di Maurizio Muraglia*
Ci sono due scuole. La scuola di ogni giorno, quella che vivono i nostri bambini ed i nostri adolescenti, quella in cui insegniamo e operiamo, quella delle ore di lezione e dei libri di testo; e poi c’è un’altra scuola, meno popolare, fatta di leggi, decreti, dispositivi pedagogici, sigle, che attraversa la prima scuola e cerca di trasformarla in senso buono, cioè di portare l’innovazione necessaria a quel che viene chiamato “successo formativo”. Non sempre la prima scuola capisce la seconda, e – chiariamo – non è sempre un bene che questo avvenga. Non si può restare ancorati alla tradizione. Non si può coltivare l’immobilismo.
La seconda delle due scuole opera incessantemente, e si fatica a capire quale sia la direzione di marcia perché tanti sono gli impulsi innovatori. Citiamone qui solo alcuni, che sembrano accomunati da un sorta di filo rosso: la trasversalità, l’insegnamento per competenze, i compiti di realtà, l’alternanza scuola-lavoro, la cittadinanza, il ritorno della vecchia educazione civica. Vi è anche all’esame del parlamento un disegno di legge che introdurrebbe le competenze non cognitive, ovvero tutti quegli atteggiamenti socioaffettivi che gli alunni sviluppano anche a scuola e che, sembrerebbe, esulano dalle discipline scolastiche.
Il filo rosso sembra abbastanza evidente: la seconda scuola diffida della prima e vuole convincerla ad accogliere la vita nelle aule. La vita in tutte le sue sfaccettature, cioè i problemi culturali, il mondo del lavoro, la capacità di essere cittadini, le emozioni, le esperienze. Insomma, sembrerebbe che alla prima scuola si sia attribuita una sorta di patente autoreferenziale ovvero un’incapacità di uscire dalle quattro mura delle materie scolastiche.
Ogni giorno io vivo nella prima scuola. Sono un insegnante perché ho studiato a scuola le discipline scolastiche, poi le ho studiate all’università, su quelle sono stato valutato in un concorso a cattedra ed adesso insegno alcune delle discipline che studiai al liceo. Vedo che i miei colleghi fanno lo stesso e vedo che gli alunni questo si attendono ogni giorno dai docenti: che il prof di scienze insegni scienze, che la prof di arte insegni arte.
Nelle programmazioni degli insegnanti è fortemente richiesto di inserire anche altre cose, oltre alla disciplina insegnata: dimensioni emotive, competenze trasversali, tematiche interdisciplinari, progetti che sollecitano esperienze che vanno al di là delle discipline scolastiche. Perché? Non bastano più le vecchie discipline a formare le intelligenze degli alunni? Perché occorre prescrivere che si affronterà il rapporto uomo-natura, la condizione femminile, il viaggio, il potere, l’amore e altri temi importantissimi, che popolano la nostra vita ogni giorno? Perché si deve esplicitare che verranno trattati questi temi? Perché le ordinanze sugli Esami di Stato raccomandano i “collegamenti”? Cosa c’è da “collegare”?
C’è con tutta evidenza un pregiudizio concepito dalla seconda scuola nei confronti della prima che può essere così formulato: le discipline non bastano più. Ma io che insegno nella prima scuola e che porto in classe la mia disciplina non ho la sensazione che le cose stiano così. E vedo che anche parecchie mie colleghe e colleghi, che insegnano altre discipline, hanno la stessa mia sensazione. Le discipline per parecchi di noi bastano, eccome. E non hanno bisogno della seconda scuola che raccomanda il loro superamento. Che neppure i ragazzi chiedono, quando non odiano le discipline.
Occorre ricordare cos’è una disciplina di studio. Perché solo ricordandolo si può comprendere sia il legittimo tentativo della seconda scuola di rovesciare il tavolo della prima, sia l’altrettanto legittima obiezione della prima a questo tentativo. Una disciplina non esiste nella realtà, ma è solo la realtà che l’ha resa possibile perché essa (la realtà) potesse essere meglio compresa. La realtà è fatta dell’esperienza degli umani e dalla loro riflessione sull’esperienza. La riflessione necessita di strumenti linguistici, matematici, scientifici, filosofici, storici, giuridici, tecnici e via dicendo: strumenti concettuali, dispositivi mentali di ragionamento che permettano di capire quello che accade. A noi e agli altri.
Non ci sono discipline senza esperienza. La seconda scuola vuole portare in classe l’esperienza, ma l’esperienza è già nelle discipline, che da essa partono e ad essa ritornano. Io insegno la letteratura. La letteratura è una disciplina. Quando porto in classe una poesia di Pascoli o una novella di Verga, porto qualcosa che proviene dall’esperienza, dall’esperienza di questi autori, e faccio usare degli strumenti – appunto disciplinari – che consentano di decodificare quell’esperienza affinché ne sia illuminata la nostra esperienza. Se faccio studiare il Gelsomino notturno di Pascoli, mi imbatterò nel rapporto tra vita e morte, nella memoria, nella malinconia, nell’amore. Sono tematiche. È possibile che chi insegna un’altra disciplina si imbatta nelle stesse tematiche. Ma è accaduto perché ha fatto studiare la sua disciplina in modo che non perdesse di vista l’esperienza, la realtà, la vita. È la prima scuola.
La seconda scuola vuole introdurre quel che c’è già in classe. O meglio: quel che dovrebbe esserci. Il problema è che tanta prima scuola si fa in modo pedante, nozionistico ed estraneo alla vita dei bambini e dei ragazzi. Questo annoia molto. E soprattutto genera molto insuccesso. Tanti bocciati. Perché è evidente che se fai studiare le discipline in modo pedante acchiappi alcuni alunni, ma il grosso si perde. E allora arriva la seconda scuola a fare leggi, leggine e direttive intese ad acchiappare i dispersi. A fare una scuola che parli anche di loro. E allora sotto con le tematiche coinvolgenti e le competenze non cognitive. Così finisce che le discipline sono elitarie e le altre cose sono inclusive. Ma quelle elitarie non sono le discipline della prima scuola. Sono soltanto il vezzo accademico di insegnanti aristocratici e fuori dal tempo. Che hanno reso necessaria la seconda scuola.
* Insegnante presso Liceo Europeo Maria Adelaide Palermo
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