di Santo Scalia
Il contatto tra le colate laviche e le acque del mare è un fenomeno molto comune nelle Isole Hawaii, in particolare a Big Island, isola nella quale si trovano alcuni dei vulcani più grandi ed attivi del pianeta Terra: il Kilauea ed il Mauna Loa.
Recentemente, però, i mezzi d’informazione sono stati impegnati nel descrivere l’attività di un altro vulcano, Cumbre Vieja (ovvero “Pizzo Vecchio”) dell’isola La Palma nell’arcipelago delle Isole Canarie. Il vulcano era rimasto quieto per cinquant’anni. L’eruzione è iniziata il 19 settembre 2021, e nella notte tra il 28 e il 29 settembre – alle 23 ora locale – la colata lavica del Cumbre Vieja è arrivata all’oceano Atlantico, dopo soli dieci giorni dall’inizio dell’eruzione.
E sull’Etna è mai accaduto qualcosa del genere? Quando è arrivato “u focu a mari” ?
Tralasciamo di soffermarci sull’analisi delle colate preistoriche (delle quali cioè non abbiamo notizie riportate nelle fonti scritte) che abbiano raggiunto le coste prospicienti il Mare Jonio; ricordiamo soltanto che furono diverse. Seguendo la costa da nord a sud, ciò è avvenuto: presso Capo Schisò a Naxos; in corrispondenza dell’abitato di Pozzillo; a Santa Maria La Scala; a Capo Mulini (contrada Gazzena); ad Acicastello e alla Scogliera di Cannizzaro.
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In tempi storici (cioè sin da quando abbiamo delle testimonianze scritte) le colate dell’Etna hanno raggiunto il mare quattro volte, ed esattamente: nel 396 a.C; intorno al 1030 (con un errore di ±30 anni); nel 1160 (±20 anni); ed infine nel 1669.
Per la realizzazione del presente articolo, oltre che delle fonti storiche della letteratura vulcanologica etnea, ci siamo avvalsi dei dati riportati nella pubblicazione Carta Geologica del vulcano etna – 7 – l’attività eruttiva dell’Etna degli ultimi 2700 anni di Stefano Branca e Jean-Claude Tanguy; della Mappa schematica dei prodotti vulcanici dell’Etna eruttati durante gli ultimi 2400 anni (modificata da Tanguy et alii, 2012, allegata alla suindicata pubblicazione, figura 98 – esposta nella fotogallery); e della Carta geologica del vulcano Etna, scala 1:50.000 pubblicata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia – Sezione di Catania, (consultabile al seguente link: INGV).
«[…] I documenti storici riguardanti le eruzioni dell’epoca Greco-Romana (e maggiormente del Medioevo) sono scarsi e generalmente non danno precisioni sull’ubicazione dei prodotti, tanto che solo una colata lavica di questo periodo può essere attribuita a una data precisa riportata nelle fonti storiche. Si tratta di quella che ha raggiunto il mare nel 396 a.C. e bloccato l’avanzamento dell’esercito cartaginese, in accordo con quanto narrato da Diodoro. Questa eruzione corrisponde al vasto campo lavico presente presso l’attuale villaggio di Santa Tecla, generato dal cono di scorie del Monte Gorna, in quanto è l’unica colata lungo la costa la cui età archeomagnetica è compatibile con l’evento riportato da Diodoro.» (tratto dalla pubblicazione di Branca-Tanguy)
Diodòro Siculo (Treccani) fu uno storico greco di Agirio (oggi Agira, in Sicilia), vissuto tra l’80 e il 20 a. C. Scrisse una storia universale in cui registrò analiticamente gli avvenimenti dall’età mitica fino alla spedizione di Cesare in Gallia (59 a. C.). Da lui apprendiamo che, negli anni della XCVI Olimpiade (cioè nel 396 a.C.), era in corso la guerra tra Dionisio (o Dionigi, tiranno di Siracusa) ed i Cartaginesi. Le lave prodotte dall’Etna – avendo invaso le spiagge ed essendo ancora calde – impedirono al generale cartaginese Imilcone e alle sue truppe di arrivare a Catania costringendolo ad aggirare il vulcano attraversando le sue regioni occidentali.
