di Santo Scalia
Non avevo mai partecipato ad una competizione letteraria. E mai avrei creduto di poter vincere un premio! E invece, partecipando al Sicilia Dime Novels di Mascalucia Doc è arrivato il Premio Speciale Andrea Camilleri.
La novella che ho presentato aveva dei vincoli dati dal regolamento: massimo 10.000 caratteri, spazi compresi. Ne sono venute fuori tre pagine, ed ho voluto ambientare i fatti raccontati nel lontano 1928, mentre era in corso la distruttiva eruzione dell’Etna che distrusse quasi totalmente la cittadina di Mascali. Ho voluto qui arricchire il testo con poche immagini dell’epoca, tratte dalle mie collezioni.
ERA NOVEMBRE
In paese pochi conoscevano i cognomi dei compaesani, tutti ne conoscevano invece u ngiuriu. Questo identificava le persone, ma a volte anche la stirpe: u ngiuriu lo si riceveva – quasi fosse un battesimo – per proprie caratteristiche fisiche (così come era accaduto a Turi Ciunchella o a Mara a Mustazza) o lo si ereditava per l’appartenenza alla famiglia (come Neddu u Saristanu o Ciccu Coppulastorta) o ancora per la provenienza (Anna a Missinisa o Fina a Santaffiota).
U Zu Jangilu Mallampa – uomo concreto, sbrigativo, di un’energia irrefrenabile – era figlio di Saru Mallampa, figlio questo a sua volta di Angelo Parisi, che per un misto di fortuna e di sventura, mentre un giorno tornava a casa dalla campagna, sotto un diluvio di pioggia, lampi e tuoni tali da fermare il cuore, fu colpito da un fulmine. Per sua fortuna il suo paracqua aveva il manico di legno, e la scarica lo colpì solo di striscio; nonostante ciò rimase stordito per il resto della sua vita: era, come si diceva, allampato.
Jangilu aveva da poco terminato di costruire la sua casa o Scarruni, sulla strada per San Giovanni. I vicini la chiamavano u palazzettu, perché si differenziava dalle altre case dei dintorni, tutte ad unico piano; u palazzettu, oltre ad avere un ampio deposito a livello della strada, aveva un primo piano con ampie stanze dai soffitti altissimi, ed una soffitta per scatafotterci – come amava dire lui – tutte quelle cianfrusaglie inutili, ma che un giorno avrebbero potuto tornare utili.
Successe tutto il giorno dopu u jornu i’ santi, il venerdì due novembre, ‘nto jornu de’ morti: quasi tutti i paesani erano stati al cimitero, poco fuori Mascali: al ritorno, mentre gli uomini si trattenevano ‘nta Chiazza, qualcuno vide una bella fumata sopra la cima dell’Etna. Dalla piazza di Nunziata, infatti, dell’Etna si vedeva solo la cima.
«A Muntagna s’arrimina, ‘sà chi voli fari» disse qualcuno, senza però agitarsi più di tanto.
Lunedì mattina, era il cinque, di buonora Jangilu si vestì e scese in piazza: aveva quasi un presentimento, una sensazione epidermica, come di qualcosa che non andasse per il verso giusto. Incontrò Pippinu, suo cognato, parlò con lui dell’appezzamento di terreno che questi stava per acquistare giù, dopo le ultime case del paese, e nel quale avrebbe voluto realizzare la casa per se stesso, per Pitrina, sua moglie, e per gli otto figli. Pippinu aveva già sborsato la caparra e stava cercando di ingaggiare na para di giuvini e di carusi.
Poco dopo, qualcuno che scendeva da Puntalazzo o da Sant’Alfio portò la notizia: «Scassau a Muntagna! Stanotti scassaù supra a Giuliana, u focu scurri ‘nte Fossi i’ Santoru!».
«Minchia!» esclamò Jangilu Mallampa; «Voi vidiri ca si porta di quattru pedi di cirasi ca haiu supra u Sautu Corvu?». Cicciu Coppulastorta, che si trovava lì vicino, a sua volta aggiunse: «Ma di chi vi preoccupati, d’i campagni? D’i nostri casi n’ama a preoccupari!».
