FONTE: INGVVulcani
di Maddalena De Lucia e Giovanni Pasquale Ricciardi
“E là, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio. Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava. L’albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate, e la terra, il cielo, il mare tremavano”. (Curzio Malaparte, La pelle, 1949).
In termini vividi e impressionanti Malaparte descrive l’ultima eruzione del Vesuvio, che avvenne 75 anni fa, quasi alla fine della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione di Napoli e della sua provincia da parte delle Forze Alleate. Vi fu, tuttavia, un altro testimone, Giuseppe Imbò, il direttore dell’Osservatorio Vesuviano, che con le parole della scienza ne raccontò le varie fasi.
L’eruzione del 1944 fu un’eruzione caratterizzata da attività sia effusiva che esplosiva. Oltre 20 persone persero la vita per il crollo dei tetti delle case dovuto al peso dei frammenti piroclastici o per perché colpite da grosse scorie. San Sebastiano al Vesuvio e Massa di Somma furono parzialmente distrutte dalla lava; gli abitanti, circa 12000 persone, furono fatti sgomberare e trasferiti a Portici. Le ceneri resero improduttive per tre anni le terre coltivate. Questo evento relativamente modesto segnò per il Vesuvio la conclusione del periodo di attività eruttiva a condotto aperto che durava dal 1631, e l’inizio del periodo di quiescenza a condotto ostruito che dura tuttora.
Cronaca dell’eruzione
L’eruzione del 1944 fu preceduta da un periodo di debole attività vulcanica che durava fin dal 1913 e che aveva prodotto il riempimento del cratere. All’interno del cratere si era formato un piccolo cono di scorie, il “conetto”, che nel tempo era cresciuto fino a superarne il bordo (figura 1). Tra il 12 e il 13 marzo 1944 il conetto crollò, mentre l’attività sismica diventava sempre più intensa.
Alle 4.30 del pomeriggio del 18 marzo, accompagnata da lanci di scorie, si formò una colata di lava che tracimò dal cratere prima sul lato orientale e poi su quello settentrionale, raggiungendo la Valle dell’Inferno, tra il Gran Cono Vesuviano e il Monte Somma. Poco dopo, una piccola lingua di lava si riversò anche sul fianco occidentale. Il mattino del 19 marzo la colata settentrionale aveva attraversato il Fosso della Vetrana, e si dirigeva verso valle, sullo stesso percorso seguito in precedenza delle lave del 1855 e del 1872. Due giorni dopo la lava raggiunse e distrusse i paesi di San Sebastiano e Massa di Somma, precedentemente evacuati, e proseguì dividendosi in due rami verso Cercola (figura 2). Il 22 marzo la lava si fermò, a circa un chilometro da Cercola. Nel frattempo altre lingue di lava discendevano sul versante meridionale; una di queste troncò la ferrovia a cremagliera che portava alla funicolare (figura 3).
Nello studio dell’eruzione Imbò aveva individuato quattro fasi, seguite da una fase finale. Le quattro fasi sono: a) fase effusiva; b) fase delle fontane di lava; c) fase delle esplosioni miste; d) fase sismo-esplosiva. Quella appena descritta era la fase effusiva. Nel pomeriggio del 21 iniziò la fase delle fontane di lava, che durò fino al mezzogiorno del 22 e fu caratterizzata da spettacolari e altissimi getti di materiale incandescente (figura 4). L’altezza raggiunta dalle fontane di lava superava i due chilometri. I prodotti di questa attività si depositarono principalmente nelle aree sud-orientali del vulcano, fino ad Angri e Pagani. L’aumento dell’attività esplosiva in questa fase determinò il progressivo e definitivo arresto delle colate laviche.
Il 22 marzo cominciò la fase delle esplosioni miste: l’eruzione raggiunse la massima intensità. Le ripetute esplosioni provocarono la disintegrazione e il collasso della piattaforma craterica. Ne era evidenza il tipo di materiale eruttato, non più costituito solo da magma fresco (juvenile), ma anche da frammenti di vecchie lave. Il cratere si allargò progressivamente. L’attività sismica divenne sempre più intensa: all’interno dell’Osservatorio era impossibile camminare senza sostenersi. Si formò una nube di cenere e gas dall’ aspetto a “cavolfiore”, che si innalzò fino a oltre 5 chilometri (figura 5). In seguito a parziali collassi della colonna eruttiva si formarono piccoli flussi piroclastici, denominati da Imbò nubi ardenti in miniatura, che scorsero per centinaia di metri lungo i fianchi del cono. Alle 9 della sera di quello stesso giorno le esplosioni cominciarono a produrre delle nubi di cenere simili a enormi cipressi (nubi cipressoidi). Ceneri e lapilli vennero spinti dal vento verso sud est.
