di Adolfo Fantaccini
Quando Zeljko Raznatovic, meglio conosciuto come ‘Arkan la Tigre’, qualche minuto dopo le 17 del 15 gennaio 2000, venne ucciso mentre si trovava nella hall dell’hotel Continental, a Belgrado, forse, nessuno poteva immaginare che, con lui, se ne sarebbe andata via anche un pezzo di storia del calcio serbo. Un pezzo di storia intrisa di mistero, di bisunti intrecci sportivo-nazionalistici. Arkan, mentre chiacchierava con due amici, venne avvicinato alle spalle da Dobrosan Gabric, un poliziotto in congedo di 23 anni; quest’ultimo, con la rabbia di chi vuole vendicare un intero popolo, gli scaricò addosso numerosi proiettili della sua Cz-99.
Arkan entrò in coma, venne trasportato in ospedale dall’amico Zvonko Mateovic, ma morì durante il tragitto. Gabric uccise anche i suoi due amici, Milenko Mandic e Dragan Garic, risparmiando il solo Mateovic, guardia del corpo giurata di Arkan, che anzì riuscì a colpire Gavric, ferendolo irrimediabilmente alla spina dorsale. Fin qui armi e sangue, gli elementi che hanno caratterizzato la vita della ‘Tigre’, ex capo dell’omonimo plotone di irregolari serbi, ma anche – e qui c’entra il calcio – per anni presidente indiscusso dell’Obilic, la squadra di uno dei quartieri di Belgrado che nel 1998 vinse pure il titolo della ex Jugoslavia, arrivando a disputare (perdendole) anche due finali della Coppa nazionale, ma soprattutto la Champions League.
Arkan è stato l’anima dell’Obilic e, purtroppo, uno degli uomini più sanguinari del secolo scorso. Nato in Slovenia, figlio di un generale dell’aviazione jugoslava, con un nonno eroe della lotta contro i turchi, Zeljko Raznatovic ebbe una gioventù abbastanza turbolenta.
Negli anni ’70 attraversa il mare che separa la propria terra dalla riviera adriatica e sbarca in Italia, dove conosce la prima moglie, quindi viene coinvolto nell’omicidio di un ristoratore e finisce a San Vittore, anziché in uno dei tanti accoglienti alberghetti della costa; viene anche sospettato di essere al soldo dell’Udba, la polizia segreta jugoslava, che controlla i tentativi di opposizione degli emigrati.
Diventa, col tempo, capo della tifoseria della Stella Rossa, considerata da sempre una delle più facinorose e violente, partecipa agli scontri con i rivali della Dinamo, a Zagabria, facendo suonare i primi campanelli d’allarme di uno scontro fra etnie che seminerà dolore, violenza, morte (tanta), nella zona dei Balcani. Nel 1991 fonda il corpo paramilitare, reclutando circa 3 mila ‘tigri’, gente dal passato assai opaco, senza scrupoli, abile con le armi che, per soldi, sarebbe disposta a passare sul cadavere della propria madre.
Un giorno, intervistato nel quartier generale di Erdut, al massimo della propria ‘autorità’, dichiara che i “croati tagliano a pezzi i miei uomini, noi invece ai prigionieri nemmeno li tocchiamo, perché li facciamo secchi con un colpo solo, alla testa”. Durante la guerra in Bosnia, nel 1992, le ‘Tigri’ di Arkan fanno sfracelli: saccheggiano, stuprano, spazzano via i musulmani e, dopo avere fondato il Partito dell’unità serba, Raznatovic entra pure in parlamento. I caschi blu denunciano le razzie dei suoi uomini; alla fine, il Tribunale dell’Aja nemmeno lo inserisce nella lista ufficiale dei ricercati per i crimini di guerra e contro l’umanità.
Ha un portavoce italiano, il comandante Arkan: si chiama Giovanni Di Stefano, è molisano e anche ex presidente del Campobasso calcio. Di Stefano, un giorno, al ‘Guerin Sportivo’ dichiara: “Anche il mandato di cattura internazionale dell’Interpol per genocidio, richiesto dai croati, è stato ritirato grazie a un’amnistia. Quelle su Arkan sono tutte stronzate, anche Pertini e Mandela sono stati in carcere. Lui è una persona rispettabilissima, tutti lo amano”. Alla fine della guerra Raznatovic ordina il rompete le righe, ma ‘conserva’ le migliori ‘tigri’ per sé, come guardie del corpo. Vive in una casa stile Hollywood, nei pressi dello stadio ‘Maracanà’, a Belgrado (il mega-impianto che ospita le partite della Stella Rossa) ed è impegnato a rifarsi un’immagine, anche grazie al calcio. Veste come un uomo d’affari, è impegnato nell’import-export che va dal petrolio, ai giocattoli, alle pelli. Vive bene, Arkan, fino a quando non lo impallinano. Una fine diversa, la sua, da quella di Pertini e Mandela.
Dopo di lui, il 27 marzo 2004, viene giustiziato, con un colpo alla nuca, anche Branko Bulatovic, capo della Federcalcio serba e quell’episodio riporta alla luce gli intrighi fra calcio, malavita e nazionalismo. Del resto, il disfacimento della Jugoslavia non era cominciato con i fatti del 13 maggio 1990, con gli incidenti nel derby serbo-croato fra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado? Quel pomeriggio di maggio del 1990, quando l’arbitro stava per dare il fischio d’inizio, scoppiò il finimondo sugli spalti e in campo, dove Zvonimir Boban, poi passato al Bari ed al Milan, aggredì un poliziotto (adesso è ai vertici della Fifa). Arkan era a pochi passi e dopo avrebbe seguito fino alle fine il leader serbo Milosevic.
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