di Santo Scalia

 I vulcani, è risaputo, emettono fuoco. A volte però, e ciò può sembrare un controsenso,  emettono anche acqua! Un fenomeno di questo genere, a leggere le cronache del tempo, è avvenuto anche sul nostro vulcano, l’Etna, nel 1755.

Ricercando fonti che testimoniassero quanto avvenne in quell’anno ho trovato, nella sezione European Libraries del sito Archive.org, un Estratto d’una lettera scritta dalli giurati, e sindico della citta di Mascali in data de’ 12 del corrente Marzo 1755.

La lettera, scritta come si legge dal titolo dalli Giurati e dal Sindico della Città di Mascali,  fu inviata alla Capitale – Palermo – il 12 di marzo del 1755, e narra dello spaventevol occorso del Mongibello, fenomeno avvenuto solo pochi giorni prima, il 9 dello stesso mese: «Domenica 9 del succennato corrente Marzo circa le ore 18 diè principio il Mongibello a strepitosamente, ed orribilmente eruttare, mandò dalla sua bocca quantità di fuoco, e fumo. Verso le ore 22 del giorno stesso videsi l’aria tutta denigrata, e di nera sabbia coperta, ed all’ore 24 incominciò una pioggia di Pietre, grossa ogn’una d’esse fino al peso di oncie tre, non solo per tutta la detta Città di Mascali, e suo territorio, ma in tutti i quartieri, e fuori; quale pioggia continuò per infino ad un’ora ed un quarto di notte, sembrando l’universal Giudizio sì pell’oscurità dell’aria, che per l’orribilità degli erutti del Monte, e pioggia di Pietre. Cessate le Pietre sopravvenne una pioggia d’Arena nera, che seguì per tutto il restante di quella notte. L’indimane lunedì ad ore 14 scaturì dalle falde del Monte quasi un fiume d’acque, che nel corso d’un mezzo quarto d’ora non solo inondarono le impraticabili sciare al Monte convicine, quali in larghezza di salme 10 in circa di terreno estendonsi; ma ad un batter d’occhio terminate le acque, quelle impraticabili sciare rendettero carrozzabili in una vasta pianura d’Arena».

Gli autori della missiva aggiungono un altro particolare interessante: «Un Villano, che ritrovossi presente ad un sì orrendo spettacolo, volle per curiosità toccare quell’acque, e se gli restarono bruggiate le sommità delle dita». Le acque venute giù dal vulcano erano quindi calde, anzi, caldissime! Poi, «terminate le acque dal quel medesimo buco scaturì un piccol ruscelletto di fuoco, che scorrendo per ore 24 alla fine terminò». Ma non era finita: il giorno successivo, martedì 11, il fuoco ricomparve «[…] a guisa d’un fiume colla larghezza di canne 60 in circa […]» e questo arrecò parecchi danni alle campagne.

Nello stesso anno 1755 il Canonico Giuseppe Recupero (1720 – 1778) aveva pubblicato la sua memoria con il titolo Discorso storico sopra l’acque vomitate da Mongibello, e suoi ultimi fuochi avvenuti nel mese di marzo del corrente anno MDCCLV.

Da Storia naturale e generale dell’Etna di Giuseppe Recupero (1815)

Nel 1815, sessant’anni dopo l’evento, venne pubblicata postuma l’opera del Canonico Storia naturale e generale dell’Etna; alla pagina 85 egli descrive quanto allora accaduto:

Da queste due fonti storiche apprendiamo che il gran Vomito d’acqua, “l’avvenimento strepitosissimo accaduto nei primi di Marzo nell’Etna”, si era manifestato proprio mentre il Recupero era sofferente a causa di una “fastidiosa terzana” (una febbre, di natura per lo più malarica, che dà luogo ad accessi febbrili ogni terzo giorno, n.d.A.). I Giurati di Mascali, come abbiamo già visto, informarono del “prodigio mai veduto” il Vicerè a Palermo. Questi incaricò allora l’Abbate Vito Amico, che a quel tempo dimorava presso l’Abbazia Benedettina di Monreale, che a sua volta… incaricò il Canonico di indagare e riferire.

Incisione allegata alla Storia naturale e generale dell’Etna di Recupero, raffigurante il percorso delle acque.

Rimessosi in salute, il due di aprile (circa un mese dopo l’accaduto), il Recupero si recò sull’Etna nelle zone interessate dallo strano flusso d’acqua e successivamente stilò una Relazione che inviò all’Abbate Amico e che poi lesse nellAssemblea degli Etnei. Apprendiamo così che il vulcano era in agitazione già dall’inizio dell’anno, fino a quando, il giorno 9 marzo, si aprì «[…] una voragine nella terza regione orientale dietro la Roccia di Musarra vicino del Monte di Sciara pizzuta. Sgorgò da essa un profluvio di materia infocata che scorsa rasente il M. Finocchio si arrestò a lato della Roccia Capra; e questa lava si computa presso a tre miglia. […] »

Nel corso delle osservazioni nella Valle del Bove, il Canonico notò coma tutta l’ampia pianura della Sciara di Monte Lepre fosse «ricoverta tutta di nere arene» ed incontrò «un ampio seno, o letto, per ove passata era una ben larga fiumana, che traeva la sua origine, per quanto l’occhio mi suggeriva, dalle falde di Mongibello». Continua poi il Recupero: «La larghezza di questo gran letto, in cui depositate furono dalle piene numerosissime liscie pietre, da me esattamente misurata, la trovai di cento quaranta sei palmi Siciliani.» Poco più in là il Canonico notò «quattro altre striscie come di tanti fiumi, pressochè al detto letto uguali nell’ampiezza, che serpegiando per le Sciare del Finocchio, e unendosi in due braccia […] ed accoppiandosi al primo letto da Noi poc’anzi descritto, fe’ capo al suo corso sopra le Sciarelle assai basse, e piane dette della Capra […]».