I paesi più colpiti dalla caduta di prodotti piroclastici furono Terzigno, Pompei, Scafati, Angri, Nocera, Poggiomarino e Cava dei Tirreni. Lo spessore dei prodotti accumulati superava il mezzo metro; a Terzigno raggiunse gli 80 centimetri. La cenere, sospinta dai venti in quota, si diresse verso est; arrivò a S. Maria di Leuca e fino in Albania, a Devoli.
La quarta fase, che Imbò chiamò fase sismo-esplosiva, cominciò nel pomeriggio del 23 marzo, accompagnata da violenti terremoti e, dal pomeriggio del 24, dalla diminuzione dell’attività eruttiva. Secondo lo scienziato, la forte sismicità era causata dall’aumento della pressione e dalla parziale ostruzione del condotto per il materiale collassato. Proseguiva l’emissione di cenere e lo scorrimento di piccole correnti piroclastiche (figura 6); nello stesso tempo il materiale incoerente depositato nelle fasi precedenti franava lungo i versanti del Gran Cono.
Il 24 marzo cadde una cenere chiara e leggera, ricca di piccolissimi cristalli di leucite; tale evento preludeva, come ben sapevano e avevano imparato a riconoscere gli abitanti del Vesuvio, a una imminente fine dell’eruzione (fase finale). Infatti, gradualmente le esplosioni diminuirono fino al 29, giorno in cui si arrestarono del tutto, e sul cratere si videro soltanto le nubi di cenere sollevata dalle continue frane che si staccavano dalle pareti interne del cratere.
L’eruzione terminò il 7 aprile. Il cratere era diventato una vasta voragine (figura 7). L’eruzione del 1944 fu un’eruzione di modesta entità. Secondo la stima di Imbò, il volume di lave emesse fu pari a 21 milioni di metri cubi, mentre il volume dei prodotti dell’attività esplosiva fu di circa 50 milioni di metri cubi. Per confronto, nella più famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. il volume dei prodotti emessi è valutato pari a circa 4 chilometri cubi.
L’Osservatorio Vesuviano durante l’eruzione del 1944.
Prima e dopo l’armistizio del settembre 1943, a più riprese i militari tedeschi avevano tentato, senza successo, di occupare l’Osservatorio Vesuviano. Nel dicembre 1943 vi riuscirono invece le truppe americane, che requisirono l’istituto per stabilirvi il loro quartier generale nell’area vesuviana. Nonostante le ripetute proteste del direttore Giuseppe Imbò, non gli fu possibile proseguire le ordinarie attività di monitoraggio, e gli venne concesso di rimanere all’Osservatorio solo per l’osservazione dell’attività sismica. A Imbò fu negato perfino l’accesso principale all’edificio, e dovette accontentarsi di entrare da una angusta scaletta sotterranea. Fu in queste difficili condizioni che lo scienziato, ormai isolato e relegato in un’unica stanza al pianterreno con la moglie, unico collaboratore, e i sismografi, continuò le osservazioni e riuscì a prevedere l’eruzione e a seguirne l’andamento.
Quando i militari si accorsero di quanto stava accadendo nei primi giorni dell’eruzione, cambiarono atteggiamento nei confronti dello scienziato. Imbò poté informare la Prefettura degli avvenimenti e del pericolo che essi costituivano. Grazie all’aiuto delle truppe americane fu possibile effettuare l’evacuazione degli abitanti di S. Sebastiano e Massa di Somma, e furono assicurati cibo e medicine per la popolazione sfollata. Imbò riuscì a ottenere delle condizioni meno disagevoli per sé e per i suoi collaboratori.
Imbò mise in guardia i militari sulla possibilità che i materiali piroclastici ricadessero verso est. Proprio qui, a sud-est del cratere, tra Ottaviano e Terzigno, era presente la pista di atterraggio temporaneo “Pompei Airfield”, costruita a tempo di record dal 340esimo Bombardment Group delle forze militari aeree statunitensi e utilizzata dal 2 gennaio 1944 per bombardare Cassino (figura 8). A seguito della caduta di scorie, lapilli e ceneri vennero persi tra i 75 e gli 88 bombardieri medi North American B-25 Mitchell (figura 9). Dopo tale disastro il campo d’aviazione militare fu spostato a Paestum.
Per Imbò l’eruzione del 1944 fu motivo di grande rimpianto, per non essere riuscito a studiarla come avrebbe voluto e come la strumentazione esistente avrebbe assicurato. Anche dopo l’eruzione, l’Osservatorio continuò ad essere occupato. La derequisizione avvenne solo nel febbraio 1945.
Gli autori ringraziano per la revisione e i commenti Massimo Russo, Marco Neri, Micol Todesco, Giorgio Capasso.
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