di Mario Mattia

MARIO MATTIA SUL CRETTO DI BURRI
Mario Mattia sul Cretto di Burri

A cinquant’anni dalla sequenza sismica che ha “inaugurato” il difficile rapporto tra l’Italia repubblicana e i terremoti, una mostra organizzata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia prova a ricordare cosa era il Belice prima del terremoto, cosa ha significato quel terremoto e cosa né è stato di quella gente e di quei paesi dopo il terremoto. Sarà inaugurata il 5 ottobre a Palermo, presso la Biblioteca Regionale “Bombace”, dove si potrà visitare fino a domenica 28 ottobre.

Quando, circa due anni fa, con l’amico e collega Paolo Madonia della sezione di Palermo dell’INGV ci siamo seduti ad un tavolo per cominciare ad organizzare questa mostra, l’obiettivo era già lì, di fronte a noi, forte e chiaro. “Raccontare” il Belice senza incorrere nell’errore prospettico del bambino coi piedi nel fango nella miseria di una tendopoli o del vecchio con la coperta in testa sotto la neve. E non perché quelle immagini fossero false o distorte, ma perché, a nostro avviso, distorta era la percezione che di quella sequenza sismica aveva la gran parte degli italiani. E che, a nostro avviso, si era colpevolmente fermata a quelle immagini. Senza andare oltre. Senza chiedersi com’è finita quella brutta storia. E senza chiedersi, soprattutto, se è finita davvero.

L'ORA 15 gennaio 1968

Paolo conosce il Belice molto meglio di me e da tanti anni. E’ anche stato direttore della Riserva Naturale di Santa Ninfa. Io lo frequento dal 2007, quando, insieme ai colleghi dell’INGV Valentina Bruno, Carla Bottari e Francesco Guglielmino, oltre a Carmelo Monaco, Giovanni Barreca e Fabrizio Cultrera dell’Università di Catania, Luigi Ferranti e Laura Guzzetta dell’Università di Napoli, e infine a Fabrizio Pepe dell’Università di Palermo, ci siamo imbarcati in una attività di ricerca finalizzata all’individuazione delle faglie che avevano prodotto la sequenza sismica che aveva ucciso 352 persone, ferite oltre 500 e messo in mezzo alla strada oltre 50.000 persone. Nel lontano gennaio 1968.

All’inizio il gruppo si autogestiva con i fondi di ricerca personali che bastavano sì e no per le missioni. Poi, visti i primi risultati, l’INGV ha deciso di finanziare un progetto specifico che si è concluso lo scorso anno. E nel corso di questi anni è stato inevitabile, per tutti noi, toccare con mano le rovine dei paesi fantasma del Belice, parlare con chi quel terremoto lo ha vissuto, passeggiare nelle “lunari” cittadine frutto della ricostruzione. Insomma, in poche parole, ci siamo immersi, in quella realtà che fino ad allora per noi era stata solo una sequenza sismica come tante altre, approfondita sulle precedenti ricerche, su qualche pubblicazione scientifica piuttosto datata e su qualche foto di repertorio.

Per la prima volta (ed è un mea culpa) la vicenda umana ha affiancato quella scientifica e l’ha alimentata, ha creato nuova motivazione. E così è stato quasi naturale, all’approssimarsi del 2018, pensare ad una sintesi efficace che, attraverso l’uso di immagini e testi, provasse a trasmettere qualche fatto saliente, o almeno una serie di punti fermi. Senza abbandonarsi alla retorica e senza far sbuffare nessuno (“ancora il Belice?… ma stanno ancora lì ad aspettare che il pero gli caschi in bocca?” – commento autentico di una signora del Nord cui raccontai, tempo fa, di questa iniziativa).

