di Antonella De Francesco

Antonella De Francesco

Qual è la distanza tra l’etica e la morale? Intransigenti si nasce o lo si diventa ? Che peso ha il lavoro che facciamo sulla nostra psiche, sulla capacità di continuare ad emozionarci, di ascoltare chi in silenzio ci cammina a fianco con devozione? Il distacco richiesto da talune professioni e, in particolare, da chi svolge la professione di magistrato, può far perdere di vista la propria umanità e i bisogni primari di chi la pratica? Sono questi gli interrogativi che mi sono venuti in mente dopo aver visto il film Il Verdetto di Richard Eyre, tratto dal romanzo di Ian McEwan.

Emma Thompson recita in maniera ineccepibile il ruolo di un magistrato, Fiona Maye, impegnato presso la corte di Londra e chiamata a decidere ogni giorno su questioni diverse inerenti il Children Act, cioè quella legge che dal 1989 sancisce il diritto dei minori di essere tutelati quando persino i genitori non siano in grado di decidere per loro. Fiona, My lady (vostro Onore) , quotidianamente affronta questioni giuridiche che investono l’etica, la morale e persino la religione, questioni in cui decide del diritto alla vita che, come asserisce lei stessa, viene ancor prima del diritto alla dignità .

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Emma Thompson e Stanley Tucci in una scena del film

Lo fa con zelo e devozione, rinunciando spesso ad avere una vita propria e a sentirsi emozionare come invece faceva qualche tempo prima. Il marito, interpretato da Stanley Tucci, soffre della sua costante assenza e finisce per allontanarsi, preannunciandole l’imminente tradimento, quasi a volerla scuotere dal suo torpore. Ci riesce solo marginalmente perché Fiona e la sua professione richiedono che Lei sia sempre presente a se stessa e non perda mai il controllo degli eventi.

Ma quando ad un certo punto per una questione giuridica da affrontare, Fiona Maye decide di dismettere per un attimo l’abito imparziale e asettico di chi giudica e si spinge ad osservare più da vicino l’umanità che sta dietro alla mera questione di diritto, allora ecco che vacillano tutte le sue certezze, frana la sua intransigenza, emerge il suo animo passionale e le riesce difficile, a quel punto, restare indifferente. E lì che il magistrato deve scegliere se lasciarsi rapire dalle emozioni o allontanarle, perché la destabilizzano ed e lì che, riscoprendosi fragile, davanti a ciò che non aveva previsto, è costretta a rivedere le sue posizioni e a riconsiderare anche le sue questioni personali .

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La compostezza, tipicamente inglese dei gesti e delle eleganti movenze della protagonista, riproducono in modo eccelso tutta la sua rigidità, una rigidità acquisita progressivamente ma necessaria per assolvere al meglio la sua professione. O forse si tratta meglio di una  “missione”, almeno per come la intendono coloro i quali la compiono con costanza e perseveranza, al punto che anche chi li ama stenta a comprenderla fino in fondo.

Una missione che però non può da sola salvare il mondo, perché anche le sentenze giuste ed esemplari non bastano a risolvere disagi esistenziali che vivono fuori dalle aule dei tribunali, bisogni che ineriscono più alla nostra umanità che non ai nostri diritti di cittadini, per cui ricade su tutti noi la responsabilità di rimediare a ciò che la legge da sola non può fare e a garantire la durevole efficacia che deriva della applicazione delle leggi stesse.

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