Cosa era accaduto? Nella lingua giavanese, la lingua di tipo indonesiano parlata a Giava, esiste un termine che viene utilizzato proprio per indicare tale fenomeno: il termine in questione è lahar, ormai entrato nel gergo vulcanologico, e sta ad indicare una «colata di fango formata da materiale piroclastico, che scende per gravità dopo essersi imbevuta di acqua lungo i fianchi di un vulcano» (Treccani). Un lahar quindi costituisce un effetto collaterale dell’attività di un vulcano. Nel caso specifico, tra il 9 ed il 15 marzo 1755, dei flussi lavici si erano diretti, raggiungendolo, verso il Monte Cagliato. Nel corso della breve eruzione (durò infatti solo sei giorni) si formarono dei lahar come risultato del repentino scioglimento del manto nevoso ivi presente.

Dal quotidiano La Sicilia del 29 marzo 1983 (collezione personale)

In tempi più recenti qualcosa di analogo è accaduto sul vulcano, anche se in scala nettamente minore: il 28 marzo, poche ore dopo che con l’emissione di lava era cominciata la famosa eruzione del 1983, una “campagnola” dei Vigili del Fuoco con due uomini a bordo, avvicinatasi al teatro eruttivo per monitorare la situazione, fu investita «da una vera e propria valanga d’acqua e di fango, provocata dal repentino scioglimento di una grande massa di neve al contatto con la lava».  La notizia, riportata dal quotidiano catanese La Sicilia (nell’edizione del 29 marzo), precisa che «la campagnola, allora, s’è rovesciata per tre-quattro volte, finendo fra i costoni lavici e restando gravemente danneggiata mentre i due vigili, in stato di choc e leggermente feriti, subito soccorsi, sono stati trasportati nell’ambulanza dei volontari della CRI e sottoposti alle necessarie cure».

In misura molto più contenuta, anch’io avevo visto scorrere dell’acqua, davanti al fuoco delle colate; la spiegazione del fenomeno però, analizzando velocemente la situazione, mi era apparsa subito chiara: nei primi giorni di aprile del 1971, in prossimità dell’osservatorio Vulcanologico di quota 3000, si aprirono delle bocche eruttive e fiumi di lava invasero il Piano del Lago. Era la prima volta che mi avvicinavo ad una colata lavica e, oltre a prendere coscienza del pericolo dato dalle esplosioni freatiche causate dal vapore derivante dallo scioglimento della neve e catturato al di sotto della lava che scorreva, ho avuto l’opportunità di osservare, davanti al fronte lavico, ma anche dal di sotto delle morene laterali del flusso, lo scorrere di moderati rivoli d’acqua sporca di sabbia vulcanica, data dalla fusione della coltre nevosa al contatto con la lava. Si trattava, in scala ridotta, di mini-lahar che fortunatamente si esaurivano dopo aver percorso pochi metri.

Un altro fenomeno, legato anch’esso alla fusione di grandi masse di neve o ghiaccio, avviene in Islanda, isola nella quale sono numerosi i vulcani che giacciono ricoperti da grandi ghiacciai. Spesso le eruzioni subglaciali, prima ancora di riuscire a perforare le grandi calotte di ghiaccio, generano enormi quantità di acqua che, quando viene a giorno – spesso a grandi distanze dal vulcano – crea terrificanti fiumi di fango, ghiaccio e massi che scorrono distruggendo tutto ciò che trovano innanzi a loro. Gli islandesi chiamano questo fenomeno Jökulhlaup, parola che in islandese significa “corsa del ghiacciaio”.

 

Per meglio capire la pericolosità del fenomeno basti pensare al 5 novembre 1996, quando «[…] alle 8.30, un violento jökulhlaup si abbattè sulla pianura di Skeidarár. Il fiume Skeidará aumentò la sua portata di 100 volte nell’arco di 2 ore, trasportando blocchi di ghiaccio alti anche 15 m. Dopo 52 ore di piena, tra il 7 e l’8 novembre, il fenomeno si concluse» (dal sito Viaggio in Islanda).

Ciò che rimane di un ponte in ferro dopo il passaggio dello jökulhlaup del 1996 [Foto di Jennifer Berk da Flickr – Licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)]
Ciò che rimane di un ponte in ferro dopo il passaggio dello jökulhlaup del 1996 [Foto di Jennifer Berk da Flickr – Licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)]

 

Con il titolo: particolare del frontespizio della riedizione dell’opera del Recupero, pubblicata da Aldo Forni nel 1991

 

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