FONTE: INGVVulcani

di Luca Cocchi

Nel 2003 il Prof. Peter Rona, considerato il padre dell’oceanografia e geofisica marina, scrisse un breve saggio per la rivista Science dal titolo “Resources of the Seafloor”. Due sole pagine, ma estremamente ricche di tutte le conoscenze e scoperte ottenute nei precedenti 40 anni dalla comunità scientifica internazionale riguardo lo straordinario mondo dei fondali oceanici e delle loro risorse minerarie.

Un po’ di storia

I primi studi pionieristici effettuati sui fondali marini hanno inizio negli anni Sessanta, grazie al contributo di scienziati provenienti da grandi università americane come il WHOIScripps Institution e la Columbia University, tanto per citarne alcune.

L’avvento delle nuove tecnologie di investigazione geofisiche ha permesso di ottenere una cartografia del fondale marino e soprattutto conoscere le relazioni che intercorrono tra i meccanismi di formazione degli oceani (tettonica attiva e vulcanismo) e la messa in posto di strutture di risalita di fluidi mineralizzati, conosciute con il nome di camini idrotermali. Quest’ultimi rappresentano fratture della crosta dove risalgono i fluidi mineralizzati alcalini che favoriscono, oltre che la deposizione di materiale polimetallico, anche la formazione di composti organici complessi.

Il ventennio 1960-80 rappresenta un periodo d’oro per le ricerca scientifica marina, con il susseguirsi di nuove scoperte come ad esempio la presenza del deposito idrotermale Atlantis II, posto a 2000 metri di profondità nel Mar Rosso e il TAG (TransAtlantic Geotraverse), un sistema di risalita di fluidi e depositi minerali attivo lungo la dorsale medio atlantica. Lo studio di queste aree, considerato avveniristico per l’epoca, ha permesso di ricostruire il meccanismo di formazione dei sistemi idrotermali e soprattutto il legame di questi con i margini tettonici attivi. Per la prima volta si ha la chiara visione secondo cui i fondali oceanici non rappresentano solo delle zone passive dove vengono raccolti materiali erosi dalle zone continentali, ma sono delle vere e proprie sorgenti attive dove si formano nuove risorse minerarie.

I meccanismi di funzionamento

Con questi studi finalmente si ha la possibilità di delineare un modello evolutivo della formazione del deposito idrotermale. L’acqua dei fondali oceanici, fredda e densa, penetra per chilometri all’interno di rocce vulcaniche fratturate, ricche di metalli. In profondità il flusso di acqua viene riscaldato dalle sorgenti magmatiche e risale per differenza di densità trasportando e dissolvendo alcuni  metalli presenti nelle rocce e nei fluidi magmatici. Una volta che il fluido mineralizzato è nuovamente in superficie, i metalli si legano con il solfato presente nell’acqua di mare innescando la precipitazione di solfuri massivi, ovvero depositi di minerali ricchi di metalli quali Zinco (Zn)  Rame (Cu), argento (Ag) e anche Oro (Au).

Se, oltre alla presenza dei depositi ricchi in metalli preziosi, si considerano anche le aree  diamantifere dell’offshore Sudafricano e la disseminata presenza di noduli di manganese nei fondali abissali (concrezioni ricche in Manganese, Cobalto, Nichel e Rame, presenti a profondità molto elevate, maggiori di 3000 metri) si può ben capire quale sia la reale potenzialità estrattiva ed economica associata ai fondali marini.

Secondo il gruppo di ricerca internazionale guidato dal canadese M. Hannington, le risorse minerarie celate sotto gli oceani e associate alle zone neovulcaniche sono quantificabili in circa 3×107 tonnellate (Rame e Zinco), valori comparabili a depositi terrestri (1.9 x 107 tonnellate). I risultati di questo studio sono stati pubblicati nel 2011 sulla rivista Geology (Figura 1).

Se si pensa che solo il 30 % dei fondali oceanici è attualmente conosciuto, allora è legittimo pensare che l’entità di risorse minerarie provenienti dagli oceani possa essere veramente elevata.

Figura 1 – Distribuzione a scala globale di depositi polimetallici disseminati negli oceani

 

Il Mar Mediterraneo

Sappiamo bene che l’Italia è un paese di grandi vulcani attivi come l’Etna, il Vesuvio, lo Stromboli e i Campi Flegrei. Non dobbiamo dimenticare però le grandi strutture vulcaniche presenti anche al di sotto del mare, soprattutto nella settore Tirrenico meridionale (Figura 2).

