di Santo Scalia
«O mio benevolo lettore, se andrai un giorno a Catania ricordati di fare il giro della ferrovia Circumetnea, e dirai che è il viaggio circolare più incantevole che si possa fare in sette ore sulla faccia della terra.
Questa ferrovia […] girando intorno al grande Vulcano con un tragitto di più di cento chilometri, allaccia fra di loro tutti i più popolosi comuni delle sue falde […] La strada sale fino ad altitudini di oltre mille metri, discende, risale, passa attraverso a vigneti, a oliveti, a vaste piantagioni di mandorli, a boschi di castagni; corre per ampi spazi coperti di detriti delle eruzioni, fra muraglie di lava alte come case, fra mucchi di materiale vulcanico rabescato, striato, foggiato in mille strane forme di serpenti e di corpi umani mostruosi, dove non appare un filo d’erba, fiancheggia altri spazi dove la natura ricomincia a riprendere i suoi diritti, sulle ceneri e sulle scorie […]». (Edmondo De Amicis, Ricordi d’un viaggio in Sicilia – 1908).
«Un paradiso terrestre, interrotto qua e là da zone dell’inferno»: faccio mie delle parole di De Amicis che ben descrivono le impressioni che si ricevono nell’attraversare, in prossimità dell’abitato di Bronte, la Sciara di Sant’Antonio.
Cosa è la sciara? Come sempre mi affido all’Enciclopedia Treccani per chiarirne il significato: «termine locale, usato in Sicilia nella zona etnea per indicare gli accumuli di scorie vulcaniche che si formano sulla superficie o ai lati delle colate laviche». Dal punto di vista etimologico dobbiamo ricorrere ad arabi e latini: troviamo infatti, nella stessa enciclopedia, «voce siciliana formata con sovrapposizione formale e semantica dell’arabo ša῾ra “terreno sterile e incolto, sodaglia” su un derivato del latino flagrare “ardere” significante “lava incandescente”, poi “lava indurita”». Quindi una “zona d’inferno” che interrompe la fertile area etnea.
L’eruzione che generò la Sciara di Sant’Antonio (a volte indicata come del SS. Cristo – dal nome di una delle contrade invase dalla lava – o di Sant’Antonino, come riportato sulle carte topografiche I.G.M. del 1969) ebbe luogo all’inizio del 1651 e si protrasse per quasi tre anni.
Athanasius Kircher – nella sua opera Mundus Subterraneus pubblicata ad Amsterdam nel 1664 – per descrivere l’Etna, vulcano al quale dedica un intero capitolo (l’ottavo, Crateris Ætnæi Descriptio), così parla di questa eruzione: «Anno denique 1650 denuo saeviens ex Septentrionali et Orientali plaga, disruptis montibus tantam evomuit ignium copiam, ut fere Brontium torrentibus igneis in ultimum discrimen excidiumque deduxerit.» [Infine nell’anno 1650, imperversando nuovamente nelle plaghe settentrionali ed orientali, dai monti fratturati [l’Etna n.d.A.] vomitò così tanta quantità di fuoco che, con torrenti infuocati, mise in estremo pericolo e quasi distrusse Bronte.(traduzione dell’A.)].
E perché la sciara suddetta viene chiamata di Sant’Antonio? Alcuni autori identificano col 17 gennaio il giorno dell’inizio dell’eruzione, giorno in cui la liturgia ricorda l’eremita egiziano San Antonio Abate. Questa coincidenza temporale avrebbe portato ad assegnare il nome del santo alle lave prodotte dall’eruzione.
E’ il canonico Giuseppe Recupero, nel secondo tomo della sua opera Storia naturale e generale dell’Etna (pubblicata postuma nel 1815), a far risalire l’inizio dell’eruzione al mese di febbraio, oltre a riportare la memoria di due testimoni: Agatino Russo e D. Agatino Lancelotti.
Recupero infatti scrive che «L’anno 1651 fu troppo fatale per la Città di Bronte posta nei confini nella plaga occidentale di Mongibello. Nel mese di Febbrajo di detto anno rottesi le fornaci dell’Etna nella terza regione sboccò un largo copiosissimo fiume ardente, che fra il giro di ore 24 fece il corso ben lungo di sedici miglia, assediò per tramonta la detta Città, con aversi ingojato alcune case, investì la Chiesa delle Anime del Purgatorio, e mutata poscia per poco la sua direzione verso tramontana, lasciato avendo immune tutto il corpo di quella città, pose capo nella sottoposta Campagna, detta volgarmente la Piana di Bronte, a poca distanza dal fiume».
La prima testimonianza riportata dal Recupero, quella di Agatino Russo, conferma il mese di febbraio come mese iniziale: «Nell’anno 4ª indiz. 1651 [vedi nota (1), a fine articolo, per chi volesse approfondire il concetto di indizione] nel mese di Febbraro dell’istante anno scappao lu foco della Montagnia di Moncibello, e pigliò in diversi parti, cioè alla via di Bronti confinanti con la via pubblica per tramonta, ed altri confini».
