(Gaetano Perricone). Mario Mattia non ha soltanto la passione, ma anche un grande talento per la scrittura, ho avuto il piacere di leggere diverse sue cose e, da estimatore e amico, gli ho detto spesso di coltivare questo suo “dono”. Sono dunque molto felice, con il consenso dell’autore, di condividere da INGVVulcani sul mio blog per i lettori de Il Vulcanico la prima parte di questo suo racconto, viaggio appassionante e intrigante tra scienza e letteratura. Lo stesso farò ogni settimana con le parti successive.  

Se conoscevo il talento di Mario, ho scoperto adesso quello di Catherine Lemercier per l’illustrazione: i suoi disegni, per la cui pubblicazione abbiamo anche in questo caso il consenso dell’autrice, sono davvero bellissimi e rappresentano un prezioso arricchimento per il racconto.

Mario Mattia

Racconto di Mario Mattia

Disegni di Catherine Lemercier

Introduzione

Con la narrazione fantastica di Mario Mattia, ricercatore dell’INGV di Catania con la passione per la scrittura, il blog INGVvulcani propone ai suoi lettori contenuti sui vulcani e sulla loro attività, ma tradotti in una forma inusuale per un blog scientifico: il racconto.

Siamo in un’isola vulcanica del Mediterraneo, Pantelleria, sfondo e protagonista di avvenimenti reali e immaginari ma verosimili, conditi da un pizzico di magia. Per il contenuto e l’ambientazione, pensiamo che questa storia possa piacervi, come è piaciuta a noi, ed essere una gradevole lettura estiva.

Il racconto, suddiviso in cinque parti, sarà pubblicato con cadenza settimanale a partire da oggi, e ci accompagnerà fino alla fine di agosto.

Ringraziamo Mario per il suo originale contributo e invitiamo i nostri lettori a esprimere il loro gradimento attraverso il modulo contatti.

Buona estate a tutti!

Nota dell’autore: in questo racconto ho dovuto “inventare” davvero pochissimo. Perchè Pantelleria è un’isola magica, dove vulcani sottomarini, fate e misteriose principesse trovano il luogo ideale per tessere le loro ragnatele nelle quali è facile essere dolcemente catturati.

Seduto su una enorme fune raggomitolata, Annibale Riccò alzò lo sguardo verso le nubi basse e scure che si avvicinavano da levante. Il ponte del postale “Bagnara” era ancora umido per la pioggia del giorno precedente e i marinai che stavano annodando le cime di uno dei due alberi facevano fatica a restare in piedi senza scivolare e, tra loro, indicavano le nubi scuotendo la testa.

Tornò a rileggere il telegramma ricevuto tre giorni prima.

Roma 18 ottobre 1891

Colla presente sollecito Sua illustre presenza presso Pantelleria, testé sconvolta fenomeni tellurici rilevante entità. Auspichiamo tempi rapidi per Sua attesissima relazione stato situazione. Ogni spesa carico Ministero.

Firmato

Direttore osservatorio geodinamico Tacchini

Con un gesto lento e misurato, lo posò tra le pagine del suo diario.

Il maltempo, che si era abbattuto all’improvviso sulla Sicilia, stava rendendo faticoso e lento il suo viaggio da Catania a Pantelleria. La tempesta portata da quelle nubi basse e scure colpì il vascello poche miglia fuori dal porto di Marsala, portando con sé raffiche violente di pioggia che costrinsero i pochi passeggeri a rifugiarsi sottocoperta. Laggiù, la puzza di pesce marcio e le onde che alzavano l’imbarcazione per poi farla precipitare, erano tali da far urlare di paura due donne sedute accanto a lui e da scatenargli malesseri cui pensava di essere indenne. Ma, ore dopo, dovette tirarsi su dall’angolo dove stava piegato in due ad occhi chiusi e andare a protestare con tutte le sue forze allo scopo di ottenere dal comandante la possibilità di sbarcare a Pantelleria, anziché proseguire fino a Tunisi, destinazione finale del postale.

Anche lo sbarco fu complicato a causa del mare grosso, tanto che Riccò, nel passaggio dal postale ad una barca che era stata inviata dal sindaco di Pantelleria, si fece male ad una caviglia saltando da un’imbarcazione all’altra.

