FONTE:INGVVulcani
di Flora Giudicepietro e Patrizia Ricciolino
Il Vesuvio incornicia il Golfo di Napoli costituendo un elemento paesaggistico di grande suggestione e bellezza (Figura 1). L’interesse storico-naturalistico che da sempre suscita questo vulcano lo rende meta di un continuo flusso di turisti, che ogni anno, numerosissimi, visitano la zona del cratere. Ma il Vesuvio è anche un vulcano ad alto rischio a causa del suo stile eruttivo altamente esplosivo e della elevata densità abitativa delle aree circostanti. L’urbanizzazione intorno al Vesuvio è iniziata in tempi molto antichi e l’impatto delle eruzioni sulle attività umane è stato grave, come testimoniano le rovine dell’antica Pompei, distrutta dall’eruzione pliniana del 79 d.C.. Per queste ragioni, il Vesuvio è stato anche uno dei primi vulcani ad essere equipaggiato con strumenti di monitoraggio.
Pioneristiche misure strumentali sono iniziate nella prima metà dell ‘800, quando è stato fondato l’Osservatorio Vesuviano (1841). Presso la sede dell’Osservatorio Vesuviano, a circa 600 metri di quota sul Vesuvio (Figura 2) nel 1856, fu installato il primo strumento sismometrico, nel sito che tuttora ospita una stazione sismica (OVO). In quel periodo, il Vesuvio era molto attivo e le sue eruzioni effusive ed esplosive spesso causavano danni alle aree circostanti. Allo stesso tempo, l’attività eruttiva del Vesuvio era un’attrazione turistica che attirava viaggiatori da tutto il mondo.
L’innovativo strumento, definito sismoscopio (Figura 3), progettato e realizzato da Luigi Palmieri, direttore dell’Osservatorio Vesuviano dal 1855 al 1896, non registrava il sismogramma del terremoto ma il tempo d’inizio e la durata delle vibrazioni. La registrazione era realizzata attraverso la chiusura di un circuito elettrico secondo un principio di funzionamento simile a quello del telegrafo. Questo sismoscopio, di moderna concezione e altamente tecnologico per l’epoca, fu acquistato dal Giappone che alla fine del XIX secolo iniziava a sviluppare un approccio scientifico al problema dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche, problema, come è noto, di grande impatto sociale nel Paese del Sol Levante.
Per la prima volta, il sismoscopio di Luigi Palmieri ha registrato i precursori sismici delle eruzioni, in particolare delle eruzioni del Vesuvio del 1861, 1868 e 1872. Questo strumento è oggi conservato nel museo dell’Osservatorio Vesuviano (Figura 3).
In oltre 160 anni di osservazioni, almeno 12 eruzioni si sono verificate al Vesuvio mentre una persistente attività intracraterica, con esplosioni stromboliane e formazione di piccoli laghi di lava all’interno del cratere del Gran Cono, ha caratterizzato l’attività eruttiva di fondo.
L’ultima eruzione si è verificata il 18 marzo 1944. La sismicità del Vesuvio prima e durante questa eruzione è stata registrata da strumenti ormai più moderni rispetto al sismoscopio di Luigi Palmieri e ha permesso di segnalare in anticipo l’imminenza dell’eruzione e di seguirne l’evoluzione. L’allora direttore, Giuseppe Imbò, ha studiato attentamente l’evento, nonostante l’Osservatorio Vesuviano fosse in quell’epoca occupato dalle forze alleate che erano entrate nel sud Italia nelle fasi finali della seconda guerra mondiale.
L’eruzione del 1944 ha segnato un cambiamento nello stato di attività del vulcano che, da allora, è entrato in una fase di quiescenza, a condotto chiuso, che persiste tutt’oggi. Dopo il 1944, al Vesuvio si sono registrati solo sporadici eventi sismici fino al 1964, quando si è verificato un incremento del tasso di occorrenza dei terremoti. Dal 1972, il monitoraggio sismico del Vesuvio è diventato sistematico. Ciò ha permesso di evidenziare che l’attuale fase di quiescenza è accompagnata da centinaia di terremoti all’anno, localizzati prevalentemente entro i primi 3 km al di sotto dell’area craterica, che hanno piccola magnitudo e generalmente non sono avvertiti dalla popolazione (Figura 4).
Dall’inizio del 2000 fino al 2010 la rete sismica del Vesuvio è diventata sempre più densa di stazioni (Figura 5) raggiungendo una configurazione che ha consentito di localizzare anche terremoti di magnitudo molto piccola. Questo ha permesso di evidenziare due principali volumi sismogenetici al di sotto del vulcano, cioè due zone in cui si originano i terremoti. La prima, tra 100 e 700 m al di sotto del cratere, è molto superficiale e genera terremoti di magnitudo molto piccola (spesso minore di 1) generalmente non avvertiti dalla popolazione residente nell’area. La seconda zona è più profonda, tra 2 e 3 km sotto il livello del mare, e genera terremoti con magnitudo in media leggermente maggiore, tipicamente compresa tra 1 e 3.
Come nella maggior parte dei vulcani, anche al Vesuvio è comune l’occorrenza di sciami sismici ovvero sequenze di terremoti con piccole differenze di magnitudo. Le osservazioni pluridecennali hanno rilevato alcuni brevi periodi di maggiore sismicità come nel periodo 1995-1996 e alla fine del 1999 (Figura 6), durante i quali la popolazione residente nell’area ha avvertito alcuni terremoti. Più di recente, un modesto incremento della sismicità, con alcuni eventi avvertiti dalla popolazione, si è verificato alla fine del 2018. Tra il 29 novembre e il 4 dicembre oltre 100 eventi sono stati registrati (Figura 7), quattro dei quali con magnitudo maggiore di 2 (magnitudo massima = 2.5).
Il più forte terremoto del Vesuvio mai registrato con sismometri di moderna concezione è stato quello del 9 ottobre 1999, con magnitudo 3.6, che non provocò danni, ma fu distintamente avvertito dalla popolazione.
La sismicità osservata negli ultimi decenni è considerata tipica della fase di quiescenza che sta attraversando il Vesuvio dal 1944, tuttavia il monitoraggio continuo di questo e di altri fenomeni geofisici e geochimici (Figura 8) è fondamentale per evidenziare variazioni dello stato di attività che, in caso insorgessero, dovranno essere tempestivamente e accuratamente valutate per comprendere se possano rappresentare precursori della ripresa dell’attività eruttiva del Vesuvio.
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