di GAETANO PERRICONE
Lungo? Certamente lo è, ma non posso dire di essermi stancato, visto che il mio livello di attenzione e di tensione è stato altissimo fino all’ultimo. Noioso? Più che altro e solo in parte criptico, almeno per me che di fisica e meccanica quantistica non capisco una mazza, soprattutto nel primo tempo, dominato dalla ricostruzione tecnica del percorso che portò alla bomba. Pesante? Forse, per il tema affrontato, ma molto di più per chi arriva al cinema con il pregiudizio diffuso che debba esserlo.
Ciò premesso Oppenheimer, il film di Christopher Nolan che racconta la storia del papà della bomba atomica e della nascita della più spaventosa e terribile arma di distruzione di massa finora inventata dall’uomo, a mio avviso ha sicuramente una grande potenza evocativa; un fortissimo valore didattico che ho ampiamente percepito con i miei occhi considerato il pienone di ragazzi allo spettacolo a cui ho assistito, curiosi forse di sentire personalmente in una ricostruzione cinematografica così dettagliata la grande paura che noi nonni e i genitori hanno loro inculcato; ovviamente, mi sembra inutile dirlo, un’angosciosa attualità in un mondo in cui, in vari teatri di conflitti o di permanente e pericolosissima guerra fredda – dall’Ucraina alla Corea del Nord, ai confini tra India e Pakistan, eccetera – , di possibile ricorso alla guerra nucleare si parla un giorno sì e l’altro pure.
Secondo me – ma è il punto di vista di un vecchio e antiquato comunista pacifista, visceralmente anti yankee – ne escono con le ossa rotte quell’idea e quella parte di scienza e di scienziati che negli anni quaranta nel secolo scorso vollero a tutti i costi arrivare all’arma assassina considerandola alla stregua di qualunque straordinaria scoperta scientifica, ma anche il mostruoso cinismo con cui gli Stati Uniti e il presidente Harry Truman (letteralmente disgustoso nella rappresentazione che ne dà il film) decisero che i 210.000 morti e 150.000 feriti giapponesi complessivi a causa delle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945, solo molto parzialmente previsti, valessero comunque la pena per fare finire la Seconda Guerra Mondiale ed evitare altri morti americani. Tesi che continua a farmi vomitare, anche perché non è dimostrata dalla storia né dimostrabile l’altra secondo cui se non l’avessero fatto gli Stati Uniti, prima o poi sarebbero stati altri Paesi, l’allora Unione Sovietica innanzitutto, a buttarla. Così come è forse razionalmente e crudelmente vera l’idea – che l’opera di Nolan fa in qualche modo passare – che, nell’immaginario collettivo della gente e di chi ha in mano i destini del mondo, dopo 78 anni e fino a oggi (lo dimostra anche la grande attenzione e il dibattito suscitato dal film) l’orrore e la paura per gli effetti dei due ordigni sganciati in Giappone continuino ad essere un deterrente notevolissimo.
Ho trovato formidabile, calzante e spesso struggente, l’interpretazione che Cillian Murphy offre della figura di scienziato geniale e uomo tormentatissimo che fu Robert J. Oppenheimer, tra l’esultanza per la riuscita del progetto e la consapevolezza interiore, drammatizzata nel film da vari passaggi onirici, di come e quanto la nascita della bomba atomica avrebbe cambiato il mondo in peggio. Bravissime le sue due donne, Jean -Florence Pugh e Kitty – Emily Blunt; Robert Downeyj nei panni del suo peggior nemico finto amico Lewis Strauss che lo perseguitò per motivi di odio personale camuffati dal movente delle idee politiche di sinistra di Oppy nel periodo del maccartismo; del grandissimo Matt Damon interprete del generale Leslie Groves che insieme a Oppenheimer guidò il progetto e realizzò la cittadina di Los Alamos nel deserto del Nuovo Messico; dell’ottimo Tom Conti nella parte breve, ma molto incisiva e affascinante di Albert Einstein, che mai volle partecipare alla realizzazione dell’arma.
Per me è dunque un filmone da vedere senza alcun dubbio, anche se riconosco come valide varie obiezioni e critiche che ho letto e ascoltato. In ogni caso, credo che il merito assoluto di Oppenheimer sia quello di farci riflettere tutti, vecchi e giovani, sulle folle e inesauribile capacità dell’uomo di correre verso l’autodistruzione.
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