di Antonella De Francesco
Il film Die my love, della regista Lynne Ramsay, tratto dal romanzo di Ariana Harwicz e prodotto da Martin Scorsese è un pugno allo stomaco dall’inizio alla fine, un viaggio nella mente di una giovane donna che ha appena partorito. Un film di poche parole dove il messaggio arriva per immagini e non lascia spazio a fraintendimenti.
Il corpo di Jennifer Lawrence nei panni di Grace, giustamente candidata all’ Oscar come miglior attrice protagonista, ci mette di fronte all’inferno che può scatenarsi nella mente di una donna dopo il parto quando la “madre” e la “femmina” (concedetemi questo termine ), si trovano a convivere, quando quell’essere a cui devi tutte le premure e le attenzioni e al quale sei inesorabilmente legata per sempre, ti prende ogni linfa vitale, ti toglie il sonno e ti relega all’unico ruolo di cui ha bisogno, ma che a te non basta. Il suo pianto c’è sempre nella mente di una madre, anche quando non c’è, sarà capitato anche a voi di alzarvi nel cuore della notte per controllare se il bimbo piange, ma Grace ne è ossessionata. Ogni giorno l’accudimento fatto di routine e pochi gesti estenuanti e senza fine scavano nella sua mente un baratro che l’allontana progressivamente e inesorabilmente dal mondo esterno e dagli altri affetti.
Che ne è stato della donna sensuale a cui il marito non poteva resistere e perché lui torna sic et simpliciter alla vita di prima, fatta di lavoro e di rapporti sociali, mentre lei resta con quel minuscolo esserino tra le braccia, lontana da tutti e invisibile ai più? È un declino graduale ma irreversibile in un abisso di emozioni, allucinazioni, simboli e sogni che lo spettatore non sa mai se immaginari o reali, mentre guarda lo schermo in un crescendo di tensione emotiva e di pena, ecco che arriva lo schianto di Grace (metaforico e reale) da qualche parte, su uno specchio o contro un vetro. Grace sta male e non sa esprimerlo se non attraverso le sue folli azioni e la sua aggressività verbale che si placano solo con il suo bambino. A lui resta sottomessa, da lui è vinta, lui che è tutto il suo mondo, ma un mondo che non le basta più e dal quale non può scappare.
Il film parla anche di solidarietà femminile perché la suocera Pam, magistralmente interpretata da Sissy Spacek, le è vicina. Lei, anziana , segnata dalla vita e dalla morte del marito (Nick Nolte) è la prima a carpire il suo malessere, lo riconosce, ci è già passata, avvisa il figlio, Jackson (Robert Pattinson) , lo mette in guardia, cerca di dare una mano se non fosse che Grace rifiuta ogni collaborazione, allontana chi le tende la mano, prova sdegno per tutto ciò che è “normale” perché per lei semplicemente non è così .
Il film si distingue per una regia cruda e mai melensa che alterna sapientemente riprese in ambienti claustrofobici, che sembrano chiudersi addosso a Grace, a distese boschive senza confini, quasi da western, dove il senso di smarrimento e solitudine si fa ancora più profondo. Questi contrasti visivi riflettono lo stato d’animo della protagonista: la casa diventa prigione, mentre la natura sconfinata non offre comunque vie di fuga, ma ne amplifica il senso di isolamento. Gli occhi di Grace, che diventano il filo conduttore emotivo del film, sono una costante richiesta di aiuto a tutti noi e riportano l’attenzione su un tema troppo spesso sottovalutato, soprattutto dal mondo maschile: la sofferenza psicologica delle madri nel periodo post-partum.
Per pochi/e e selezionati, da vedere.
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di Gaetano Perricone
Ci sono anch’io, stavolta. Ho avuto, per la prima volta, il grande piacere e l’esperienza interessantissima di vedere questo film così difficile, impegnativo, duro,  insieme all’autrice di questa ancora una volta straordinaria recensione. Riesco ad apprezzarne ancora di più il valore proprio perché i miei occhi erano accanto ai suoi nel guardare immagini che dicono tutto, sentire poche parole quasi sempre dolorosissime, pensare e giudicare quello che vedevamo. E non ho alcuna difficoltà, da giornalista di vecchio mestiere, a confermare un’opinione già espressa: Antonella De Francesco è un eccellente critico cinematografico, lo scrivo al maschile perché non riesco a fare diversamente.
Sui contenuti di Die, my love ho ben poco da aggiungere. Non solo perché Antonella ha detto e scritto tutto con analisi perfetta e chiarissima, anche di fronte a un film per niente facile, pieno di complessità e aspetti psicologici, psicanalitici, psichiatrici diversi. Non sono proprio in grado di aggiungere altro perché non essendo mai stato padre, non ho mai fatto l’esperienza diretta di stare accanto a una madre che abbia attraversato le problematiche post parto che, nel film, dilaniano tragicamente la vita di Grace. Dopo il film, Antonella De Francesco commentava, ragionevolmente, che è una storia soprattutto per donne. Ma è altrettanto vero che un uomo giovane e non solo che guarda in Die, my love cosa può accadere, in modo estremo nel caso di Grace ma drammaticamente possibile, dopo che la mamma di suo figlio lo ha messo al mondo, può riflettere profondamente e perfino attrezzarsi a una più forte e solidale vicinanza. Oppure, finisco con una provocazione semplicistica e brutale da uomo mai padre, pensarci cento volte prima di mettere su famiglia …

Antonella De Francesco

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