualche ceffone doloroso più per me, che per loro, ma con la speranza che possano capire un giorno quanto sia utile a volte un sano schiaffone e quanto possa servire ad evitare guai maggiori.

Chiudere con questa massima “da mille lire”, però, mi scoccerebbe tanto ed allora dico che diciotto anni dopo quel famigerato Juventus-Liverpool, quando ero già padre di famiglia e con un numero consistente di capelli bianchi, decisi di prendermi una rivincita su quel brutto episodio di gioventù. Andai a Torino a vedere Juventus-Real Madrid, semifinale di Champions League. Stavolta, per fortuna, fu tutt’altra storia: non solo di episodi di cronaca nera nemmeno l’ombra, ma la partita fu una vera festa di calcio, al cui solo pensiero ancora mi emoziono. La Juve vinse per 3-1 giocando una partita stratosferica ed esaltante. Io uscii dallo stadio raggiante, colmo di felicità, ma soprattutto …. completamente afono, per aver gridato e cantato per 90’, più recupero.

A fine match, inesorabile, arriva al cellulare la telefonata di mio padre, probabilmente ancora memore di quella brutta pagina di diciotto anni prima. “Enzù, comu si?”mi chiese per sincerarsi che tutto fosse a posto. Ed io, senza un filo di voce: “Bene papà, sto bene”. E lui stranito per quella voce per nulla familiare: “Pronto? Mi scusi, forse ho sbagliato numero….”. “No, papà, non hai sbagliato: sono io, ma sono senza voce”.

Ca picchì? Chi ti successi?”.

La verità è che i figli faranno pure cinquant’anni, ma di essere genitori non si smette mai….

 

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