di Santo Scalia

Sembra l’occhio di un Ciclope, visto dallo spazio. E’ invece una enorme caldera vulcanica, con al suo centro un lago blu. E’ il vulcano Askja, nell’Altopiano centrale d’Islanda, a nord del grande ghiacciaio Vatnajökull, nella regione detta Norðurland eystra.

La caldera dell’Askja vista dal satellite Copernicus (Foto NASA tramite Google Earth)

Nel luglio del 1907 due scienziati tedeschi, Walther von Knebel e Hans Spethmann, accompagnati da un pittore, Max Rudloff, visitarono l’Askja per esplorare, studiare ed illustrare la sua caldera. Allora, così come ora, il luogo era accessibile solo nei mesi estivi, trovandosi quasi al centro desertico dell’isola. Ancora oggi lo si raggiunge attraversando piste sabbiose, guadando numerosi corsi d’acqua e con l’ausilio esclusivo di mezzi fuoristrada; in passato ciò era possibile solo per mezzo di cavalli.

Anche in piena estate, lasciati i mezzi meccanici al rifugio Drekagil, per raggiungere a piedi il centro del vulcano spesso bisogna attraversare ampi tratti innevati.

Il recinto esterno della caldera del vulcano Askja (foto S. Scalia)

Quando la spedizione tedesca raggiunse l’Islanda il vulcano aveva eruttato trentadue anni prima; in precedenza, proprio per la sua difficile localizzazione, era pressoché sconosciuto: basti pensare che nella famosa carta dell’Islanda realizzata tra il 1844 ed il 1848  da Björn Gunnlaugsson e Olaf Nikolas Olsen il luogo non è nemmeno indicato.

Interno della parte occidentale dell’immensa caldera dell’Askja (fotomosaico – foto S. Scalia)

L’eruzione era avvenuta il 29 marzo 1875 all’interno della caldera producendo una enorme fuoriuscita di ceneri e pomici. La caduta di cenere, a cause dei venti, fu particolarmente intensa nei fiordi orientali e causò l’avvelenamento delle terre coltivate e di buona parte del bestiame. I venti portarono la cenere fino in Norvegia ed in Svezia. L’eruzione causò una grandissima depressione nel terreno, nel corso degli anni successivi riempitasi di detriti e d’acqua, tanto da formare un lago.

Interno della parte orientale della caldera dell’Askja (fotomosaico – foto S. Scalia)

Raggiunti i 1050 metri di quota alla quale si trova l’immensa caldera (ha un diametro maggiore di circa 12 chilometri), i tre esploratori vi entrarono – probabilmente da nord, dove l’accesso è più facile – spingendosi per oltre due chilometri verso il suo centro.

Qui si trovarono di fronte ad un grande lago, di un colore blu intenso, e, alla loro sinistra, ad una depressione ad imbuto riempita d’acqua lattiginosa, calda (ha una temperatura media di circa 30 °C) ma di un colore particolare, tendente al verdognolo.

Öskjuvatn, sullo sfondo, ed il cratere Víti, in primo piano (Foto S. Scalia)

Il contrasto di colore tra le due distese d’acqua era stridente, affascinante. Oggi entrambi i laghi hanno un nome: Öskjuvatn (il “lago dell’Askja”, dalla superficie di circa 11 chilometri quadrati, profondo quasi 217 metri, e per grandezza il secondo lago dell’Islanda, dopo la laguna glaciale  Jökulsárlón); e Víti, o Helvíti, cioè inferno. Quest’ultimo non va confuso con l’omonimo Vìti che si trova presso il vulcano Krafla, nel nord del paese.

Intorno al 10 luglio Walther von Knebel e Max Rudloff, realizzata alla meno peggio una sorta di barca, si avventurarono nell’esplorazione del lago mentre il ventiduenne Hans Spethmann, geologo, si accinse a raccogliere campioni di rocce vulcaniche. A tarda sera (ricordo che in Islanda, in piena estate, il sole rimane al di sopra dell’orizzonte per tantissimo tempo) Spethmann ritornò all’accampamento, ma degli altri due compagni lì non c’era alcuna traccia. E neppure con il binocolo riuscì ad individuare la barca.  Li aspettò per giorni, invano, poi recatosi ad Akureyri (la principale città della costa settentrionale) lanciò l’allarme.

Le ricerche non diedero risultato alcuno. Anzi, per essere precisi, fu ritrovato solo uno dei remi della piccola imbarcazione.

Viktorine Helene Natalie von Grumbkow, più semplicemente Ina von Grumbkow, era la fidanzata di Knebel. Prussiana, donna intraprendente e coraggiosa, non si rassegnò alla scomparsa del suo Walther: decise di organizzare una spedizione nella Terra dei ghiacci, accompagnata nell’impresa da un geologo collega del fidanzato, Hans Reck.

Il tumulo sulle sponde dell’ Öskjuvatn (foto S. Scalia)

Così l’anno dopo, trascorso un breve periodo di allenamento per abituarsi ai duri percorsi a cavallo da affrontare, da Akureyri partì alla volta dell’Askja. Purtroppo le sue ricerche non furono più fortunate di quelle di Spethmann e della squadra di soccorso dell’anno precedente. Ad Ina non rimase che erigere un tumulo sulle sponde dello Öskjuvatn, e far porre su di esso una lapide a memoria dei due sfortunati esploratori.

Particolare della lapide

Da allora è consuetudine di tutti coloro che si avventurano in quei luoghi di porre un sasso su quel monumento improvvisato, e di scrivere il proprio nome in un registro custodito in una cassetta metallica alla sua base. Particolarmente toccanti sono le parole che Ina scrisse nel suo diario, a conclusione della spedizione in Islanda: «Pochi mortali sono stati consegnati ad una tomba maestosa come quella dei due che riposano in questo luminoso lago di montagna. Qui una pace solenne domina i chiari giorni estivi e le ore scure dell’inverno, secolo dopo secolo» (da Il libro dei vulcani d’Islanda, di Leonardo Piccione, 2019).

La colata lavica dell’eruzione del 1961 dal satellite Copernicus (Foto NASA tramite Google Earth)

L’Askja è un vulcano parecchio attivo: ha eruttato infatti nel 1875, 1919, 1921, 1922, 1923,  1926, 1938, e per ultimo nel 1961. L’ultima colata, quella del ’61, è perfettamente riconoscibile nelle foto dal satellite.

Askja è catalogato dagli studiosi come stratovulcano, e si eleva nel suo punto più alto a 1516 metri sul livello del mare. Si trova, come già detto, nell’Islanda centrale, ad una latitudine di  65.03°N ed una longitudine -16.75°W. Oggi c’è tra gli scienziati chi classifica il cratere Vìti, formatosi anch’esso nel corso dell’eruzione del 1875, come maar.

Ancora una curiosità: gli astronauti statunitensi Armstrong, Aldrin e Collins – l’equipaggio dell’Apollo 11 – hanno familiarizzato con l’arido paesaggio del nostro satellite esercitandosi proprio in quest’area, dato che il terreno era simile al paesaggio sulla Luna.

Con il titolo: il percorso all’interno della caldera, in luglio (foto S. Scalia)

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