di Maurizio Muraglia*

Sulle proteste degli studenti si sono spenti i riflettori. Da un lato l’irrompere sulla scena mediatica del conflitto russo-ucraino, dall’altro la sostanziale alzata di spalle, con qualche parola consolatoria, da parte degli ambienti ministeriali, hanno fatalmente rimesso un velo di irrilevanza sulle rivendicazioni studentesche, le cui ragioni però restano tutte, anche a riflettori spenti.

Nei cortei di qualche settimana fa, la protesta riguardava i percorsi ex alternanza scuola-lavoro – che oggi si chiamano Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento – e l’impianto del prossimo Esame di Stato, terzo in regime di pandemia. Le occasioni per scendere in piazza erano state essenzialmente due: la morte di Lorenzo Parelli nell’ultimo giorno di stage e l’intenzione del ministro di reintrodurre il secondo scritto.

Lorenzo Parelli, lo studente morto il 21 gennaio 2022 a 18 anni mentre svolgeva un apprendistato previsto dal suo percorso di studi.

Quando gli studenti si mobilitano, in genere, si ha sempre la sensazione che la loro misura sia colma di molto altro e che le motivazioni occasionali, pur serissime, assumano la funzione della classica goccia che fa traboccare il vaso. Per questo sono dell’avviso che l’iceberg sia sempre più importante della sua punta e che il malcontento dei nostri giovani provenga da più lontano. Sarebbe ingeneroso, tuttavia, non recare la dovuta attenzione anche alla punta.

Per quel che riguarda la questione dei famosi Percorsi, non è il decesso dello studente, per quanto dolorosissimo, a far pensare che la volontà della politica di curvare la scuola verso il lavoro provenga da un colossale fraintendimento pedagogico, di cui la scuola è simultaneamente vittima e concausa. Fin dall’introduzione dell’obbligatorietà di questi percorsi, risalente alla Legge 107 del 2015 chiamata “Buona scuola”, da più parti, incluso chi qui scrive, si sono levate voci di dissenso. Il lavoro dello studente consiste nello studiare. Studiare non è azione estranea al mondo, alla realtà, al lavoro. Solo quando studiare vuol dire star ripiegati sui libri per masticare idee posticce e restituirle tali e quali agli insegnanti in attesa di un voto, allora è possibile cominciare a vagheggiare una scuola più aperta alla vita e alla realtà. Ma l’impegno intellettuale esercitato a scuola, se improntato a spirito critico, basta a se stesso e alla realtà che circonda lo studente.

Quando stanno nelle aziende, gli studenti osservano e ascoltano, più o meno annoiati. Talvolta danno una mano. Quei luoghi non sono né scuola né lavoro, quindi non c’è alternanza di nulla. Le famose competenze trasversali potrebbero utilmente essere sviluppate con un insegnamento scolastico altamente rielaborativo e cooperativo, al servizio di seri progetti culturali, in tutti gli ordini di scuola. Ma dentro la scuola. Basterebbe qualche rappresentante del mondo del lavoro che fa visita a scuola per illustrare quel che c’è fuori, con funzione di orientamento postdiploma. Ma prima ancora del tragico fatto di cronaca era già possibile affermare che in mille modi la cultura del lavoro avrebbe potuto essere promossa a scuola senza entrare a gamba tesa sui curricoli scolastici, già erosi da mille progetti e mille tagli.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi

La questione dell’Esame di Stato si salda alla prima per il diffuso senso di frustrazione provato dagli studenti in questo ultimo biennio di scombussolamento sanitario e didattico. Hanno percepito nell’iniziativa ministeriale una forma di indifferenza verso il loro disagio ed un interesse precipuo per la loro valutazione. Molto se n’è discusso. Il ministro, tra i più paternalisti e chiusi al dialogo visti negli ultimi anni, ha congedato amabilmente gli studenti promettendo particolare attenzione nella valutazione ed esortandoli a non avere paura perché sono più bravi di quanto non pensino. E pertanto meritano un esame normale. Più paterno di così.

Ma le due questioni, pur sommate, non bastano da sole a scendere in piazza. C’è tanto altro, quello stesso altro che negli ultimi venti anni non è sostanzialmente cambiato e che per un buon decennio ha generato il rituale delle occupazioni. Il problema è che di questo altro non hanno un’idea ben chiara neppure gli studenti, come si vede dal velletarismo confuso delle loro dichiarazioni. Sono scontenti, sono a disagio, sono indignati, sono costernati. Ma poi gettano la spugna con gran dignità. Perché? Perché manca loro un nemico serio. Culturalmente ed educativamente serio.

Quando le forze dell’ordine li hanno picchiati ha fatto male. Ma non li hanno picchiati per le loro idee. Si sono creati disordini magari mal gestiti, ma certamente non era la polizia russa o cinese quella che manganellava. Non ci sono idee represse, ahimé. Il poliziotto esuberante verrà redarguito, ma lo studente è atteso alle idee. Quale visione complessiva della società e del sistema di istruzione è stato portato sotto il naso del ministro Bianchi? Quanto facile è stato per quest’ultimo liquidarsi le rappresentanze con una pacca sulle spalle?

Il problema è che questa generazione non ha davanti a sé una visione lucida e perentoria contro cui combattere. Non ha davanti una dittatura, non ha davanti un modello pedagogico e didattico coerente, non ha davanti adulti autoritari, e neppure tutto sommato un sistema di istruzione radicalmente elitario e selettivo. Non ha niente di tutto questo davanti. Non può coltivare utopie perché per farlo dovrebbe avere davanti a sé interlocutori riconoscibili per un’ideologia insopportabile contro cui lottare. Devono volare basso perché nessuno dà loro torto e nessuno dà loro ragione.

Una manifestazione studentesca del Sessantotto

I ministri sono figure effimere preoccupate di occupare la poltrona per più tempo possibile. I dirigenti scolastici sono troppo preoccupati di evitare i contagi per occuparsi di questioni educative e didattiche. Gli insegnanti cercano di instaurare un dialogo con i ragazzi, ma lo spessore culturale della maggior parte dei docenti in circolazione è opacizzato da preoccupazioni legate a test Invalsi, sicurezza sul lavoro, esamite spinta e burocrazia alle stelle. Stremati anche loro dalla trasformazione della scuola in un gigantesco ufficio disbriga pratiche. Questi ragazzi vorrebbero urlare qualcosa ma hanno due ordini di problemi: identificare il qualcosa ed i destinatari dell’urlo. Viviamo tempi di passioni burocratizzate e pacche sulle spalle. I loro colleghi oggi settantenni che fecero il Sessantotto probabilmente fecero molti errori. Ma a guardare questo spettacolo se li tengono ben stretti.

*Insegnante presso Liceo Europeo Maria Adelaide di Palermo

Con il titolo: un corteo di protesta dopo la morte di Lorenzo Parelli. Le foto dal web 

 

 

 

 

Maurizio Muraglia

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