Il sindaco, il consigliere provinciale Errera e il capitano del presidio ricevettero l’illustre ospite ancora sconvolto dal mal di mare e lo accompagnarono nel suo alloggio. A Riccò, scienziato catanese di chiarissima fama, fu riservato un trattamento speciale e il sig. Errera, medico e naturalista locale, volle ospitarlo nel suo «dammuso» (la tipica abitazione pantesca) fuori dal centro abitato, in una contrada chiamata Sant’Elmo.

«Qui si troverà bene, professore!» disse Errera mostrando le tre stanze ben arredate e confortevoli della casetta. La «conca» con il carbone ardente doveva essere stata messa fin dal primo mattino, perché la casa era piuttosto calda.

«La giovane Maria si occuperà di lei – disse Errera con visibile soddisfazione – e farà la spola tra qui e casa mia, a poche centinaia di metri, dove potrà trovare tutto ciò che le occorre.»

Riccò poggiò la sua borsa sopra il tavolo in legno scuro che occupava il centro di quello che poteva essere considerato il salone dell’abitazione e si guardò intorno.

«E’ molto bello. La ringrazio per questa accoglienza» disse con voce stanca.

Maria prese la borsa e la portò nella stanza da letto. Era magra, di carnagione olivastra, con i capelli neri legati in una treccia che le ricadeva sopra la spalla sinistra. I suoi lineamenti erano dolci e lo sguardo con cui fissava negli occhi ogni interlocutore tradiva un carattere insolito per una giovane di umile condizione come lei. Riccò la osservò mentre prendeva da un cestino un bellissimo mazzo di una strana pianta, dal lungo fusto verde e con foglie rosso cupo attraversate da sottili linee scure, e lo sistemava in un vaso di terracotta.

«Che fiori meravigliosi, Maria. Come si chiamano?»

Maria alzò le spalle.

«No sacciu, sono rari e il posto segreto dove se ne trovano tanti è anche il mio posto segreto.»

«Maria è una brava erborista, ma qui c’è un medicinale speciale!» disse Errera tirando fuori dalla vetrina della credenza una bottiglia di liquido ambrato.

«E ora, prima di discutere su cosa sta succedendo in quest’isola, beviamoci un goccio di passito» aggiunse l’uomo cercando due bicchieri nella piccola cucina adiacente il saloncino.

Pantelleria, 22 ottobre 1891

Caro Giovanni,

Sono arrivato da poche ore a Pantelleria dopo un viaggio disastroso. Ho ancora lo stomaco sottosopra per il mal di mare e sono già passate otto ore da quando sono sbarcato!

Non ho potuto vedere il luogo dell’eruzione, che si trova circa cinque chilometri a Nord-Ovest del centro di Pantelleria. Qui ho trovato gente molto ospitale e subito ho fatto un giro per capire come stanno le cose. Già da maggio dello scorso anno si susseguono terremoti e sconvolgimenti. Pensa che in soli quindici giorni un tratto di quasi sette chilometri della costa Nord-Est dell’isola si è sollevata di quasi un metro! La gente è terrorizzata e tanti, anche tra persone distinte e dotate di buona cultura, mi chiedono se devono dare credito alla leggenda secondo la quale l’isola, dopo essere «salita» di qualche metro, sprofonderà nel mare, inghiottendo case ed abitanti. Probabilmente la recente vicenda dell’isola Ferdinandea, nata da un’eruzione nel 1831 e inghiottita dalle onde qualche mese dopo, è ancora viva nella memoria di questa gente!

Giorno 17 ottobre scorso qualcuno ha visto una specie di onda gigantesca levarsi all’improvviso. Si pensava ad una balena e invece poco dopo è cominciato un lancio di enormi blocchi sferici di lava che, dopo essere stati espulsi dalle profondità marine, si frammentavano in mille pezzi di spugna nerissima che galleggiava e creava una striscia visibile a occhio nudo dal porto di Pantelleria. Sono ansioso di vedere questo prodigio, mio caro amico. Intanto ho montato alcuni degli strumenti che, con grande fatica, mi sono portato dietro da Catania per poter rilevare sia i terremoti che eventuali cambi di inclinazione dell’isola per spinte tettoniche. Sono anche stato in questo sublime lago di acqua alcalina bianca e azzurra che qui chiamano Bagno dell’Acqua. Che posto fantastico! Ho già incontrato decine di persone che mi hanno riempito la testa di racconti a metà tra lo scientifico ed il fantastico. Sorgenti improvvisamente prosciugate, pesci con gli occhi fuori dalle orbite trovati in grande quantità a pochi metri dalla riva, schizzi violenti d’acqua bollente da polle che qui chiamano caldarelle. E poi i continui tremori, che hanno convinto i panteschi a scappare via dal paese e a rifugiarsi nei dammusi o, molto spesso, a dormire all’aperto, in grotte, in pagliai o in depositi utilizzati per gli attrezzi.

