FONTE: INGVVULCANI
di Alessandro Bonforte, Francesco Guglielmino, Giuseppe Puglisi
L’ultima eruzione laterale dell’Etna, avvenuta alla vigilia di Natale del 2018 e conclusasi dopo soli tre giorni, rappresenta un fenomeno molto particolare per la sproporzione tra la sismicità e deformazioni registrate e la piccola eruzione osservata. Il 24 mattina, una fessura eruttiva si è propagata dal Cratere di Sud-Est fin dentro la Valle del Bove, per una lunghezza di circa 2 km chilometri. Da lì è scaturita una colata di lava che è stata alimentata fino al 27 dicembre, mentre i fenomeni esplosivi che avevano accompagnato la prima fase dell’eruzione si erano esauriti già dopo poche ore dall’inizio.
Non è stata un’eruzione significativa, né per volumi di lava emessi, né per intensità. Niente di eccezionale, appunto, se non fosse stato per la rilevante attività sismica che ha preceduto e accompagnato questo fenomeno per giorni, anche dopo la fine della stessa eruzione. Migliaia di terremoti sono stati registrati non solo in area sommitale etnea, dove si è aperta la frattura eruttiva, ma anche lungo le note faglie di Ragalna (a SW), della Pernicana (a Nord-Est), di Trecastagni (a Sud); molti di questi eventi sismici sono stati avvertiti dagli abitanti di Catania e dei paesi pedemontani.
Il giorno di S. Stefano, due giorni dopo l’inizio dell’eruzione, si è registrato lungo il sistema di faglie di Fiandaca-Pennisi, l’evento sismico a più alta energia, con magnitudo momento (Mw) pari a 4.9, che ha danneggiato parecchi abitati sul basso fianco sudorientale dell’Etna. Si sono attivate quindi tutte le faglie che interessano i fianchi del vulcano, fino alla sua periferia.
Tanta energia per una eruzione così piccola?
Oltre a ciò che è stato evidente a tutti, le reti di monitoraggio dell’Osservatorio Etneo hanno registrato ben altro. Tutti i sistemi hanno rilevato considerevoli variazioni dei parametri monitorati. Non solo la rete sismica, ma anche quelle che rilevano le deformazioni del suolo, composte da sensori di diverso tipo e in grado di misurare le deformazioni del vulcano con precisioni millimetriche. I dati di deformazione del suolo hanno mostrato valori considerevoli, sproporzionati rispetto ad una eruzione di entità così modesta.
Un eccezionale dettaglio spaziale è stato fornito dalle immagini satellitari acquisite dai satelliti Sentinel 1A e 1B della European Spatial Agency (ESA), equipaggiati con un particolare sistema SAR (Synthetic Aperture Radar). Dal confronto delle due immagini SAR acquisite il 22 e 28 dicembre 2018 è stato possibile misurare il cambiamento di forma – la deformazione appunto – avvenuto in quel breve lasso di tempo, che ha mostrato il vulcano praticamente diviso in due lobi aventi movimento opposto.
Questa immagine satellitare della deformazione (interferogramma), prodotta all’Osservatorio Etneo dell’INGV, ha fatto subito il giro del web ed è stata soprannominata “la farfalla dell’Etna” per via della sua forma, con i due lobi che ricordano le ali di una farfalla (Fig. 2).
Grazie all’elevato dettaglio fornito dalle analisi dei dati di interferometria satellitare è stato possibile risolvere la discrepanza tra una così piccola eruzione e la grande energia coinvolta. I risultati di questo studio – appena pubblicati sulla rivista internazionale Terra Nova – hanno evidenziato che l’Etna si stava preparando a produrre ben altra eruzione, con il grosso volume di magma che stava risalendo dal profondo verso la superficie, attingendo da una sorgente a circa 5 km di profondità.
È stata la risalita e la spinta del magma dal profondo a deformare così tanto il vulcano, sollecitando tutte le faglie e generando anche tutta la sismicità. La forte deformazione ha diviso praticamente il vulcano in due, spostando le due metà in direzione opposta; in sommità, questo “stiramento” ha favorito la propagazione di una frattura radiale, rispetto ai crateri sommitali, che probabilmente ha aperto la via a magma già residente, che stazionava nei condotti, appena sotto la superficie, al di sotto del cratere di Sud-Est.
L’eruzione del Natale 2018 è stata quindi solo “un effetto collaterale”, rispetto a quella che si stava preparando. Qualcosa ha bloccato la risalita del magma, che si è fermato circa al livello del mare ed è ancora lì a raffreddarsi e degassare lentamente.
Gli autori ipotizzano che sia stata proprio la grande energia dissipata nello sciame sismico a rallentare la risalita del magma e quindi a determinarne l’arresto. Tuttavia, questa ipotesi richiede ulteriori studi, basati su analisi approfondite dei dati del monitoraggio multidisciplinare dell’INGV, per poter essere verificata e perfezionata.
Grazie ai moderni e sofisticati sistemi di monitoraggio da terra e da satellite, e alla loro continua evoluzione, siamo sempre più in grado di rilevare aspetti altrimenti invisibili, che ci danno accesso ad informazioni preziose per la corretta comprensione dei fenomeni vulcanici; questi, a loro volta, aprono nuovi punti di vista e nuovi interrogativi, nel continuo e proficuo percorso della conoscenza.
Link all’articolo: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/ter.12403
https://ingvvulcani.wordpress.com/
Con il titolo: l’eruzione del 24 dicembre 2018 (scatto di Gaetano Perricone)
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