Cinquant’anni fa la storica prima affermazione della Nazionale azzurra di calcio in Inghilterra
di Adolfo Fantaccini
Da Highbury a Wembley passarono esattamente 39 anni, da Wembley a oggi ne sono trascorsi 50. I leoni che ruggivano a cavallo delle due guerre, conquistando due Mondiali e un’Olimpiade a Berlino, lasciarono il posto a quel che restava dei ‘messicani’, una generazione di calciatori dalla classe cristallina e di grande temperamento che, poco più di tre anni prima di quel 14 novembre 1973, avevano scritto una delle pagine più esaltanti della storia del calcio azzurro: nello stadio Azteca, a Città del Messico, firmando il 4-3 sulla Germania Ovest.
Quando quella sera di metà novembre, sotto una fitta e inglesissima pioggerellina, scesero in campo i reduci da ‘Messico ’70’ (Zoff, Facchetti, Burgnich, Rivera, Riva), ai quali nel frattempo il ct ‘Uccio’ Valcareggi aveva affiancato dei giovani di belle speranze (Spinosi, Benetti, Bellugi, Causio, Capello, Chinaglia), c’era un tabù da sfatare: la Nazionale italiana, infatti, non era mai riuscita a battere i ‘maestri’ del calcio nella loro ‘tana’, in quello stadio Imperiale che incuteva timore già dall’esterno, come dall’interno anche con gli spalti vuoti. Gli azzurri avevano domato per la prima volta nella storia i ‘leoni’ inglesi il 14 giugno di quello stesso anno, a Torino, nell’amichevole organizzata per celebrare i 75 anni della Figc: Anastasi e Capello avevano fatto breccia, ma mai prima d’ora l’impresa era riuscita al di là della Manica.
La sfida a casa degli inglesi, che l’Italia vinse con un gol del solito Capello, a soli 4 minuti dalla fine, era stata presentata poco simpaticamente dai tabloid inglesi come quella contro la squadra dei ‘camerieri’, con chiaro riferimento al passato di Giorgione Chinaglia in Inghilterra. “Ricordo ancora il ruggito di Wembley e quasi mi tremano le gambe – racconta Dino Zoff, uno degli eroi di quella serata indimenticabile, irripetibile – In campo gli inglesi spuntavano da tutte le parti e per me fu tutt’altro che una serata tranquilla. Volevano vendicare il 2-0 subito a Torino e ci tenevano a ristabilire le gerarchie, dunque partirono all’attacco e ci schiacciarono nella nostra trequarti: a turno tirarono tutti, palloni su palloni”.
L’Italia, però, poteva contare su un Rivera alquanto ispirato, che orchestrava con la consueta maestria i contropiede degli azzurri; i quali pungevano, approfittando del minimo varco. Gli inglesi, grazie anche a un super-Zoff, capirono subito che sarebbero andati a sbattere contro un muro. “C’era questa fitta pioggerella e il pallone sembrava una saponetta – racconta ancora il grande ex portiere – Loro ci provarono da tutte le parti, in tutti i modi: di testa di piede, con incursioni dalle retrovie, sui calci piazzati, in acrobazia. Resistemmo, mettendo in mostra un perfetto dispositivo di difesa. L’Inghilterra ci aveva sempre messi sotto, c’era in noi questa specie di complesso d’inferiorità da superare anche se, cinque mesi prima, a Torino, avevamo capito che i nostri avversari non erano così insuperabili. E alla fine fu un trionfo”.
All’86’ Chinaglia fuggì via sulla destra con la palla al piede, servito da Capello – continuò a seguire l’azione – superò in progressione Bobby Moore e tirò in porta, Peter Shilton respinse sui piedi dell’accorrente Capello che, con un destro sporco, insaccò a porta vuota. “Fu straordinario – ricorda Zoff – Festeggiammo, però, con una certa sobrietà. Penso che quel successo, per importanza e prestigio, nella mia carriera venga subito dopo il Mondiale ’82, l’Europeo ’68 e la Coppa Uefa vinta con una Juve tutta italiana nel 1977, a Bilbao. Quella Nazionale era un mix di esperienza e freschezza, ma riuscì a scrivere ugualmente una pagina indelebile nella storia del calcio italiano. Forse solo due o tre squadre, prima di noi, erano riuscite a espugnare una cattedrale del calcio come Wembley. Vincere in quello stadio era il massimo per qualsiasi calciatore”.
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