E aveva ragione. Se la lava era fuoriuscita sopra la contrada Giuliana, allora in pericolo c’erano terreni e paesi che, più a valle, si trovavano lungo il corso dei due vadduni della zona, il Torrente Pietrafucile (che attraversava il centro di Mascali e lì diventava u Vaddunazzu), ed il Torrente Corvo, che invece attraversava Nunziata, proprio qualche decina di metri più in là di dove loro si trovavano.
Zu Jangilu Mallampa si rabbuiò in viso, fece un rapido calcolo, poi sentenziò: «A Muntagna a mia m’annaca! Jù a casa ma fici o Scarruni» e sogghignò, certo che, data la posizione sopraelevata del quartiere dove lui aveva costruito, l’avrebbe scampata. Intanto la Muntagna faceva la sua scelta: lasciò perdere il Torrente Corvo e incanalò invece la sua lava nel Pietrafucile.
Forse Nunziata non sarebbe stata distrutta ma, se la lava non si fosse fermata prima, per Mascali non ci sarebbe stato scampo!
E la lava, inesorabile, non s’arrestò prima di giungere alle prime case di Mascali: guidata dal tracciato del Vallonazzo, arrivò proprio al cuore del paese.
Leonardo Caltabiano, per tutti Nardu u Carritteri, stava attonito accanto alla chiesa del Calvario, proprio sotto Nunziata: aveva riposto tutta la sua fiducia nel Santo Patrono del paese, del quale lui stesso portava il nome: Leonardo, Lunardu.
Non solo il Santo era stato incapace di salvare il paese, ma per giunta proprio nel giorno della sua festa, il sei di novembre, il paese era stato cancellato dalla lava! Viva San Lunardu aveva gridato a squarciagola fino a quando la Chiesa Madre, la “casa” del Santo, non era crollata: prima la copertura della navata centrale, poi la grande cupola ed infine la facciata che nella sua sommità ospitava le campane.
Fu proprio quando le campane caddero insieme alle macerie della facciata, emettendo un ultimo, lugubre rintocco, che Nardu, rimarcando l’impotenza dimostrata dal suo Santo ma ricordando che invece, pochi giorni prima, un altro Santo Protettore, Sant’Alfio, aveva fatto il suo dovere salvando l’omonimo paese, pianse. Qualche compaesano vicino a lui cercò di consolarlo: «Nardu, non fari accussì!»; con voce sommessa, scandendo le parole, lui rispose: «Jù non mi chiamu chiù Lunardu, jù ora mi chiamu Affiu!».
A Nardu non rimaneva più né una casa, né un lavoro, e nemmeno la fede.
Neanche i morti avevano avuto pace: poco prima che la lava arrivasse a ghermire le case del paese la tranquillità del cimitero era stata turbata dal duro rumore dei massi che avanzavano tra le cappelle e le croci. Mentre i cipressi si accendevano come fiammiferi le lapidi di marmo spezzate dall’impeto della colata si frantumavano, emettendo a volte sordi rimbombi, a volte schiocchi secchi, come di frusta.
Dalle cappelle squarciate alcune bare venivano rivoltate, cadevano dai loculi e poi venivano ricoperte dai massi. Solo i resti dei più poveri, quelli sepolti nella terra, furono rispettati: ricoperti dalla coltre incandescente furono sigillati per sempre, e ancora stanno lì, sotto metri e metri di pietre. Nessuno sa dove esattamente siano, nessuno può portare loro un fiore, nessuno li va a trovare nel giorno dei morti.
