di Adolfo Fantaccini (Ansa)
La presenza scenica è quella di sempre, i capelli e i baffi brizzolati lo specchio di una vita stravissuta e straviziata, forse anche un po’ troppo spericolata. Anche se, quando si parla di Enrico ‘Ricky’ Albertosi, che oggi varca la soglia degli 80 anni, la parola troppo sembra dissipata.
E’ ancora in forma, Ricky, che ha scelto di invecchiare a Forte dei Marmi, sembra sul punto di staccarsi da terra e, con uno dei suoi spettacolari colpi di reni, alzare il pallone sopra la traversa. “Invece, sono pieno di acciacchi – scherza lui – ma non mollo. Ci mancherebbe”. Se fosse un film, il vecchio Ricky, sarebbe stato ‘La dolce vita’ di Fellini. Ma lui, in fondo, voleva solo parare. Ci riuscì e, al netto dello scandalo scommesse che nel 1980 fece sprofondare nel fango il Dio pallone, probabilmente è diventato il più grande.
Ha conquistato vittorie impossibili, come lo scudetto a Cagliari nel 1970 o quello della stella nel 1979 con il Milan; ha giocato partite assurde e magnifiche, come Italia-Germania 4-3 a Città del Messico nel Mondiale 1970; ha effettuato parate impossibili, come quando nel 1978 a Vicenza – fra i fiocchi di neve – respinse tre tiri di seguito, volando da un palo all’altro per salvare l’1-1.
Tutto comincia nel 1958: “Arrivo alla Fiorentina dallo Spezia e faccio subito il secondo a Sarti. Devo penare 5 anni prima di diventare titolare e questo nonostante fossi nel giro della Nazionale, al punto da andare al Mondiale in Cile come terzo di Lorenzo Buffon e Mattrel. Una volta, Giuliano (Sarti, nrd) mi incrocia e mi dice: ‘Tu andrai pure in Nazionale, ma nella Fiorentina il titolare sono io’. Una volta esistevano davvero le gerarchie. La gavetta mi è servita, ho imparato tanto da lui, anche solo guardandolo”.
Nel 1966 Albertosi è tra gli azzurri umiliati dalla Corea del Nord al Mondiale inglese; nel 1968, anno della conquista dell’Europeo a Roma (salta semifinale e finali per la frattura di un dito) viene ceduto al Cagliari proprio alla vigilia del secondo scudetto dei viola. Una beffa. “Sul momento penso a una punizione – ricorda Albertosi -: mi aveva chiamato Italo Allodi, dicendomi che ero dell’Inter. Quando il presidente della Fiorentina mi dice che ero stato ceduto, rispondo: ‘Lo so’. Ma non era come pensavo: finisco al Cagliari. La prima reazione è di rifiuto, ma non si poteva. Parto a malincuore, ma è una scelta fortunata. Arriviamo secondi il primo anno, nel 1969/70 vinciamo lo scudetto con il record di minor gol subiti in 30 partite: 11. Vincere uno scudetto a Cagliari non è come vincerlo nella Juve, nel Milan o nell’Inter”.
La stagione si conclude con il Mondiale messicano. “I cagliaritani eravamo in sei – ricorda Albertosi -. Davanti a noi solo il ‘dream team’ brasiliano capeggiato da Pelè, ma Italia-Germania è nella storia. Quel 4-3 fa impazzire l’Italia e noi nemmeno ci rendiamo conto di cosa avevamo fatto. In Messico arrivavano notizie frammentarie di festeggiamenti in piazza”.
In Nazionale, Albertosi viene scavalcato dal rivale Zoff, nell’estate 1974 finisce al Milan. “Comincia un’altra storia – ammette – culminata con lo scudetto 1979: quello della stella. Come a Cagliari con Scopigno, nel Milan trovo un allenatore intelligente e sensibile: Nils Liedholm. Mi chiedeva sempre: ‘Vieni al cinema con la squadra o vai all’ippodromo’?. E io: ‘Mister, se posso scelgo i cavalli’. Alle 19,30, però, ero a tavola con gli altri. Con loro non mi sentivo in gabbia e allora davo il 200%. Nessuno mi imponeva nulla e io ricambiavo”.
Purtroppo il quinquennio milanista si conclude con la vicenda del calcioscommesse, nella quale si è sempre avuta la sensazione che il portierone del Milan fosse finito più per la nomea di scommettitore incallito. “Io ho sempre giocato per vincere, non per perdere – s’infervora Ricky, che addirittura viene portato a Regina Coeli -. Riferìi una telefonata nella quale mi si chiedeva di fare vincere il Milan, non di farlo perdere. Sono due cose completamente diverse. Pagai perché avevo 41 anni ed ero il più vecchio: chi giocò per perdere fu punito meno. Ma è acqua passata. Se è vero che in carcere ho mangiato la migliore matriciana? Confermo. C’erano tanti ‘ospiti’ che cucinavano molto bene”.
L’amicizia con Gigi Riva e la rivalità con Zoff. “Gigi è un amico vero – dice Albertosi -. Dino? Per causa sua non feci il Mondiale in Argentina: sarebbe stato il quinto. Disse a Bearzot che, con me in panchina, non si sentiva tranquillo, così restai a casa. In Argentina sarei andato anche come magazziniere. Lo criticai dopo i gol dalla lunga distanza, lui se la prese e, quando ci trovammo in un Juve-Milan, fece il giro largo, evitandomi. Lo ritrovai anni, ci abbracciammo”.
“Chi è il nuovo Albertosi? Donnarumma non lo è ancora. Perin mi somiglia tantissimo. Come me è spericolato e spettacolare. Anche Sirigu è bravo, però Meret è un’altra cosa … Chi scegliere tra Albertosi e Zoff ? Che domanda. Mi convocherei al 100%. Il portiere deve parare il parabile, l’i,parabile non glielo chiede nessuno. Beh, a me di parare l’imparabile riusciva abbastanza”.
Con il titolo: Mexico ’70, Italia-Germania 4-3, una parata di Albertosi (dal web)
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