di Santo Scalia
Sono trascorsi 230 anni dall’ultima eruzione etnea del Settecento. In quell’occasione si formò la depressione oggi nota col nome di Cisternazza e una colata lavica, sgorgata dalla parete della Serra del Salifizio – esterna alla Valle del Bove, cioè quella che guarda a meridione – arrivò a minacciare il paese di Zafferana Etnea.
Nel corso del XVIII secolo la fisionomia del versante meridionale dell’Etna mutò considerevolmente; cerchiamo di immaginare, infatti, quale potesse essere stato l’aspetto del vulcano agli inizi del Settecento: non c’era ancora la Montagnola (formatasi nel corso dell’eruzione del 1763 a circa 2500 metri di quota); non esistevano nemmeno i Monti Calcarazzi (sarebbero sorti nel 1766); né i Crateri Silvestri, destinati a nascere lì vicino, ma nel corso di un’eruzione che sarebbe avvenuta nel secolo successivo!
Salendo da Nicolosi per andare alle zone sommitali dell’Etna, una volta superati i grossi coni di Monte San Leo, della Sona, il Manfrè e lasciato a sinistra il Monte Vetore, non si sarebbero incontrati altri considerevoli rilievi, ma si sarebbe potuto ascendere fino al Piano del Lago e da lì direttamente andare al Gran Cratere.
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L’abate Francesco Ferrara, nella sua opera Storia generale dell’Etna, pubblicata nel 1793, descrive così l’attività del vulcano avvenuta nel corso dell’anno precedente, il 25 di maggio: «Il giorno 25 nel piano del Lago a quasi tre miglia dal cratere nella direzione del sud-est i sforzi dei vapori aprirono un fosso di quasi 40 piedi di larghezza, dal quale per molti giorni in mezzo ad una immensa quantità di fumo nero furono ejettate a grande altezza, pezzi di lava antica, e scorie antiche tutte bagnate, e masse di argilla così insuppata d’acqua che impastavasi […]»
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Era nato un nuovo pit crater (secondo l’odierna terminologia), una profonda depressione dalle pareti molto ripide. Col tempo la profondità del pozzo è andata a diminuire, mentre la pendenza delle pareti – a causa di crolli successivi – si è lentamente addolcita.
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Anche il Canonico Giuseppe Recupero (nell’opera postuma Storia naturale e generale dell’Etna – Tomo I, pubblicato nel 1815) descrive tale attività, sottolineando l’assenza di materiali incandescenti: «Negli ultimi di Maggio il Vulcano era in gran travaglio; […] una gran parte del piano del Lago in fatti è stata squarciata da considerabili e numerose fenditure, e da un orrido sprofondamento detto oggi Cisterna […] da cui uscì soltanto fumo».
La formazione del cratere a pozzo (pit crater) denominato inizialmente Cisterna, oggi noto come la Cisternazza, sembra quindi essere dovuto ad una attività di tipo freatico e non freato-magmatico.
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Il giorno dopo, il 26 maggio, nella zona sud-occidentale interna alla Valle del Bove «[…] aprissi nuova voragine oblunga di più di 20 piedi di larghezza, dalla quale sboccò un torrente picciolo di lava, che scorrendo il pendìo dell’altura, andò a guadagnare il fondo del Trifoglietto» [da F.Ferrara, opera citata].
L’attività del vulcano riprese nel primo giorno del mese successivo, quando «[…] nella parte meridionale dell’Etna, e quasi alla sua metà, sull’altura medesima del Solfizio, in faccia a Catania […] si aprì una nuova voragine dalla quale è uscita dopo la lava di questa immensa eruzione». [da F. Ferrara, opera citata].
Ed effettivamente, l’eruzione che ne seguì generò un esteso campo lavico che da quota 1900 – dove si erano aperte due bocche – si spinse fino ad una elevazione di 610 metri, alle porte meridionali della cittadina di Zafferana Etnea. Seguendo gravitazionalmente il pendio, le lave si orientarono verso est, invasero – come ricorda il Recupero – «[…] tutta quella vasta pianura dell’Arcimisa. La montagna conica dell’Arcimisa restò in gran parte seppellita da questa copiosa ed alta corrente di lava. […] Da qui il torrente focoso diviso in cinque braccia proseguì il suo corso nelle contrade di Cassone, distruggendo e snaturando tutte quelle fertili campagne, che incontrò nel suo passaggio, ed andò finalmente a devastare le vigne in faccia della Zafarana» [da G. Recupero, opera citata].
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Lo storico Recupero aggiunge ancora: «Non puossi formare idea dell’immensità di questa eruzione. L’Etna è stato in gran travaglio per più di un anno […]». In mancanza di date certe si stima che l’eruzione si sia protratta per circa 355-380 giorni, emettendo un volume di circa 90 milioni di m3 e ricoprendo una superficie approssimativamente di 8 Km2.
Le colate laviche fuoriuscite dalle bocche apertesi sul costone meridionale della Serra del Salifizio, come già detto, arrivarono a minacciare Zafferana Etnea, avendo raggiunto una lunghezza di circa 6 chilometri e mezzo.
Zafferana, città che duecento anni dopo avrebbe rivissuto l’incubo dell’invasione lavica, nel 1861 volle ricordare l’evento innalzando un altarino votivo alla Madonna della Provvidenza.
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Un altro ricordo dell’eruzione si trova oggi all’interno del Palazzo Municipale della cittadina, dove è custodito un grande dipinto (di autore a me ignoto) raffigurante la statua della Madonna della Provvidenza che viene portata in processione davanti alla corrente lavica.
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La stessa scena, vista da un’altra prospettiva, è raffigurata nel Portale bronzeo della Chiesa Madre di Zafferana, realizzato nel 1991, opera dell’artista Giuseppe Cristaudo.
Con il titolo: particolare del dipinto raffigurante l’eruzione del 1792 (Zafferana Etnea, Palazzo Comunale – Foto S. Scalia)
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