Scrive infatti Diodoro: «[…] Imilcone adunque, preso seco l’esercito, a marcie sforzate giunse al già indicato luogo de’ Nassj [l’odierna Naxos – n.d.A.], mentre Magone colle navi radeva la costa. Ma perché l’Etna di recente avea vomitato fuoco sino alla costa marittima, l’esercito non poteva più marciare in modo da avere vicina al lido l’armata; perciocché abbruciati e rotti i luoghi marittimi dal diluvio di fuoco uscito dell’Etna, la necessità obbligava le truppe a piedi a circuir la montagna. Dà egli dunque ordine a Magone di navigar verso Catania; ed egli per l’interno del paese camminando sollecito, s’affrettava ad unirsi coll’armata presso la spiaggia di quella città […]». (da Biblioteca Storica di Diodoro Siculo – volgarizzata dal Cav. Compagnoni – Milano 1820, Libro XIV).
Nel 1030 (±30 anni) si formò il grande cono del Monte Ilice (a 800 m di quota nel versante sudorientale dell’Etna), producendo un ampio campo lavico che raggiunse la costa in corrispondenza dell’attuale località di Stazzo. Per lungo tempo queste lave sono state considerate come prodotti dell’eruzione del 1329, ma le analisi archeomagnetiche le hanno riposizionate temporalmente a circa tre secoli prima. Le lave dell’eruzione del 1329 sono invece quelle emesse dal cono di Monterosso, presso l’omonimo centro abitato del Comune di Aci S. Antonio.
Circa trent’anni dopo, avvenne l’eruzione dei Monti Arsi di Santa Maria (nel 1160±20). Originatasi nel basso versante meridionale del vulcano, tra 460 e 360 metri di quota, nelle vicinanze dell’attuale Gravina di Catania, produsse una breve colata lavica che raggiunse la costa presso Guardia, a circa 2,3 km a nord-est della città medioevale di Catania, generando la cosiddetta lava del Rotolo.
Sempre dalla citata pubblicazione di Branca e Tanguy apprendiamo che detta colata lavica, nella precedente cartografia geologica (Waltershausen 1843-1861, Sciuto Patti 1872, Romano et alii 1979, Romano & Sturiale 1981, Monaco et alii 2000) era stata attribuita all’eruzione del 1381 in base alla scarna fonte di Simone da Lentini, nella quale però non c’è alcun riferimento ad una colata che abbia raggiunto la costa nei pressi di Catania.
L’ultima volta che le lave dell’Etna hanno raggiunto il mare è stata nel corso della devastante eruzione del 1669. Questa eruzione costituisce l’evento eruttivo più distruttivo avvenuto in epoca storica: nel suo corso, in soli quattro mesi, furono eruttati circa 600 milioni di m3 di lava, che generarono un vasto un campo lavico di circa 40 km2 che raggiunse una lunghezza massima di quasi 17 km.
Nel 1815 venne pubblicata, postuma, l’opera del Canonico Giuseppe Recupero Storia naturale e generale dell’Etna; nel tomo II, descrivendo la cronologia dell’eruzione, il Canonico così scrive: «[…] Finalmente a 23 Aprile circa le ore due della notte cominciò il gran fiume ardente ad introdursi nel Mare. Ed oh quanto fu superba non men che spaventevole questa scena! Il solo Signor Mancini fra tutti gli Scrittori di quel tempo ebbe premura di descriverla secondo fu da esso veduta, e perciò mi sia lecito riferire qui tal’avvenimento colle medesime sue parole».
Il Recupero riporta quindi quanto descritto da Mancini, testimone oculare dell’avvenimento: «“Quello fuoco, che altro non è che fecciosa materia, e metallica nel cammino, che fa perché scende da parte alta, e crescesi, che ad ora si vede d’altezza di palmi 50 e ad ora più, è densa e soda la materia, e però nell’entrar che fece in Mare per la profondità di quello, dalla parte più alta del fuoco raffreddato dall’ambiente frigido convertito in nere pietre, precipitando quelle dall’alto in Mare, andava riempiendo la profondità di quello sino alla superficie delle acque, sopra delle quali guidava il resto del fuoco acceso, che per essere superiore, cioè in luogo più alto della superficie del Mare, non veniva offeso dall’acqua, e di questa maniera si vedevano l’acqua, e il fuoco che sono contrarii nel stesso soggetto… ed intanto progressò più giorni nel Mare facendo di camino (sic) più di 700 passi…[…]”».