Prodigi, amico mio, prodigi!

Annibale

Posò la penna sul tavolo e richiuse la bottiglietta di inchiostro con cura, per evitare che l’indomani, in giro per l’isola, si versasse. Il suo amico Giovanni Verga, scrittore e compagno di tante serate di discussione e approfondimento culturale avrebbe apprezzato le sue lettere e magari sarebbero diventate materiale per qualche prossimo libro.

Quando alzò gli occhi vide Maria in piedi che lo guardava, in silenzio.

«Che fai ancora qui? Un’ora fa ti ho detto che potevi tornare a casa.»

La ragazza si voltò verso la finestra che si affacciava sul piccolo giardino dove minuscoli alberi di fico strisciavano per terra e si allargavano fino a coprire il muretto di pietre verdastre dell’ingresso. Poi guardò negli occhi l’uomo e si portò l’indice teso davanti al naso, ad indicare di star zitto.

«Maria… che succede?»

Riccò si alzò dalla sedia e la seguì verso quella piccola finestra nel muro bianco del dammuso, oltre il quale si vedeva solo il buio, spazzato da un impetuoso vento di maestrale.

«Insomma, che succede?»

Lei non rispose e con la mano indicò un punto laggiù, nella campagna che circondava la piccola costruzione.

L’uomo guardò lì fuori ed ebbe per un attimo l’impressione che una figura bianca si spostasse verso il vicino orto, chiuso da un alto muretto a protezione dei preziosi frutti dal vento che spazza l’isola.

Quando si voltò per chiedere spiegazioni alla ragazza, notò che una lacrima le solcava la guancia destra.

«Maria – disse Riccò con voce calma ma decisa – chi c’era là fuori?»

«Vossia non se ne incarica, gente che cerca a mmia. Si curcassi tranquillo» rispose mentre usciva e richiudeva la porta dietro di sé.

La ventata gelida che entrò in casa lo fece rabbrividire. Con gli occhi seguì quella esile figura che, senza nessuna paura, camminava, come se il vento non la potesse sfiorare, verso le luci della casa di Errera.

L’indomani si svegliò molto presto. Fuori, il vento si era calmato e un pallido sole, velato da nuvole che si spostavano verso ovest, stava riscaldando la sedia dove si sarebbe seduto a consumare il latte, caffè e biscotti che Maria aveva lasciati sul tavolo.

Dopo pochi minuti, qualcuno bussò e si ritrovò sommerso dal fiume di parole di Errera che, continuando a parlare senza sosta, lo portò a casa del sindaco. Lì, lo aspettavano un ragazzo magro e con una buffa barba caprina che si presentò come Giuseppe D’Ancona, studente di Scienze Naturali, e un omone con grandi favoriti grigi, in divisa della Regia Marina. Era il comandante De Libero, della nave «Bausan».

Finalmente, infatti, era giunta l’ora di andare a vedere il luogo dell’eruzione.

Quando salirono sul calessino che li avrebbe portati al porto, Riccò si sedette vicino ad Errera.

«Ieri c’era qualcuno davanti al dammuso dove mi ospitate.»

«Davvero? Lo avete visto?»

«No…Maria mi ha detto di avere sentito qualcosa, ma io ho visto solo una macchia bianca che scappava via.»

Il giovane D’Ancona cominciò a sorridere.

«Io a Maria devo moltissimo… l’anno scorso mi ha salvato da una colica renale che mi stava ammazzando. Però sarebbe ora che Maria si maritasse, signor Errera,

ha già vent’anni! Sarà stato qualche spasimante!»

«Già. Qualcuno che va dietro alla sua gonnella» ribadì l’uomo aggiustandosi i baffi con un gesto nervoso.

