FONTE: INGV VULCANI
di Maddalena De Lucia, Mauro Di Vito e Giovanni Orsi
E’ buio. Cade una fitta cenere. Toglie il respiro e ostacola la fuga. Terrore e panico ovunque, e disperazione. Sembra la fine del mondo. Lo è, almeno per i vesuviani. Fu così che scomparvero Pompei, Ercolano, Boscoreale, Stabia e Oplonti, nel 79 d.C., sepolte dalla cenere e distrutte dai flussi piroclastici, a causa di un’eruzione pliniana del Vesuvio, il vulcano che sembrava solo una montagna, come quelle circostanti. Lì, al buio, sotto uno spesso strato di prodotti vulcanici, le città romane e i loro abitanti sono rimasti sigillati per quasi duemila anni. I resti visibili oggi costituiscono una perfetta istantanea della vita e della cultura di quelle fiorenti città, ma allo stesso tempo sono una testimonianza del potere distruttivo del vulcano e un monito per un corretto uso del territorio.
Con un forte terremoto, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, il Vesuvio aveva già dato segni del suo risveglio. Dopo quello, molti altri seguirono, aumentando alcuni giorni prima dell’eruzione e accompagnati da deformazioni del suolo. Nonostante questo, l’eruzione, avvenuta dopo alcuni secoli di riposo del Vesuvio, colse di sorpresa le popolazioni che si erano insediate nell’area. I vesuviani non immaginavano che quei fenomeni fossero i precursori di un’eruzione e che la loro verdeggiante montagna fosse in realtà un vulcano (figura 1).
L’eruzione cominciò con una serie di esplosioni freatomagmatiche che provocarono l’apertura della parte terminale del condotto eruttivo. Una grande quantità di cenere, lapilli e bombe vulcaniche caddero al suolo prevalentemente nelle aree a est del cratere. Dopo poche ore, esplosioni magmatiche più violente – generate dalla grande quantità di gas presente nel magma – alimentarono per circa dodici ore una colonna eruttiva che si sollevò fino a un’altezza di circa trenta chilometri (non esistendo documenti iconografici originali, un esempio di colonna eruttiva simile è quella prodotta nel 1991 dal vulcano Pinatubo, nelle Filippine, figura 2).
Plinio il Giovane osservava l’eruzione da Miseno e così la descrisse in una lettera a Tacito: “La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano, solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero. Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami” (figura 3).
La parte alta della colonna, che si espandeva come la chioma di un pino, fu spinta dal vento verso sud-est. La caduta delle particelle solide in essa contenute, essenzialmente pomici e ceneri, oscurò completamente il cielo, rendendo difficile e spaventosa la fuga. Uno spesso deposito si accumulò su un’area molto vasta. Pompei e Oplonti furono parzialmente sepolte sotto circa tre metri di pomici; sotto il loro peso, i tetti delle case cominciarono a crollare e si ebbero le prime vittime.
Parziali collassi della colonna eruttiva formarono flussi piroclastici che fluirono ad alta velocità lungo i fianchi del vulcano e raggiunsero e distrussero Ercolano, ma non Pompei, molto più lontana. Durante la notte l’attività eruttiva diminuì di intensità. Molti pompeiani che erano fuggiti tornarono verso le loro case per recuperare oggetti di valore. Un esempio recente di imponenti correnti piroclastiche generate da un’eruzione esplosiva proviene dall’eruzione del 1984 del vulcano Mayon, nelle Filippine (figura 4).
Alle prime ore del mattino del giorno successivo violentissime esplosioni freatomagmatiche – causate dall’interazione del magma con l’acqua della falda contenuta nel sottosuolo – formarono una nube che non salì nell’atmosfera, ma generò correnti piroclastiche poco dense e ad alta temperatura che si riversarono sui fianchi del vulcano. Si trattava di flussi caldissimi di ceneri, gas e frammenti di rocce in grado di muoversi lungo le pendici del vulcano a velocità elevatissime. Questi flussi raggiunsero il mare in pochi minuti e si propagarono fino a una distanza di almeno quindici chilometri nella piana del Sarno, distruggendo Pompei e uccidendo i superstiti che vi erano ritornati (Fig. 5).
Per tutto il giorno si susseguirono esplosioni di modesta intensità, finché, al calare della sera, l’attività diminuì rapidamente e terminò, lasciando una spessa coltre di pomici e ceneri su un’area vastissima. Successivamente abbondanti piogge, provocate anche dall’immissione nell’atmosfera di vapore e cenere, mobilizzarono il materiale vulcanico che si era appena depositato sui pendii, formando numerose colate di fango che scorsero lungo le valli vesuviane e appenniniche, devastando ulteriormente il territorio.
La cronaca dell’eruzione del 79 dopo Cristo e dei suoi effetti sul territorio è stata ricostruita attraverso studi vulcanologici e archeologici, e documenti storici. La data esatta dell’eruzione è, tuttavia, ancora incerta: alcuni studiosi sostengono che l’eruzione avvenne il 24 agosto, altri propendono per l’autunno, basandosi sulla presenza di mosto nelle botti e di altri frutti tipicamente autunnali, nonché sul ritrovamento di una moneta che recherebbe un riferimento cronologico posteriore. L’insieme di questi elementi sposterebbe di almeno un mese in avanti la data del 24 agosto.
Con il titolo: calco in gesso di figura umana a Pompei. Fotografia di Giorgio Sommer, 1873
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