La lava, entrata in mare il 23 aprile, avanzò per circa 1,5 km, spostando la linea di costa.
Cosa avviene quando la lava e le acque del mare si incontrano? La prima cosa che si osserva è una enorme produzione di vapore acqueo. Tornando al vulcano dell’isola di La Palma, oltre all’anidride solforosa (o biossido di zolfo, SO2) emessa dal nuovo cratere, che si stima in 13.100 tonnellate al giorno (dato dell’ Instituto Volcanológico de Canarias), si teme per la presenza di acido cloridrico e di acido solforico (principale responsabile delle piogge acide) nel pennacchio che si forma all’entrata della lava in mare.
Oltre alle considerazioni relative all’interazione acqua-lava ed ai pericoli ad essa connessi (esplosioni dovute all’accumulo di sacche di vapore sotto la colata che avanza, getti di vapore, lancio di scorie calde anche a notevoli distanze), c’è da tener conto dei danni meccanici causati dall’attività esplosiva ed effusiva: su una superficie di poco superiore a 708 km² vivono circa 82.000 abitanti, ed il numero di edifici distrutti dalla lava del vulcano Cumbre Vieja dall’inizio della sua eruzione (il 19 settembre) è di 1548 (secondo l’ultimo aggiornamento del sistema satellitare europeo Copernicus Earth monitoring).
Anche l’area coperta dalla lava continua ad aumentare: secondo i dati aggiornati al 14 ottobre, essa risulta stimata in 680,4 ettari, mentre l’estensione della cenere pare essere di circa 4.819 ettari [1 ettaro, ha nel Sistema internazionale di unità di misura, è pari a 10000 m², cioè all’area di un quadrato con lato lungo 100 metri – n.d.A]. Il volume di lava emessa finora è tra gli 8 e i 9 milioni di metri cubi (fonte INVOLCAN, Istituto Vulcanologico delle Canarie).
Intanto il delta lavico ai primi di ottobre aveva raggiunto la superficie di 36 ha, cioè circa 0,36 km². È evidente che questi dati sono provvisori e riportati solo per dare un’idea dell’entità del fenomeno eruttivo. Infatti un nuovo ramo della colata attualmente si sta indirizzando verso l’Oceano.
Nei giorni scorsi, su alcuni organi di informazioni sono apparse delle interessantissime interviste a vulcanologi (Stefano Branca e Boris Behncke dell’Ingv Osservatorio Etneo), che prendendo spunto dall’attuale situazione alle Canarie hanno espresso il loro parere su cosa accadrebbe se un’attività simile si verificasse alle basse pendici etnee.
«Quel che stupisce, guardando le immagini che vengono da La Palma, è quanto simile questa eruzione sia a una tipica eruzione laterale dell’Etna” […]. Una frattura eruttiva con diverse bocche allineate “a bottoniera”, con piccole fontane di lava ed esplosioni stromboliane, colate di lava a blocchi, che avanzano lentamente attraverso terreni, “mangiandosi villette come quelle che abbiamo nelle nostre ‘zone di villeggiatura’”. “Come nelle Canarie, per decenni non si è sprecato un pensiero al rischio vulcanico, e ancora si sta costruendo a tappeto, riempendo quei pochi spazi di terreno che restano fra gli abitati, soprattutto sul versante sud dell’Etna” ». [da livesicilia.it]
E ancora: «Comunque la storia dell’Etna è fatta di eruzioni sommitali ed eruzioni laterali. Quindi l’eventuale rischio di una colata laterale sul vulcano è sempre esistente a prescindere dall’attività che oggi sta facendo il cratere di sud est». [da lasicilia.it]
Queste realistiche considerazioni dovrebbero spingerci a prendere coscienza di cosa significhi vivere sui fianchi di un vulcano attivo, e a riflettere “su quanto siamo pronti noi ad affrontare una situazione simile, quanto siamo preparati, quanto siamo consapevoli di vivere su un vulcano che di queste cose ne ha fatte decine di volte negli ultimi secoli». [da livesicilia.it]
Vivere su un vulcano che queste cose le ha fatte decine di volte negli ultimi secoli, e che sicuramente tante altre ne farà.
Con il titolo: le lave del 1669 si inoltrano nel mare a sud di Catania, particolare da Willem Schellinks (fonte: isprambiente.gov.it)
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