di Antonella De Francesco
La zona di interesse di Jonathan Glazer è un film difficile da vedere ma che va visto.
Già premiato al Festival di Cannes 2023 con il Premio Speciale della Giuria, è uno dei 5 migliori film dell’anno secondo il National Board of Review ed è candidato a 5 premi Oscar. Il film, tratto dall’omonimo libro di Martin Amis, che non ho letto, per cui non posso valutare quanto gli sia fedele, narra la storia del comandante di Auschwitz Rudolf Höß e sua moglie Hedwig che realizzarono il loro sogno di una vita con una famiglia numerosa, una casa e un grande giardino in un terreno direttamente adiacente al muro del campo di Auschwitz.
Ci sono tanti pregevoli film sull’olocausto ma il punto di vista di Glazer è nuovo e geniale. L’orrore pervade l’intera pellicola dall’inizio alla fine ma non si vede, piuttosto si sente e nel sentirlo ciascuno spettatore ricostruisce le immagini che ben conosce dalla storia nella sua mente, interiorizzandole ancora di più. La famiglia di Höb si muove in una sorta di grande fratello che la osserva da lontano senza mai un primo piano, perché il regista non perde mai di vista quel muro e le riprese a tutto campo di fiori e di morte gli sono necessarie.
La famiglia vive e convive con latrati di cani, spari nella notte, urla strazianti senza mai distogliersi dal suo fare quotidiano e lo stupore per tanta normalità travalica ogni ragionevolezza e li condanna più di quanto potrebbero fare 1000 immagini di morte. Nessuno di loro si chiede cosa accada oltre quel muro perché lo sa già, pur non essendone turbato. La fabbrica di morte non li distoglie dai loro affetti familiari: un cane, i cavalli, i fiori concimati con i resti dei forni crematori. Accettano doni appartenuti a chi forse è già morto proprio dietro quel muro o sta per farlo nel buio della notte. E lo spettatore resta impietrito davanti a quei magnifici fiori coltivati con cura mentre pennacchi di fumo nero si levano sul cielo limpido che a volte si fa schermo rosso sulle note del sottofondo musicale perfetto di Mica Levi, di rintocchi metallici e rumori ovattati che scandiscono l’orrore.
Un’opera immensa sulla perdita di umanità e sulla banalità del male, ma anche sulla vicinanza di certi orrori che si compiono a poca distanza da noi e che tutti fingiamo di ignorare, intenti e assorbiti dalla nostra quotidianità. In un mondo che ipocritamente censura le immagini violente, Glazer ci fa rivivere tutto l’orrore della Shoah senza immagini e ci esorta a svegliare le nostre coscienze dal torpore di questi tempi, a non voltarci dall’altro lato e ad ascoltare le atrocità che si compiono tutti i giorni ad un passo dalle nostre stesse esistenze . Da non perdere !
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