Intanto Jangilu Mallampa non si frenava più nel magnificare la sua scelta di costruire la sua casa proprio lì dove l’aveva costruita, allo Scarruni; vi aveva ospitato la sorella Pitrina, suo marito Pippinu ed i loro figli. Lui di suoi ne aveva soltanto tre, ma era ben felice di aggiungerne, anche se temporaneamente, altri otto. L’autunno era già avanzato e Jangilu aveva fatto, come sempre faceva, scorte di olio, vino, castagne e farina. Le sue terre, tra il Carmine e San Giovanni, non erano sotto lo scacco del vulcano, in quella partita che ormai era stata chiusa con un matto dato al paese di Mascali. Buttigghi ‘i sassa ce n’erano a volontà, u strattu riempiva varie burnie e di truiaca sicca ce n’erano pieni sacchi interi.
Più di una volta, in quei giorni di fuoco, Mallampa ricevette la visita di Patri Don Pippinu – il sacerdote Don Giuseppe Patanè – che oltre ad essere l’arciprete della chiesa madre di Nunziata, si dilettava a far fotografie: saliva per Via Etnea portandosi dietro il treppiedi di legno, la sua camera oscura e un paio di lastre di vetro; poi, giunto alla chiesetta della Nunziatella, imboccava la stradina detta da’ Chiazzetta e quindi, superato il vadduni, saliva per la scorciatoia che giungeva alla fontanella: qui era d’uso fermarsi qualche minuto, rinfrescarsi bevendo un paio di sorsi direttamente do cannolu e sedersi sul muretto per riprendere le forze.
Jangilu lo guardava arrancare dall’alto del suo balcone e, non appena lo vedeva arrivare alla fontanella, ordinava: «Nedda, metti supra a cafittera, sta vinennu u parrinu!». Don Pippinu, sorbito il graditissimo caffè (non tutti si potevano permettere di gustarlo, era cosa da benestanti, e Jangilu lo era), montava il treppiedi sul balcone d’arreri, da dove lo sguardo spaziava da Porto Salvo a Nunziata, e poi da Mascali fino Riposto ed oltre, finanche alla Torre di Archirafi, e dopo aver inserito la lastra nelle apposite scanalature della camera scattava e cominciava a contare… unu, dui, tri, quattru!
«Chisti su pi chiddi ca Mascali non l’ana vistu, e no ponnu vidiri chiù!».
Una cosa buona la lava l’aveva fatta: il terreno che Pippinu avrebbe voluto comprare da Don Marianu Patanè – Fasulinu per tutti i mascalesi – ora valeva meno della metà di quanto non valesse soltanto pochi giorni prima. Bisognava solo avere pazienza, e aspettare che la furia del vulcano si calmasse, che lo stradone per Piamunti venisse riaperto – cosa che la Milizia avrebbe sicuramente fatto al più presto – prima di cominciare a spianare e tracciare il perimetro delle fondamenta con la calce bianca.
E Pippinu la pazienza ce l’aveva.
(Gaetano Perricone). Sono stato molto felice di partecipare ad una serata speciale per il mio carissimo amico Santo Scalia, “contributor” fondamentale per questo blog IlVulcanico.it e formidabile “memoria storica” dell’Etna: è andato a lui, autore del bellissimo racconto “Era novembre” ambientato durante la grande eruzione di Mascali 1928 il prestigioso premio speciale dedicato al grande Maestro Andrea Camilleri per un testo che valorizzasse la storia e la tradizione culturale siciliana, nell’ambito della quarta edizione del sempre più qualificato concorso letterario “Sicilia Dime Novels” promosso dalla brillantissima Associazione Mascalucia Doc nello scenario del Parco Trinità Manenti. Un premio davvero da incorniciare, che riconosce la eccellente capacità di narratore e la scrittura semplice, efficace e precisa, lineare con una sola parola, di Santo, uomo di scienza e di cultura di grande spessore, con un tratto di signorilità e sobrietà rarissimo in questi tempi pieni di esibizionismo e autoreferenzialità. Congratulazioni di vero cuore e ad maiora, grande Santo: è un onore e un privilegio per il nostro blog pubblicare per intero il tuo emozionante racconto, pieno di suggestioni, e mi sento di ringraziare molto la carissima Francesca Calì, presidente di Mascalucia Doc, per averci dato l’ok per l’anteprima sul Vulcanico
Commenti recenti