Figura 2 – Ubicazione del vulcanismo sottomarino nell’area tirrenica

 

In questa porzione di mare, a circa 3000 metri di profondità, si ergono due tra le più imponenti strutture vulcaniche del mondo: il seamount Marsili e il complesso vulcanico del Palinuro (Figura 3).

Figura 3 – Mappa batimetrica del seamount Marsili e del complesso vulcanico del Palinuro. Immagine a cura di L. Cocchi. Dati batimetria catalogo EMODnet (https://www.emodnet-bathymetry.eu/)

 

L’edificio del Marsili è lungo 60 km (una lunghezza pari a quella che separa Modena da Parma) e largo 30 km (Figura 4).

Figura 4 – Batimetria 3D del seamount Marsili (dati da Cocchi et al., 2009)

 

Il Palinuro è costituito da più edifici vulcanici e coni secondari che creano una struttura complessa di quasi 90 km di lunghezza (Figura 5).

Figura 5 – Modello 3D della batimetria del Palinuro e settore orientale (da Cocchi et al., 2017)

 

Questi due giganti sottomarini hanno avuto in passato una attività vulcanica imponente. Rivestono un grande interesse nell’opinione pubblica, forse grazie a quel velo di mistero tipico di tutti gli oggetti nascosti in fondo al mare.

L’idrotermalismo

Spesso si parla di questi due enormi vulcani come possibili generatori di eruzioni e catastrofici maremoti. Non tutti sanno però che questi due vulcani, sono aree interessate da un idrotermalismo molto sviluppato. Lo stesso si verifica in altre strutture più piccole disseminate lungo l’arco delle Isole Eolie. Ad esse è anche associata una realtà biologico-faunistica di straordinaria importanza.

La cresta del Marsili è caratterizzata da una vasta prateria di camini idrotermali, per la maggior parte estinti. Alcuni studi di un team di ricercatori INGV sugli studi sul tremore del vulcano hanno evidenziato la presenza di sorgenti idrotermali ancora attive (Figura 6).

Figura 6 – Particolare della cresta del Marsili e riprese ROV dei prodotti idrotermali (da Ligi et al., 2014)

 

Il Palinuro è forse il vulcano più “ricco” del panorama italiano. A 600 metri di profondità è localizzato uno sviluppato deposito idrotermale a Barite e Pirite prevalente. È situato all’interno di una caldera a forma di anfiteatro, quasi a ricordare una cinta muraria tipica delle città medioevali (Figura 7).

Figura 7 – Particolare della batimetria della caldera nel settore centrale-occidentale del Palinuro; la stella azzurra indica la presenza del deposito idrotermale (da Ligi et al., 2014)

 

Scoperto agli inizi degli negli anni Ottanta grazie alle prime investigazioni del fondali marini finanziate dalla società petrolifera di bandiera, il deposito idrotermale del Palinuro è caratterizzato dalla presenza di metalli preziosi come Rame, Bario, Argento, Piombo (1.6% Cu, 2.8 % Zn, 1.9% Pb, 0.39 ppm Au, e 130 ppm Ag) in percentuali economicamente rilevanti.

A partire dagli anni 2000, il Palinuro è stato oggetto di un susseguirsi di investigazioni proprio per il suo peculiare arricchimento in metalli preziosi. Fortunatamente ad oggi l’interesse di questi siti è solamente di tipo scientifico, ma in futuro potrebbero essere oggetti di investimenti industriali.

L’auspicio è quello di continuare ad esplorare e aumentare le conoscenze dei fondali marini e della loro ricchezza, senza creare danni per l’ambiente. Un po’ come i grandi esploratori che di fronte a relitti adagiati sul fondale marino per centinaia di anni si sono limitati a raccontarne la storia, preservandone i siti a futura memoria. Ricordandosi che la conoscenza è la forma di ricchezza più importante.

Per altre informazioni generali sui vulcani sottomarini, rimandiamo all’articolo completo e ampiamente documentato di Santo Scalia pubblicato il 1 settembre 2019 sul blog IlVulcanico.it

 

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Gaetano Perricone

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