La seconda testimonianza, quella di D. Agatino Lancelotti, riporta le seguenti parole: «Ego D. Agathinus Lancilotto pro Russo: non obstante tutto ciò dell’antedetto pervenne a notizia, che il detto fuoco incendiò tutti li lochi dell’Università di Adernò, et per Fiume grande con gran furia, il quale si dice essere di larghezza di miglia due incirca.»
Francesco Ferrara, scienziato di Trecastagni, opta anch’egli per il mese di febbraio: «Nel mese di febbrajo del 1651 dopo orribili muggiti, e gagliarde scosse, e dopo la eruttazione di fumo copioso, e nerissimo dal cratere, da nuove aperture che si fecero nell’alto della Montagna uscì un impetuoso fiume di lava che in 24 ore scorse 16 miglia di lunghezza, e […] andò ad invadere Bronte […].”» (in Descrizione dell’Etna con la storia delle eruzioni, edizione del 1818, pag. 100).
Anche il famoso nicolosita Carlo Gemmellaro, nella sua opera pubblicata nel 1858, La vulcanologia dell’Etna, facendo riferimento però alle stesse fonti del Recupero, propende per il mese di febbraio: «Nel mese di febbraro 1651 proruppe il torrente di fuoco dalla montagna, e prese diverse direzioni; una a tramontana verso Bronte, la quale giunse sino alla pubblica strada, e l’altra a levante per la via di Mascali, confinante col fondaco della Macchia, e piombò nel vallone della Macchia stessa, come lasciò registrato Agatino Russo. Il torrente diretto verso Bronte, percorse in 24 ore sedici miglia, ingojò alcune case a tramontana: investì la chiesa del Purgatorio, si avanzò nella sotto posta piana di Bronte, ed arrestossi a poca distanza dal fiume».
Recupero cita anche le parole di tale Macrì, che invece riferiva di gennaio, e non di febbraio: «L’anno 1651 [l’Etna n.d.A.] si aprì verso Bronte, e fu nel mese di gennajo, ed il foco corse tre anni. Ma dette aperture si fecero nelle parti scoperte del Monte».
Più recentemente – seppure con qualche dubbio – altri studiosi hanno posto l’inizio dell’eruzione non al 17 di gennaio, bensì un al 17 febbraio [S. Branca, P. Del Carlo – Eruptions of Mt. Etna during the past 3,200 Years: A revised compilation integrating the historical and stratigraphic records], cioè un mese dopo, quindi esattamente 370 anni fa. Ritengo ragionevole pensare che probabilmente l’apertura delle prime bocce sia avvenuta in gennaio, ma che per gli abitanti di Bronte l’eruzione cominciò a delinearsi come un reale pericolo in febbraio. Ma al di là della data della prima manifestazione eruttiva è importante ricordare che l’eruzione del 1651 si protrasse almeno fino agli ultimi giorni di novembre del 1653: le sue colate laviche, fuoriuscite da una frattura apertasi tra i 2500 ed i 2120 metri, raggiunsero all’incirca i 14 chilometri, ricoprendo più di 20 chilometri quadrati di superficie.
Nella letteratura vulcanologica etnea sia Kircher, sia Ferrara, sia Recupero parlano anche di una contemporanea effusione lavica nel versante orientale del vulcano. In tal caso si sarebbe trattato del tipo di eruzione che viene definita biradiale. Il flusso orientale si sarebbe incanalato nel Torrente Macchia, e da alcuni studiosi sarebbe stato identificato con le cosiddette Sciare di Scorciavacca, come indicato nella Carta volcanologica [sic] e topografica dell’Etna di Émile Chaix, pubblicata a Ginevra nel 1892.
A tal proposito voglio ricordare il lavoro Mount Etna eruptions of the last 2,750 years: revised chronology and location through archeomagnetic and 226Ra-230Th dating (prodotto da Jean-Claude Tanguy, Michel Condomines, Maxime Le Goff, Vito Chillemi, Santo La Delfa e Giuseppe Patanè); in questo lavoro – pubblicato su Bulletin of Volcanology nel 2007 – si fa presente che «La cosiddetta colata orientale del “1651” (quella di Scorciavacca) non può essere stata prodotta in questo periodo, in quanto la sua DGF [direzione del campo geomagnetico n.d.A] differisce di oltre 15° da quella prevista per il 1600 ed è coerente solo con un’epoca risalente intorno al 1020 d.C. Questa conclusione è ulteriormente avvalorata dal fatto la colata di Scorciavacca si trova a più di 5 km di distanza dal Vallone Macchia, dove la colata del 1651 è stata localizzata da un resoconto (Recupero, 1815 – n.d.A.). D’altra parte, il presunto flusso del “1689” presso Fornazzo potrebbe rappresentare il vero flusso orientale del 1651, sebbene in questo caso siamo al limite del potere di risoluzione della datazione archeomagnetica […]». [trad. dell’A.]