Lo scienziato non insistette, anche perché il comandante cominciò a parlare con entusiasmo dei misteriosi fenomeni che aveva visto in mare nei giorni precedenti e che tra breve gli avrebbe mostrato da vicino.

E Riccò si rese subito conto che l’ufficiale non aveva esagerato.

Subito videro i gas che si levavano dal mare, e getti di vapore improvvisi che si allargavano come una rosa di pallini sparati da un fucile da caccia. Lo scienziato si eccitò come un bimbo cui è stato regalato un meraviglioso giocattolo quando vide da vicino la lunga striscia nera di blocchi di lava galleggiante. Ogni tanto uno di questi blocchi, con un sibilo assordante, partiva a razzo verso l’alto o sfrecciava a pelo d’acqua, oppure camminava a salti emettendo spruzzi di gas che lo facevano balzare e cadere di nuovo in mare.

«Non ho mai visto niente del genere» urlò al giovane D’Ancona che lo stava aiutando a salire sulla lancia che li avrebbe portati a guardare da vicino quello spettacolo.

«Nessuno ha mai visto niente del genere!» gli urlò a sua volta il ragazzo.

«Sono veri e propri palloni di lava!» disse Errera mentre con un remo cercava di tirarne uno verso di sé.

La lancia si portò verso il centro di emissione di questi palloni e i marinai si preoccuparono quando cominciarono a sentire gli urti degli enormi massi spugnosi pieni di gas a pressione che sbattevano sul fondale della barca, facendola sbandare e scarrocciare, quasi si trattasse di onde durante una mareggiata.

Ad un tratto, Riccò prese dal fondo della lancia un bastone di ferro, di quelli che si usano per agganciare le funi delle navi e, con un colpo deciso, spaccò la crosta di uno di questi palloni. Ne fuoriuscii un getto di vapore che creò uno spettacolare effetto come di decine di arcobaleni che si allungavano con curve più o meno concave, nelle più varie direzioni.

Uno spettacolo che fece tacere per un paio di minuti tutti i marinai e gli ospiti sulla barca.

«Mio Dio… ma che… » gridò in preda all’estasi lo scienziato.

Aveva appena finito l’espressione di stupore che un blocco cominciò a volare verso di loro a grande velocità. Lo studente e Riccò fecero in tempo ad abbassarsi prima di esser colpiti, ma non fu altrettanto veloce il capitano del presidio Canino, che ricevette in volto un pezzo di quella lava bollente. L’uomo cominciò ad urlare dal dolore e fu soccorso dai marinai che subito ripulirono la ferita con acqua di mare.

Fu portato sulla «Bausan» dove lo prese in cura il medico di bordo, mentre la lancia restò in alto mare ad eseguire misure geodetiche che permettessero la stima del punto esatto di emissione del flusso di blocchi pieni di gas. Riccò lavorò per ore in preda ad una furia che fece trasalire i suoi compagni di viaggio, eseguì decine di misure angolari con Punta Fram e Punta Karuscia e le rapportò con l’altezza del Semaforo, effettuò misure della striscia di blocchi neri galleggianti, raccolse decine di quei blocchi, facendo uscire in modo controllato i gas, per misurare, inserendo diversi metalli con temperatura di fusione nota, le temperature interne, misurò la temperatura dell’acqua, osservò le gigantesche bolle di gas che risalivano in superficie e infine, mentre tutti erano stremati per le lunghe ore passate in un mare per niente calmo, volle misurare la profondità nel punto di massima emissione. Dalla nave portarono gigantesche sagole con scandagli da venticinque chili attaccati e fu necessario collegarne due per raggiungere la profondità di circa trecentoventi metri.

«Questo spiega perché sentiamo pochi boati» spiegò al giovane studente che stringeva le mani ormai piene di ferite per le decine di blocchi che aveva dovuto afferrare. Ma proprio in quel momento si sentì uno di questi strani rumori che ebbe il potere di terrorizzare i marinai che cominciarono a guardare con ansia verso la nave, lontana da loro circa un miglio. Si trattava di un suono basso, lugubre. Come una lunghissima «u» che si alzava di tono.

«Fa venire i brividi» disse lo studente.

«Già – disse Riccò guardando i volti distrutti degli uomini intorno a sé – ma adesso sarà meglio rientrare.»

1- Continua

Le illustrazioni con il titolo e all’interno sono di Catherine Lemercier 

Prodigi – introduzione e parte prima

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