di Antonella De Francesco

Father mother sister brother di Jim Jarmusch, vincitore del Leone d’Oro all’ultimo Festival del cinema di Venezia, è un film disperato sulla fine delle relazioni familiari che si sgretolano per le distanze vere o virtuali, per i silenzi troppo prolungati, per l’eccesso di autonomia che ciascuno di noi esige con prepotenza. È un film sulla mancanza di circolarità dei sentimenti che io e quelli come me abbiamo cercato di mantenere oltre le perdite, in barba alle separazioni e alle delusioni, con l’intento di restare vivi.

Niente a che vedere con il remake di Stanno tutti bene ( con uno strepitoso Robert De Niro) che forse riesce ancora a salvare qualcosa della sua famiglia, mentre qui non c’è più niente da salvare se non la finta consapevolezza che “loro” stanno bene . E di “loro” non possiamo né, in fondo vogliamo, sapere tutto, perché oggi andare a fondo nelle cose ci fa male.
L’unico filo di speranza resta per brother and sister che si ritrovano soli e fratelli, uniti nel lutto che li accomuna, ma incapaci di farsi carico dell’unica responsabilità a cui sono chiamati e che non vi svelerò.

Questa parte del film mi ha toccata particolarmente perché svuotare la casa di famiglia è il viaggio più doloroso a cui siamo chiamati: decidere di disfarci di tutto ciò che per noi figli è irrilevante ma per chi ci ha cresciuto era importante, tradirli ancora una volta o per la prima volta è brutale. Accumuliamo in vita tutta una serie di oggetti che dicono di noi ma che non parlano più a chi resta, una volta che ce ne saremo andati. Non “oggetti” dunque, ma “gesti”: abbracci veri, sorrisi spontanei, solidarietà e vicinanza nel quotidiano è questo l’unico senso della vita per costruire quel bagaglio di ricordi che almeno i più accorti e sensibili di noi serberanno con cura per sempre . Sconsigliato ai “deboli” di cuore e da evitare sotto le feste …



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