di Santo Scalia
I miei nonni vivevano a Linguaglossa.
Vi si erano trasferiti appena sposati e già vi abitavano da quasi dodici anni quando, come spesso avviene, scassàu a muntagna!
U nannu Giuvanni era ciabattino, a nanna Pippina gestiva una rivendita di generi alimentari in via Roma, dove vivevano, quasi di fronte alla Chiesa della Santissima Annunziata. Quando nella notte tra il 16 ed il 17 giugno del 1923, esattamente un secolo fa, l’Etna si aprì nei pressi di Monte Nero, mio padre non aveva ancora cinque anni. Non capì molto quella notte, ma avvertì subito che qualcosa non andava per il verso giusto.
Gli abitanti di Linguaglossa, conoscitori del loro territorio, capirono immediatamente che da lì a poco il loro paese sarebbe stato in pericolo. Lo capirono anche a Roma: con grande solerzia, già il giorno 18 erano arrivati in paese il Ministro Lavori Pubblici On. Gabriello Carnazza, il Prefetto di Catania Grande Ufficiale Pericoli e Monsignor Ferdinando Cento, allora quarto vescovo della diocesi di Acireale. I primi si erano precipitati per portare sostegno economico e per far fronte alle prime necessità del comune, il prelato per portare conforto e solidarietà alle anime dei religiosi e degli altri fedeli in un momento così difficile.
I miei nonni, così come tantissimi altri compaesani, raccolsero ciò che di più prezioso avevano: il nonno, che faceva parte della banda del paese, mise in salvo la grancassa e i pochi ferri del mestiere, la nonna preparò le damigiane con l’olio e qualche vestito e, insieme al loro figliolo ebbero la fortuna di trovare, ancora non impegnato, uno degli ultimi carretti trainato da muli. Si diressero a Nunziata di Mascali, dove vivevano i parenti che la nonna aveva lasciato in seguito al matrimonio, e dove trovò affettuosa accoglienza.
Non ebbero così la ventura di vedere il Re in persona! E sì, proprio il Re d’Italia Vittorio Emanuele III il 19 giugno partiva da Roma con un treno speciale alla volta di Fiumefreddo di Sicilia, il paese servito dalla ferrovia che più di Taormina o di Giarre era vicino alle zone sinistrate. Il Re voleva rendersi conto di persona, non attraverso il filtro delle autorità ministeriali, di cosa stava accadendo alle pendici del vulcano.
Alle porte del paese, lungo la statale che va in direzione di Randazzo, si trovano due collinette: sono ciò che rimane di antichissime eruzioni dell’Etna, sono crateri avventizi, come li si definisce con termine vulcanologico. Si tratta del Monte Pomiciaro, a sinistra della strada, e del Monte Santo, a destra. Sono due coni di scorie, brandelli di lava lapilli e ceneri, che si elevano per una settantina di metri circa dal piano della strada.
Ad essere più direttamente minacciate erano due borgate: Cerro, dove si trovava la stazione ferroviaria; e Catena, posta proprio tra i monti Santo e Pomiciaro.
Ed è sul Monte Santo, e subito dopo sul colle San Termini, tribuna privilegiata per l’osservazione del fenomeno, che il Re Vittorio Emanuele, con un codazzo di autorità civili e militari e di giornalisti, fu condotto. Sua Maestà poté trattenersi solo poche ore, ma trovò il tempo di far visita alla popolazione colpita. Il settimanale più diffuso dell’epoca, la Domenica del Corriere, ed il suo famoso illustratore Achille Beltrame, dettero alla nazione un resoconto dell’evento nei numeri 26 del primo luglio e 27 del giorno 8.
Non fu però solo il Re a lasciare Roma per raggiungere la Sicilia: il giorno 20 anche il Presidente del Consiglio Benito Mussolini, appena gli fu possibile rientrò a Roma (si trovava, per motivi istituzionali, a Piacenza e poi a Firenze) e si recò alla stazione insieme al sottosegretario alle finanze On. Lissia. Avrebbe desiderato un mezzo più veloce, ma, come ebbe a scrivere in un telegramma inviato al deputato Aldo Finzi: «Parto per la Sicilia, solo deplorando di dover prendere il solito vilissimo treno di tutti, dopo aver invano cercato un idrovolante».
Frattanto Sua Santità il Papa Pio XI e lo stesso Re elargirono ognuno 50.000 lire, il Consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Roma deliberò un sussidio di 10.000 lire a favore delle popolazioni danneggiate, il Banco di Sicilia destinò la somma di 50.000 lire per i soccorsi immediati ed il Ministero dell’Istruzione accantonò una certa somma da destinare ai fanciulli per far fronte ai loro primi bisogni.
“Sua Eccellenza” Benito Mussolini arrivò il 21 alla stazione di Fiumefreddo alle 7,45 e, in macchina, si recò immediatamente al fronte lavico.
E qui mi piace raccontare un episodio, dei particolari del quale non ho peraltro trovato riscontro nelle cronache dell’epoca, ma che mi è stato raccontato dalla nanna Pippina. Non ho motivo per pensare che la nanna se lo sia inventato: lei diceva di averlo appreso al suo ritorno in paese, terminata l’eruzione. In più, nel lavoro di Antonio Cavallaro del 1987 Eruzioni storiche nel territorio di Linguaglossa, si legge la testimonianza di S. Privitera che, senza riportare il particolare, dà conforto alla veridicità dell’avvenimento: «Alle 11 accogliendo il gentile invito del Vescovo Monsignor Cento, egli [Mussolini] si reca a colazione nel convento dei Cappuccini».
Ed è proprio nel convento che ha luogo la scena dell’aneddoto: infatti forse solo per un errore, forse per un innocente scherzo, forse perché l’illustre personaggio venuto da Roma non godeva della particolare simpatia dei monaci… ma quando Mussolini si congedò dall’ospitalità dei frati si ritrovò tra le mani non il suo cappello, ma un altro, del tutto simile al suo ma di misura nettamente inferiore!
Dopo aver distrutto la stazione ferroviaria di Cerro, la Casa Cantoniera e alcune case della frazione di Catena, per fortuna già il 29 giugno l’eruzione aveva perso vigore ed il 18 luglio si esaurì definitivamente: Linguaglossa era salva.
Da quei giorni sono già trascorsi 100 anni.
Con il titolo: il Re (da sinistra, il primo con il bastone) osserva il fronte lavico dall’alto del Monte Santo. Nella gallery, le foto nell’articolo ingrandite.
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