2 L'ORA 15 gennaio 1968

Lo strumento principe ce lo ha fornito il caso, sotto la figura dell’ex vicedirettore del quotidiano “L’Ora” di Palermo, Franco Nicastro, che, in occasione di un articolo sui risultati delle nostre ricerche nel Belice, mi disse “ma perché non date un’occhiata all’archivio fotografico de “L’Ora”, che è custodito nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana?”. La pulce era già nel nostro orecchio e, armati di buona volontà, ci siamo rivolti al Direttore della Biblioteca “Bombace” che, da subito, si dimostrò entusiasta del nostro progetto.

Espletate le minime formalità burocratiche, in una bella giornata dell’autunno dello scorso anno, siamo andati a vedere questo famoso archivio e, quando la gentilissima funzionaria della biblioteca ci ha consegnato il faldone con la scritta “Belice , si è aperto davanti ai nostri occhi un mondo. Lo sguardo presto si trasformò in quello dei bambini davanti al regalo di Natale. Centinaia e centinaia di foto nello splendido bianco e nero di quegli anni, divise in cartelle che indicavano genericamente l’argomento. Una testimonianza viva, sotto i nostri occhi, che probabilmente non era stata vista da nessuno da almeno vent’anni.

Volti, drammi, tende, crolli, baracche, gente. Tutte lì a raccontarci cosa era stata quella stagione di dolore e di morte. Facemmo una necessaria selezione di oltre 350 immagini, che poi la stessa Biblioteca ha provveduto a scansionare ed a farci avere sotto forma di un prezioso CD. Il cuore era stato trovato. Adesso bisognava trovare i contenuti e la “forma”.

Intanto è doveroso sottolineare come l’INGV abbia creduto in questo progetto e lo abbia sostenuto economicamente e materialmente ai più alti livelli. Questo ci ha sicuramente spianato la strada e ci ha permesso di coinvolgere anche team che, da vari punti di vista, si sono occupati del terremoto del Belice. Colleghi dell’Università di Catania e Palermo, di varie discipline, dalla geologia all’agronomia attraverso l’urbanistica, la geografia e l’architettura si sono incontrati, hanno discusso e hanno prodotto testi semplici e di immediata fruizione, adatti ad un pubblico vasto ed eterogeneo. Ma ricordiamo anche la Rete Museale Belicina tra gli autori di importanti contributi e tanti altri soggetti che, a vario tiolo, avevano qualcosa da dire sul Belice e sulla sua gente.

E infine la “forma”, realizzata all’interno del corso di Grafica dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, dagli stessi studenti che si sono cimentati in un vero e proprio concorso di idee dove i “giudici” siamo stati noi “specialisti” che ci siamo occupati dei testi e delle immagini. E una volta scelto il format (a maggioranza…) quel gruppo di studenti ha lavorato, e lo dico senza retorica, giorno e notte per realizzare i 23 grandi pannelli che oggi costituiscono la mostra. 23 pannelli già presentati in ambito scientifico il 12 settembre a Catania, in occasione del Congresso della Società Geologica Italiana e che saranno presentati come abbiamo accennato al pubblico più largo il 5 ottobre a Palermo, presso la Biblioteca Regionale “Bombace”. Laddove tutto è nato.

Gibellina vecchia: il Cretto di Burri
Gibellina vecchia: il Cretto di Burri

Oggi, passeggiando tra quei pannelli, il senso di soddisfazione è grande e anche se vale il vecchio detto che ogni scarrafone è bello a mamma sua, non posso fare a meno di vedere, leggere, capire come fa un territorio a trasformarsi attraverso la sofferenza in un percorso che, ancora oggi, se ci ripenso, mi fa tornare con la mente davanti a quel ragazzo cui, tanti anni fa, chiesi le indicazioni per raggiungere il Cretto di Burri, il gigantesco sudario di cemento che copre le rovine della vecchia Gibellina. Lui rispose indicandomi un po’ di strade e poi aggiunse “Ma state attenti, che lì ci sono i fantasmi. E le pietre parlano”.

Aveva ragione. Adesso lo so.

La foto con il titolo e le altre pubblicate nella gallery con questo articolo, dall’Archivio de L’Ora, presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana A. Bombace

 

 

 

 

 

 

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