Giuseppe Ignazio De Luca da Cesarò – che presi i voti assunse il nome di Padre Gesualdo – nella sua opera Storia della Città di Bronte del 1883 cita un’iscrizione posta all’esterno della stalla del convento dei Padri Cappuccini nella città di Bronte, e parla anche dei danni causati dal vulcano: «[…] La vulcanica lava giunse così vicina alle mura del convento che si ebbe a rompere il masso per poter entrare nell’orto rimasto libero dal sovrastante ammonticchiamento delle vulcaniche pietre».
L’iscrizione in versi, in seguito riportata anche dallo storico brontese Benedetto Radice, così recita:
Anno Domini 1654 Segno son io qual mostro al viatore, che il fuoco, urtando qui, mutò natura. AL comando del ciel spense l’ardore, divenne pietra, e non toccò le mura
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Da Storia della città di Bronte, di Gesualdo De Luca – 1883 – pag. 60 | Foto di Marisa Liotta |
E ancora, presso la Chiesa del Convento dei Padri Cappuccini, nell’altare maggiore, è custodita una tela dedicata a Santa Maria degli Angeli: nella parte inferiore è raffigurato il paese di Bronte minacciato dalla lava dell’Etna, lava che la tradizione vuole sia stata fermata e deviata per intercessione di S. Felice da Cantalice.
Padre Gesualdo riporta altre informazioni sui danni subiti dalla città: «Più sopra ergevasi e sta, una Chiesetta sacra a S. Antonio di Padova. La lava vi corse al fianco aquilonare all’altezza della stessa Chiesa, ne abbruciò la porta, ma non seppellì il fabbricato […]» e cita una seconda iscrizione, una lapide, anch’essa ripresa da Benedetto Radice nelle sue Memorie storiche di Bronte pubblicate nel 1926: infatti per ricordare l’avvenimento il ricco cittadino Francesco Spedalieri fece murare la lapide che porta incise le seguenti parole:
D. 0. M. curavit. 1654
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D. 0. M.
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Da Storia della Città di Bronte, di Gesualdo De Luca – 1883 – pag. 60 | Trascrizione del testo inciso sulla lapide | Foto di Marisa Liotta |
La traduzione riportata nel volume L’Etna nella storia (di Emanuela Guidoboni ed Al. – 2014), è la seguente: «A Dio l’ottimo, il massimo. Francesco Spedalieri curò a proprie spese la costruzione della lapide in nome della liberazione della Spagna e dell’Italia dalla nuova stella cometa e di Bronte dalle voraci fiamme dell’Etna. 1654».
Benedetto Radice (op. citata) ricorda anche che «[…] la tremenda eruzione del 1651-54, che tanti danni arrecò al paese, seppellendo chiese, case e poderi, investì la chiesetta [di San Antonio da Padova n.d.A.] da tre lati: nord, est, sud; la lava salì fin sul tetto, aderendo strettamente alle mura est e sud, e […] si fermò dinanzi la porta che abbruciacchiò».
Oggi percorrendo la strada, lastricata con basolato lavico, che dalla periferia di Bronte porta al Rifugio di Piano dei Grilli, nella parte iniziale, si ha modo di ammirare la desolazione della Sciara di Sant’Antonio. E’ facile trovare, nella distesa di arida sciara, splendidi esemplari di lave cordate.
Ringraziamenti
Ancora una volta esprimo la mia gratitudine all’amica Marisa Liotta, ottima fotografa, per la sua disponibilità e la sua tenacia, e all’Associazione Bronte Insieme Onlus, curatrice del documentatissimo sito internet www.bronteinsieme.it
Nota (1) Indizione – si tratta di una modalità utilizzata a volte nei manoscritti per individuare un determinato anno. Corrisponde al progressivo dell’anno all’interno di cicli di 15 anni, a partire dal 312 d.C., cicli istituiti dall’imperatore Diocleziano. Così, nel 1647 cominciava un nuovo ciclo quindicennale, e quell’anno corrispondeva alla 1ª indizione. Ne consegue che il 1651, seguente di 4 anni, corrispondesse alla 4ª indizione.
Con il titolo: la bellissima strada lastricata in basolato lavico che attraversa la Sciara di Sant’Antonio
(Gaetano Perricone). Ai consueti ringraziamenti miei e del Vulcanico al grandissimo Santo Scalia per questo ennesimo, straordinario e documentatissimo racconto di un’eruzione storica importante con la descrizione di un luogo tra i più affascinanti del territorio etneo, aggiungo doverosamente un grande grazie di cuore a Marisa Liotta per la generosa disponibilità e il prezioso e appassionato contributo di splendide foto
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